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La difficile transizione all'Open Access

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La sala del consiglio della Royal Astronomical Society. Credit: Mike Peel / Wikipedia. Licenza: CC BY-SA 4.0.

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Il 4 settembre scorso un gruppo di 12 agenzie europee di finanziamento della ricerca ha annunciato l'iniziativa di conversione all'Open Access (OA) Plan S, che prevede di rendere obbligatoria entro il 2020 la pubblicazione immediata in OA per tutti i ricercatori che ricevono fondi da enti pubblici europei. Tra i sottoscrittori di questa iniziativa c'è anche Istituto Nazionale di Fisica Nucleare (INFN), unico ente italiano. «L’INFN ha una tradizione Open Access ed è da anni in prima linea nella sua promozione con progetti come SCOAP3 in collaborazione con il CERN», ha affermato Fernando Ferroni, presidente dell'INFN (qui il modello di funzionamento di SCOAP3).

Il piano è stato messo a punto da cOAlition S, un consorzio di 12 agenzie di finanziamento nazionale coordinate dall'organizzazione Science Europe, con il supporto del responsabile per l'Open Access della Commissione Europea, Robert-Jan Smits. I 10 principi del Plan S impongono vincoli molto stringenti per le pubblicazioni. Le riviste che rispettano i requisiti stabiliti dal piano sono solo il 15% del totale. Sono infatti esclusi i giornali che permettono la consultazione gratuita degli articoli solo dopo sei mesi dalla pubblicazione, il cosiddetto delayed open access, e anche quelli con modello ibrido che prevedono di norma l'accesso a pagamento ma consentono di pubblicare singoli articoli in OA chiedendo all'autore di pagare una commissione, chiamata article processing charge (APC). Il modello proposto si ispira a quello della Bill & Melinda Gates Fundation, che ha avuto un certo successo nel convincere alcune riviste a convertire il loro modello di business.

Boicottaggio

Il Plan S potrebbe cambiare le sorti del conflitto tra agenzie di finanziamento della ricerca in Europa e case editrici scientifiche, prima fra tutte la Reed Elsevier, dal 2015 passata sotto il nome di RELX Group, il colosso olandese che da solo copre il 24% del mercato delle pubblicazioni scientifiche per un fatturato annuo che nel 2017 ha raggiunto i 2,5 miliardi di sterline. Insieme a Springer, Wiley-Blackweel, Tayor & Francis e Sage, Elsevier pubblica oltre il 50% degli articoli scientifici. A dicembre del 2016 il consorzio tedesco di biblioteche universitarie Projekt DEAL aveva interrotto (smesso di pagare) i contratti di sottoscrizione per l'accesso alle riviste del gruppo olandese. A maggio di quest'anno hanno seguito il loro esempio gli svedesi del Bibsam Consortium, rifiutandosi di rinnovare il contratto con Elsevier. Per un periodo transitorio, sperando di concludere positivamente le negoziazioni, la casa editrice ha garantito l'accesso ai suoi contenuti ai ricercatori affiliati con questi consorzi, ma a luglio del 2018 ha deciso di rialzare i suoi paywall.

La protesta delle università e degli enti di ricerca europei è originata dai prezzi crescenti per l'accesso ai contenuti scientifici, insostenibili anche a causa delle crescenti limitazioni di budget per la ricerca. Più in generale rappresenta l'opposizione a un modello di business che George Monbiot su The Guardian ha definito una rapina.

Indecisioni politiche

Se il Plan S venisse sottoscritto dalle maggiori agenzie di finanziamento europee questo modello dovrebbe necessariamente essere rivisto. Mancano infatti all'appello i consigli nazionali della ricerca tedesco e svedese, ma soprattutto la Commissione Europea con il suo European Research Council, che sta mettendo a punto in questi mesi i dettagli del prossimo programma quadro Horizon Europe.

I dubbi sul Plan S (per i dettagli trovate qui l'analisi dell'esperto di Open Access e direttore dell'Harvard Open Access Project Peter Suber) riguardano principalmente due aspetti. In primo luogo la scadenza del 2020, da molti considerata troppo vicina. In secondo luogo la sostenibilità delle spese di pubblicazione. Nella transizione al nuovo modello le università si vedrebbero infatti costrette a pagare contemporaneamente le spese di pubblicazione in OA e quelle di sottoscrizione alle riviste con paywall.

Per agevolare questa transizione alcune riviste, per esempio quelle della Royal Society of Chemistry, hanno proposto nuove forme contrattuali chiamate read and publish2, che prevedono il pagamento di un'unica commissione da parte degli istituti di ricerca per avere garantito l'accesso ai contenuti e la pubblicazione in gold OA da parte dei propri ricercatori. Tuttavia il risultato delle negoziazioni di questi nuovi contratti non è noto (le case editrici obbligano alla riservatezza e questo impedisce di condurre negoziazioni coordinate sul prezzo).

