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Perché un romanzo

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La più bella è stata quando è scappato un cane. Ero lì, che provavo a parlare del mio romanzo, e tutto il pubblico d’improvviso si alza e comincia a inseguire il cane, la padrona del cane, l’amica della padrona del cane, e tutto il pubblico urla il nome del cane. Mentre io resto col microfono in mano, a sentire voci sempre più lontane che gridano “Agata! Agataaaa…!”, e scopro che Agata è appunto il cane. Poi il pubblico, sorridendo, rientra: Agata si accuccia ansimante di fronte a me e mi guarda allegra, felice di avermi rubato un po’ la scena.

Un’altra è stata la signora che al momento delle domande chiede il microfono, si alza, si presenta, e scandendo bene le parole mi chiede se ci si possa fare lo shampoo col detersivo per piatti. Perché lei una volta l’ha provato, spiega, e ha ancora tutti i capelli. Guardi qua, tutti i capelli, mi fa. Le do la mia solenne autorizzazione a farsi la doccia col Nelsen al limone. Mentre tutti ridono, rimugino: non ho mai scritto di igiene personale né di cosmetica e il mio romanzo non contiene nemmeno una scena in cui qualcuno si lava. O no?

Il mio romanzo non contiene nemmeno scene in cui qualcuno fa sesso. Cioè: si capisce che più o meno tutti lo praticano. Però più o meno: in effetti più o meno. E proprio la protagonista no. Me lo hanno chiesto più volte: perché la tua protagonista rifiuta, o sceglie di non…? Ci siamo capiti. Ho dovuto spiegarlo cercando di evitare il grottesco: ho scritto in prima persona, ma quella non sono io, e io, insomma, io sto bene. Grazie per la premura, ma sto bene. La mia protagonista ha qualche difficoltà con sentimenti e relazioni… Ma insomma: non potreste farvi i fatti vostri? Un’altra signora mi ha chiesto direttamente se sono sposata. E con chi.

Ecco. Se sei abituato alla saggistica scientifica, alle presentazioni dei libri non hai mai visto accadere niente di così strano. Semmai c’è la maestra che ti vuole parlare del prodigio di gatto che dimostrerebbe le teorie di Darwin sul tappeto di casa sua, o l’ingegnere in pensione che ha scoperto come estrarre la musica dal vento. Poi c’è tutta la categoria di quelli che hanno unificato le forze, scoperto il moto perpetuo, usato le energie del blabla per curare le malattie, quelli che ce l’hanno con Big Pharma e Big Tutto, quelli che hanno visto gli ufo, quelli che non li hanno visti ma ci parlano, quelli che hanno trovato un errore nel tuo saggio che forse non è proprio un errore ed è più un pretesto per chiacchierare. Ma è diverso.

L’ho scoperto quando è uscito il mio romanzo.

Credo che sia perché con la narrativa hai a che fare con gente più o meno normale (gente che non cerca di estrarre la musica dal vento, in questo senso normale) che grazie a un romanzo si trova in intimità con quello che l’ha scritto. E quindi non trova strano confrontarsi e raccontare dei propri figli e dei propri dolori, o inseguire il cane di una sconosciuta. Non so. Io non c’ero abituata: sarà che sono più timida di quel che cerco di mostrare. Di certo, anche al netto del cane Agata e del Principe dell’Emorroide (questa la racconto solo in privato), sono stata felice di scoprire che con un romanzo puoi toccare i sentimenti di chi ti legge, anche se, in fondo, ci hai messo dentro un sacco di scienza. E allora la domanda “lo hai scritto per questo, vero furbacchiona? Per parlare di scienza senza darlo a vedere eh?” è lecita. Ma la risposta vi deluderà.

No. Ho scritto un romanzo più o meno perché mi è capitato. Perché avevo un’idea che anche altri ritenevano buona, perché ho deciso di prendermi due o tre anni per provare una scrittura diversa. E perché credo che descrivere le cose che succedono sia il mio mestiere, e sono abituata a usare forme varie di racconto della realtà senza vederci troppe differenze. Poi, come credo succeda a tutti, volevo scrivere un romanzo che avrei apprezzato anche da lettrice. Consapevole di non essere nata Tolstoj, ho cercato di capire che cosa mi piace nei romanzi che mi piacciono. E ho realizzato come, da lettrice, apprezzo i romanzi che mi danno una nuova lettura e nuove parole per parti di mondo su cui non ho un’idea, un lessico, uno schema. È la solita domanda, sul “perché si legge”, che a un certo punto per me è diventata “perché si scrive”. Mi sono risposta che voglio scrivere come leggo, cioè per capire e partecipare al dibattito, perché continuo a sentirmi una raccontatrice della realtà anche quando scrivo storie inventate.

