Particolare del ritratto di Galileo eseguito da Justus Sustermans. crediti: Wikimedia Commons. Licenza: pubblico dominio.
Lo scorso 2 agosto, indagando su testi a stampa di Galileo conservati in biblioteche inglesi alla ricerca di postille e commenti aggiunti da studiosi del Seicento, Salvatore Ricciardo (Università di Bergamo) si è imbattuto in qualcosa di assolutamente inaspettato. Tra i documenti conservati negli archivi della Biblioteca della Royal Society a Londra, infatti, Ricciardo ha ritrovato la lettera che lo scienziato pisano scrisse nel dicembre 1613 all’amico di origini bresciane Benedetto Castelli. Una lettera finora ritenuta irrimediabilmente perduta, il cui ritrovamento può gettare nuova luce sulle fasi iniziali del processo intentato dall’Inquisizione che, vent’anni più tardi, porterà alla condanna e all’abiura di Galileo. Una scoperta davvero importante, insomma, non a caso immediatamente diffusa e sottolineata online dalla rivista Nature.
Una lettera controversa
Tra i primi documenti di Galileo a finire sotto l’occhio dell’Inquisizione vi fu la lettera che il 21 dicembre 1613 lo scienziato scrisse a Benedetto Castelli, monaco benedettino, matematico, fisico e suo affezionatissimo discepolo. Castelli era grandemente considerato da Galileo, che ne parlava come “huomo adornato d'ogni scienza e colmo di virtù, religione e santità”. Il corrispondente ideale con il quale Galileo poteva condividere non solo il suo pensiero scientifico, ma anche la sua personale visione dei Sacri testi. Castelli, infatti, era sì un religioso ma, allo stesso tempo, anche un eccellente uomo di scienza. Proprio in quegli anni, anche con l’appoggio di Galileo, era stato nominato professore ordinario di matematica all’Università di Pisa e si stava dedicando al moto e alla dinamica delle acque correnti, studi per i quali viene considerato il fondatore dell’idraulica moderna. Oltre che nell’ambiente universitario pisano, la lettera di Galileo divenne ben presto molto famosa a Firenze e nel resto della Toscana e, all’epoca, se ne fecero molte copie. Il motivo è presto detto: Galileo cercava di dimostrare che la ricerca scientifica non doveva essere vincolata a quanto riportavano i Sacri testi, dato che il loro linguaggio doveva talvolta “accomodarsi all’incapacità del vulgo”. Per alcuni passi delle Sacre Scritture, insomma, si doveva andare al di là del testo, passando da una interpretazione letterale a una allegorica.
Non solo, dunque, ci troviamo di fronte a uno dei primi manifesti sulla libertà della ricerca scientifica, ma anche a una riflessione teologica sulle Scritture che non poteva certo passare inosservata. Il 7 febbraio 1615, infatti, il monaco domenicano Niccolò Lorini inoltrava una copia della lettera al cardinale Paolo Emilio Sfondrati, Prefetto della Congregazione dell'Indice a Roma, segnalando la necessità di valutarne il contenuto. Nella denuncia si sottolineava non solo che Galileo sosteneva “che la terra si move et il cielo sta fermo, seguendo le posizioni di Copernico”, ma anche che “vogliono esporre le Sante Scritture a loro modo e contra la comune esposizione de' Santi Padri, e difendere opinione apparente in tutto contraria alle Sacre Lettere”.
Qui, però, la vicenda si tinge di giallo: mentre tutte le copie della lettera a Castelli che sono state ritrovate sono molto simili tra loro, quella trasmessa da Lorini all’Inquisizione e conservata nell’Archivio Segreto Vaticano è molto più critica e contiene alcune espressioni teologicamente più forti rispetto a tutte le altre. Per esempio, mentre nella gran parte delle versioni si legge che la Scrittura “presenta talvolta delle proposizioni che sembrano distanti dal vero quanto al nudo senso delle parole”, in quella di Lorini leggiamo che la Scrittura “ha delle proposizioni false quanto al nudo senso delle parole”. È evidente come la prima versione sia notevolmente più sfumata rispetto alla seconda, molto più cruda, diretta e facilmente impugnabile dagli inquisitori.
Poiché non si era in possesso della stesura originale della lettera ma solamente di copie, alcune anche coeve, era piuttosto complicato stabilire quale delle due versioni potesse essere quella scaturita dalla penna di Galileo. Nonostante questo, prendendo per buono quanto suggerito dallo stesso Galileo in una lettera a Pietro Dini del 7 febbraio 1615, la critica storica ha sempre ritenuto che Lorini avesse contraffatto la lettera con il chiaro intento di mettere in difficoltà Galileo e indebolirne la posizione processuale. Il manoscritto di Galileo scoperto a Londra da Salvatore Ricciardo, però, racconta tutta un’altra storia.