In un'intervista rilasciata a marzo, Robert Jan-Smits ha sottolineato come il passaggio all'Open Access sia più facile a dirsi che a farsi. Nel 2016 il Consiglio Europeo aveva adottato all'unanimità una risoluzione, firmata da tutti i 28 ministri della ricerca, che affermava che tutte le pubblicazioni legate a ricerca finanziata pubblicamente avrebbero dovuto essere ad accesso libero dal 2020. La Commissione si è impegnata in prima linea, rendendo obbligatoria la pubblicazione in OA per tutti i progetti finanziati con gli strumenti del programma quadro Horizon 2020, ma, sottolinea Jan-Smits, non dobbiamo dimenticare che il 90% della ricerca europea è finanziata da agenzie nazionali.

Un "bizzarro" modello di business

La reazione di ricercatori ed editori al Plan S è stata opposta, come testimoniato dalle lettere ricevute dal Guardian in risposta all'editoriale di George Monbiot. Se i ricercatori difendono il principio secondo cui la scienza deve essere aperta e accessibile, sia per i ricercatori che per il pubblico più in generale (inteso come aziende e cittadini), dall'altra gli editori rivendicano il valore del loro lavoro nel supportare l'impresa scientifica. Sostengono che l'attività di revisione e archiviazione che portano avanti deve essere remunerata, così come il mantenimento di database come Scopus e Web of Science e il calcolo delle metriche su cui è basata la valutazione dei ricercatori in quasi tutti i Paesi del mondo.

La critica a questo argomento è ormai ben nota: le case editrici scientifiche ricevono i contenuti da pubblicare gratuitamente dai ricercatori. Gran parte del processo di peer review è svolta dai ricercatori e sempre gratuitamente. Una volta pubblicati gli articoli corretti, le case editrici chiedono alle università, le stesse che pagano lo stipendio dei già citati ricercatori, di pagare ancora per l'accesso. Un report della Deutsche Bank del 20051 definiva questo modello di business un bizzaro triple pay mechanism. Di fatto gli Stati pagano tre volte la ricerca prodotta: attraverso gli stipendi degli autori, quelli dei revisori e infine per accedere ai contenuti.

Un sistema di mille monopoli

Per capire come un simile sistema si sia sviluppato e abbia prosperato così a lungo, vale la pena leggere l'articolo scritto da Stephen Buranyi lo scorso anno per il Guardian. Buranyi ripercorre la nascita e l'evoluzione del gruppo Elsevier, fondato nel 1951 dall'imprenditore inglese di origini ceche Robert Maxwell con il nome di Pergamon Press. A causa di investimenti sbagliati, nel 1991 Maxwell fu costretto a vendere all'olandese Elsevier, il suo maggior avversario, che intanto era cresciuta e pubblicava un buon numero di titoli in inglese.

Maxwell ebbe il merito di capire con anticipo tre aspetti fondamentali.

  • Primo: subito dopo la Seconda Guerra mondiale gli Stati erano disposti a investire massivamente nella ricerca scientifica, che era emersa come elemento chiave del progresso economico.
  • Secondo: nascevano nuovi campi di ricerca, che avevano bisogno di essere legittimati. E allora quale migliore strumento di una nuove rivista dal titolo altisonante come "International Journal of ...". Questo mostrava un'altra intuizione di Maxwell: la scienza era un'impresa internazionale. E infatti Maxwell si assicurò in esclusiva le traduzioni dal russo di alcuni articoli sulla ricerca spaziale sovietica nel momento del lancio del primo satellite artificiale, lo Sputnik.
  • Terzo: gli scienziati non erano creature incorruttibili dedite solo alla ricerca di nuova conoscenza. Al contrario potevano essere sedotti da feste eleganti, posti di rilievo negli editorial board e conferenze organizzate in ville lussuose.

Tutto questo portò alla nascita di centinaia e centinaia di nuove riviste in poche decadi, stabilendo di fatto una serie infinita di monopoli. In ciascun campo di ricerca gli scienziati "dovevano" pubblicare su "quella" rivista e non un'altra, se volevano che il loro lavoro fosse riconosciuto dalla comunità di riferimento. La transizione al digitale trasformò questa serie infinita di monopoli in un unico grande monopolio, attraverso la vendita di bundle di riviste. Per avere accesso a una manciata di titoli considerati irrinunciabili dai ricercatori, le biblioteche sono costrette a sottoscrivere contratti che garantiscono l'accesso a centinaia di riviste, molte delle quali irrilevanti.