In particolare volevo fare una satira su un fenomeno di cui si parla solo in termini giornalistici o conflittuali. Cioè la nostra difficoltà a maneggiare le faccende di salute, che vorremmo (e dovremmo) gestire in maniera sempre più consapevole, ma che spesso vengono inquinate da questioni di marketing, così come da ideologie, ragioni identitarie, appartenenze. Oppure, più spesso, dalla nostra invincibile presunzione, e dalla nostra, altrettanto invincibile, predisposizione a prendere cantonate che la nostra presunzione ci impedisce di ammettere. Che poi è fondata sempre sulla stessa psicologia, terribilmente umana e altrettanto divertente. Così ho scelto i personaggi ed estremizzato le situazioni buffe, ho disegnato caricature (la protagonista è una mia caricatura, ma io, lo ribadisco, sono un bel po’ più sana di mente), ho cercato di strizzare tutto in un’estate in cui non faccio succedere niente di catastrofico se non un parto, un intervento chirurgico e un sacco di chiacchiere. Soprattutto ho studiato. Perché gli scrittori che amo di più non si siedono al computer pensando di avere in testa una storia che interesserà tutti, la scrivono e stanno bene così. Ma sono quelli che studiano, lo senti che studiano: è così che ti fanno scoprire cose solide, restituendotele sotto forma di racconto di una realtà che grazie a loro impari a vedere, a leggere e a dire.

Ma, ecco il punto, non ho scritto con intenzioni didattiche, anche perché se c’è una cosa che detesto è la didattica della scienza che fa finta di essere qualcos’altro. In fondo, da lettrice, io ho prima di tutto un patto col libro: leggo perché mi voglio divertire. E mi diverte scoprire storie, cimentarmi con una psicologia complessa, farmi domande, scoprire qualcosa che non so, a volte anche commuovermi. Non mi diverte la buffonata di scienza buffona che crede di poter essere apprezzata solo se fa finta di non essere proprio soltanto scienza. Mi diverte la scienza che si dichiara scienza senza paura di essere respingente, e mi diverte un libro scritto bene: se poi contiene macigni di scienza, che problema c’è? La scienza non è una parte nobile e antica della nostra cultura? Chi lo ha detto che non può stare nei romanzi? (E avete notato quanta scienza c’è nei buoni romanzi?).

Anche perché per il tema che volevo affrontare, certe questioni fondamentali della scienza sono tra noi tutti i giorni. Per raccontarle, uno come me può decidere di studiarle e di studiare i modi con cui sono calate nelle nostre vite. E una delle forme per rendere questa riflessione dibattito può essere, perché no, anche il romanzo.

Prendiamo l’idea di malattia. Che cos’è? Siamo noi che ci sentiamo poco bene, e affermiamo noi stessi malati, o è l’etichetta che ci dà il medico, che legge nel nostro organismo i segni di un problema biologico? Guardate che ci sono diverse migliaia di pagine di filosofia della medicina da queste parti. Ma in un romanzo posso provare a schematizzare affidando a due personaggi diversi i due modelli di pensiero, quello più normativista (il primo) e quello naturalista (il secondo, che appartiene soprattutto a chi, come me, abbia studiato per diventare medico). E farli dialogare, litigare, contraddirsi, becchettarsi, e magari poi innamorarsi. Niente di straordinario, in fondo. Ci aveva già pensato un certo Galileo Galilei (si parva licet). Poi si può andare più nel dettaglio. Che cosa significa che un’alimentazione è “sana” e un cibo “naturale”? Forse non molto, se oggi sul nostro pianeta vivono quarantamila leoni e venti miliardi di polli. Che cos’è la natura, oggi? E chi lo ha inventato il pollo, quale sarebbe il suo habitat “naturale”? Noi siamo più “naturali” accanto a un pollo o a un leone? Per parlarne, posso apparecchiare una cena dei cretini in cui non sai se sia più cretino quello che mangia il pollo “naturale” e le bacche cinesi “biologiche” o quello che passa mezz’ora a incistare i propri pensieri sull’origine della coscienza e la differenza tra noi e quel pollo, e lascia che la birra intanto diventi calda.

Quindi, in conclusione, non lo so. Avrei potuto provare a scrivere una dotta dissertazione su quanta scienza entri nella letteratura, citando Ian McEwan e Gianni Rodari. Oppure di quanta letteratura entri nella nostra scienza, e avrei potuto scopiazzare saggi su Jules Verne o Karel Čapek. Il punto è che a me le cosiddette barriere disciplinari stanno un po’ antipatiche. Ho una laurea in medicina e chirurgia, ma questo non fa di me una che non è in grado di leggere un romanzo: faccio la giornalista ma non dimentico di aver studiato diverse migliaia di pagine di patologia generale e di fisiologia umana. E credo che questo valga un po’ per tutti: credo che le nostre identità, le nostre vite e le nostre relazioni siano un po’ più complesse di uno scaffale di una libreria, ma che lo stesso scaffale possa contenerne descrizioni diverse una accanto all’altra senza conflitto. Anzi. Arricchendosi reciprocamente. Per chi poi ha la fortuna (per me, enorme) di poter fare della parola un mestiere, il gioco del romanzo è un cimento del pensiero che ha dell’incredibile. Ci si possono fare cose meravigliose. Certo, la più difficile è inventare cose straordinarie, mai successe, ma plausibili, che ti permettano di dire quello che vuoi dire. Però quella del cane Agata, ve lo giuro sul Nelsen al Limone, è accaduta davvero.

 


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