Il ripensamento di Galileo
Si dice che il modo migliore per nascondere qualcosa sia lasciarlo in bella vista. Con questo importantissimo documento storico ha funzionato: Ricciardo, infatti, ne ha scoperto l’esistenza sfogliando il catalogo dei documenti conservati nella biblioteca londinese della Royal Society, probabilmente sfuggito finora agli storici perché erroneamente catalogato con la data del 21 ottobre. Intuita l’importanza della scoperta, Ricciardo ha immediatamente avvisato Franco Giudice, docente dell’Università di Bergamo e supervisore della ricerca che stava compiendo, il quale a sua volta ha coinvolto Michele Camerota, ordinario di Storia della Scienza all’Università di Cagliari e, con lo stesso Giudice e con Massimo Bucciantini, direttore della rivista Galilaeana.
Le prime analisi dei tre ricercatori, confermate da Paolo Galluzzi, direttore del Museo Galileo di Firenze, e da Patrizia Ruffo, curatrice della Bibliografia Internazionale Galileiana, hanno portato a concludere che si trattava di un autografo galileiano. In un’intervista rilasciata a MediaINAF, Camerota chiarisce il lavoro svolto per giungere a tale conclusione: «Naturalmente abbiamo fatto delle collazioni su autografi galileiani coevi, ossia dello stesso torno di tempo. I campioni che noi abbiamo utilizzato sono del periodo 1612-1615 perché la grafia delle persone cambia e quindi la mano può essere leggermente differente in spazi temporali molto distanti. La coincidenza è assolutamente sorprendente, nel senso che si tratta di un autografo galileiano, almeno per come l’abbiamo considerato noi e per come è stato considerato anche da autorevoli altri studiosi ai quali ci siamo rivolti per avere conferma della scoperta».
Gli storici sanno che, su richiesta di Galileo, Castelli restituì al mittente la lettera del 1613 e per qualche tempo del documento se ne perse ogni traccia. Prima di sparire definitivamente, tornò nuovamente a circolare dopo che, nel febbraio 1615, Galileo ne allegò una copia alla lettera indirizzata a Pietro Dini, nella quale chiedeva che fosse fatta pervenire ai teologi che si stavano occupando del suo caso.
Il ritrovamento dell’originale ci racconta che non fu Lorini a modificare la lettera prima di inoltrarla all’Inquisizione, bensì Galileo stesso, scegliendo di addolcire alcune espressioni giudicate troppo compromettenti. Molto chiara l’analisi che Camerota suggerisce nella già citata intervista: «Quello che l’autografo della Royal Society mette in chiaro è che Galileo aveva scritto una prima versione della lettera identica a quella che Lorini mandò a Roma. Poi aveva, di sua stessa mano, corretto le espressioni che erano più controverse, più pericolose, più attaccabili da un punto di vista teologico. La scoperta dell’autografo dimostra che fu Galileo stesso a correggere il testo e a farlo circolare in una versione in qualche modo emendata, mitigata, laddove il senso poteva comportare più rischi di quelli che lui volesse correre».
Come sottolineato nel commento che accompagna l’annuncio della scoperta su Nature, da quelle sette pagine manoscritte emerge un Galileo che, all’inizio della sua battaglia con le autorità religiose, si impegna attivamente nel controllare e limitare i possibili danni cercando di diffondere una versione attenuata delle sue affermazioni. Ancora prematuro trarre altre conclusioni: sicuramente, la vicenda potrà suggerire una rilettura delle vicende galileiane, non certamente il ruolo di Galileo nella storia della Scienza. Potrà forse anche emergere un Galileo preoccupato della piega che avrebbero potuto prendere gli eventi, ma è opportuno tenere ben presente quanto potesse essere rovente il clima per gli scienziati all’inizio del secolo XVII – dopo tutto il rogo di Giordano Bruno si era spento solamente una dozzina d’anni prima. Per il momento si attende la pubblicazione sulla rivista Notes and Records della Royal Society, prevista per la fine di ottobre, dell’articolo preparato da Ricciardo, Giudice e Camerota nel quale verranno riportati i confronti calligrafici che attestano l’autografia e la trascrizione della lettera con le varianti relative alle correzioni dell’autore.