Le debolezze dei ricercatori

Anche se gli scienziati si schierano contro l'iniquità di questo sistema, non sono stati finora sufficientemente compatti nel contrastarlo. La prima ragione è che coloro che consumano il "bene", l'accesso alle riviste scientifiche in questo caso, non sono coloro che pagano per quel bene (sono le università o le loro biblioteche a pagare). Per questo sono price insensitive, disposti a pagare qualsiasi prezzo per l'accesso ai giornali scientifici. Ad affermarlo è Stuart Shieber, professore di informatica di Harvard, in questo documentario "Paywall. The business of scolarship", realizzato da Jason Schmitt professore di comunicazione e media alla Clarkson University, e disponibile qui con licenza CC BY 4.0 (qui la recensione di Nature).


Paywall: The Business of Scholarship (Full Movie) CC BY 4.0 from Paywall The Movie on Vimeo.

Tra gli intervistati c'è anche István Rév, della Central European University di Budapest, che sottolinea il legame esistente tra le tasse che gli studenti universitari sono costretti a pagare e le somme di denaro che ogni anno gli atenei corrispondono agli editori scientifici.

La seconda ragione di debolezza dei ricercatori è rappresentata dalle metriche di valutazione, indici come l'impact factor o l'h-index, che "costringono" gli scienziati bisognosi di consolidare la propria carriera a pubblicare su un numero ristretto di riviste considerate ad alto impatto. In questo senso dovrebbero essere le istituzioni a mettere in atto nuovi metodi di valutazione e reclutamente dei docenti. Un esempio è quanto fatto dalla Commissione Europea a maggio di quest'anno: una nuova valutazione dei progetti finanziati da Horizon 2020 che tiene in considerazione l'impatto più generale sull'economia e la società.

Strumenti per la transizione all'OA

Tra le indecisioni politiche, le debolezze dei ricercatori e gli interessi dei privati la transizione è comunque cominciata, grazie a strumenti come la pubblicazione in green OA, ovvero la possibilità di archiviare su un repository pubblico e gratuitamente accessibile una copia pre publication dell'articolo accettato dalla rivista. È il caso di arXiv.org per la fisica e la matematica, di social network come Academia.edu o ResearchGate, dei molti archivi mantenuti dalle singole università. Per procedere con questa autoarchiviazione c'è bisogno però del permesso dell'editore. Ad esempio l'American Mathematical Society pubblica in green OA tutte le sue riviste.

Il limite della pubblicazione in green OA è però quello della reperibilità. In altre parole se sono interessato a un articolo pubblicato su Nature di cui esiste una copia OA, faticherò a trovarla in rete. È questo il problema che hanno cercato di risolvere i tre informatici Heather Piwowar, Jason Priem and Cristhian Parra con Unpaywall, uno strumento, oggi installabile gratuitamente come estensione dei più diffusi browser, che collega le copie dietro paywall a quelle in OA. Se per esempio siamo interessati a "Seven temperate terrestrial planets around the nearby ultracool dwarf star TRAPPIST-1" pubblicato il 22 febbraio 2017 su Nature basterà andare sul sito di Nature per vedere apparire accanto all'articolo un'icona verde che raffigura un lucchetto aperto, cliccandoci sopra verremo indirizzati alla versione OA dello stesso lavoro depositata su arXiv.org. Unpaywall potrebbe servire anche allo scopo di misurare quanta ricerca già esistente è pubblicata in Open Access, una domanda a cui è molto difficile rispondere. Con questo obiettivo sono nate le collaborazioni tra i fondatori di Unpaywall e i database Scopus e Web of Science.

Boicottaggio bottom-up

La transizione all'Open Access è stata poi catalizzata dalla nascita di iniziative dal basso, che hanno messo in discussione il modello vigente, violandone apertamente le regole. Tra queste c'è Sci-Hub, l'archivio di articoli fondato nel 2011 dalla neuroscienziata kazaka Aleksandra Elbakyan e che oggi rappresenta per molti ricercatori l'unica via di accesso alla produzione dei loro colleghi. Su Elbakyan (intervistata qui da Vox) e su siti come Library of Genesis (LibGen), pende una sentenza del tribunale di New York che obbliga al pagamento di 15 milioni di dollari per violazione delle leggi americane sul copyright ai danni di Elsevier.

C'è poi la drammatica vicenda dell'hacker Aaron Schwartz che nel 2013 si tolse la vita dopo essere stato arrestato dalla polizia federale americana e accusato di crimini che potevano costargli 35 anni di carcere per aver scaricato e diffuso articoli a pagamento dal sito JSTOR da un computer nascosto in un armadietto del Massachusetts Institute of Technology.

E ancora il boicottaggio delle riviste Elsevier promosso dal matematico vincitore della medaglia Fields Tim Gowers. Nel 2012 Gowers dichiarò di non volere aver a che fare in nessuna forma con le riviste del gruppo Reed Elsevier, né come autore, né come membro dell'editorial board, né come revisore, spiegando le sue ragioni in questo blog post. La presa di posizione di Gowers ispirò altri matematici e nacque così la pagina The Cost of Knowledge, dove si può sottoscrivere pubblicamente il manifesto di opposizione alle pratiche di Elsevier. Tra i sottoscrittori arrivò presto un'altra medaglia Fields, Terrence Tao.

E in Italia?

Come detto all'inizio, tra i firmatari del Plan S c'è un solo ente italiano, l'INFN. Gli altri centri di ricerca, come il CNR o le Università, non hanno ancora preso posizione a riguardo. Ma quanto spendono gli atenei italiani per ottenere accesso alle riviste scientifiche e qual è lo stato dell'Open Access nel nostro Paese? Lo abbiamo chiesto al Gruppo CARE (Coordinamento per l'Accesso alle Risorse Elettroniche), l'organo interno alla Conferenza dei Rettori delle Università Italiane (CRUI) che si occupa, su mandato delle università, delle negoziazioni con gli editori scientifici. Il livello di spesa totale destinato al pagamento delle subscription fee non è noto, poiché oltre ai contratti gestiti centralmente da CARE, su cui comunque grava una clausola di riservatezza, i singoli atenei acquistano autonomamente una parte delle risorse. Per quanto riguarda la penetrazione dell'OA nella ricerca italiana, CARE risponde: "Al momento non ci risultano studi quantitativi in merito", aggiungendo che non sono in corso contratti del tipo read and publish con nessun editore3.

 

Note
1 Deutsche Bank AG, “Reed Elsevier: Moving the Supertanker,” Company Focus: Global Equity Research Report, January 11, 2005.

2 "Read & Publish lets corresponding authors at institutions publish gold OA in our hybrid journals and provides perpetual access rights to our entire journal portfolio."

3 Riportiamo di seguito il testo integrale dell'intervista al Gruppo CARE della CRUI
Il Gruppo CARE è responsabile delle negoziazioni dei contratti con le case editrici scientifiche per conto di tutte le università italiane? Qual è esattamente il suo mandato?

CARE organizza e cura, su mandato delle università, le negoziazioni con gli editori e/o produttori di “risorse elettroniche” di maggiore interesse per le università; attualmente sono poco più di 50 i contratti stipulati con altrettanti fornitori. Informazioni più dettagliate sono disponibili anche sul sito www.crui-risorselettroniche.it.

Qual è il livello di spesa che le università italiane sostengono ogni anno per avere accesso a riviste scientifiche a pagamento?

I dati relativi alle spese sostenute attraverso i contratti centralizzati sono coperti da riservatezza ma comunque disponibili sul sito della CRUI nella sezione Amministrazione trasparente (https://www.crui.it/bandi-di-gara-e-contratti-pubblici.html), e su quello dedicato alle attività di CARE; tali dati pur coprendo la gran parte della spesa sostenuta non sono però completi perché le contrattazioni svolte dalla CRUI non coprono tutte le risorse acquisite individualmente dalle università; i dati relativi alle contrattazioni locali sono disponibili sui siti delle istituzioni.

L'Unione Europea si è prefissata l'ambizioso obiettivo di rendere tutti i risultati (pubblicazioni e dati) della ricerca finanziata con soldi pubblici accessibile gratuitamente a tutti. Horizon 2020 obbliga a pubblicare in Open Access (il tasso di compliance è del 67%) e la Direzione Generale "Research and Innovation" raccomanda ai singoli Stati membri dell'Unione di seguire lo stesso esempio. In Italia esiste una stima della percentuale di articoli Open Access prodotti dalla ricerca pubblica?

Al momento non ci risultano studi quantitativi in merito.

Recentemente un consorzio di biblioteche universitarie svedesi (il Bibsam Consortium) ha deciso di non rinnovare il contratto con l'editore Elsevier seguendo l'esempio del consorzio tedesco DEAL in Germania. Se capisco bene il motivo è che allo stato attuale le università devono sostenere sia i costi delle pubblicazioni in Open Access che le subscription fee (per permettere ai propri ricercatori di avere accesso agli articoli a pagamento). Alcuni riviste, per esempio quelle della Royal Society of Chemistry, hanno proposto nuove forme contrattuali chiamate read and publish. Il Gruppo Care ha concluso o ha in corso trattative su questo tipo di contratti?

Il Gruppo CARE ha negoziato contratti con clausole dedicate all’open access, ma al momento in nessuno è prevista una clausola del tipo read and publish.

 

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