Chiedersi, come sempre più spesso si sente fare nei blog o sui social, se la scienza sia democratica è una domanda oziosa. E’ ovvio che i contenuti della scienza, come la velocità della luce o l’efficacia di un vaccino, non si decidono con una votazione a maggioranza per alzata di mano, ma dovrebbe essere altrettanto evidente che il processo con cui si forma (o si dissolve) il consenso attorno a un concetto o una teoria è un esempio di come dovrebbe davvero svolgersi un dibattito democratico. E allora perché una ricercatrice di rango come Maria Luisa Villa, orgogliosa del suo ruolo accademico anche nella formazione di future generazioni di scienziati, e attenta anche a trasmettere loro la consapevolezza delle mutazioni in corso nel rapporto tra scienza e società, ha sentito il bisogno di rispondere sin dal titolo del suo libro, "Scienza è democrazia" (Guerini e associati, 2018) in maniera secca a un quesito che non porta da nessuna parte?
La spiegazione sta tutta nel sottotitolo, che come spesso accade espone in modo diretto il contenuto del libro: “Come funziona il mondo della ricerca”. Il libro ha l’intento pedagogico di far comprendere a chi non è del mestiere cosa sia la ricerca e perché non bisogna averne paura. La scienza è un’impresa collettiva che si è sviluppata tardi nella storia delle culture umane, solo in alcuni luoghi e con lunghi intervalli di eclissi, e solo recentemente si è estesa in tutto il globo. Come la democrazia, è un’eredità del pensiero razionale greco che solo da pochi secoli è riemersa e ha ripreso a svilupparsi, e nessuna delle due può ancora (e forse mai) essere data per scontata, come un destino irreversibile dell’umanità. Il crescente e apparentemente inarrestabile successo di entrambe negli ultimi decenni dopo la fine dell’ultima guerra mondiale non deve ingannare.
Democrazia e scienza vanno entrambe comprese a fondo per poterle difendere dal pericolo permanente costituito da chi, di fronte alla forza della ragione, preferisce tornare alle ragioni della forza. C’è però un’inquietudine che attraversa il libro di Villa, e nasce dalla consapevolezza di aver assistito in prima persona, nel corso della propria vita, a una trasformazione radicale dell’impresa scientifica, non tanto nel metodo, quanto nell’organizzazione e nei rapporti con la società. Sono diffusamente richiamati i principi enunciati da Robert Merton nel suo celebre saggio del 1942 (con la guerra contro Hitler in pieno corso!) sulla struttura normativa della scienza, come per rassicurarsi, e rassicurare il lettore, che nulla sia cambiato al proposito, che siano sempre condivisi e rispettati. Ma davvero la scienza è ancora oggi un’impresa universale, collaborativa, disinteressata e critica?
In un primo momento mi ero sorpreso di questa sicurezza, almeno per quanto riguarda il disinteresse, perché sembra evidente quanto ormai affermato da molti, e cioè che da diversi anni la ricerca è condotta prevalentemente (anche se non esclusivamente) a scopo di profitto, anziché essere spinta principalmente dalla curiosità o dal desiderio di agire nell’interesse collettivo. C’è nel libro un’accusa ripetuta ai mezzi di comunicazione, di cui mi sento parte, di enfatizzare eccessivamente questo aspetto, e di non fare così un buon servizio all’indipendenza della ricerca, che avrebbe in realtà tuttora i necessari anticorpi per difendersi dall’invadenza della finanza. Un buon argomento è la necessità di distinguere il disinteresse della motivazione personale (che può mancare ai singoli) da quello del metodo e dell’organizzazione, che invece continuerebbe a funzionare.
E’ una distinzione importante, a cui non avevo pensato in precedenza, ma la rassicurazione che ne deriva può essere ingannevole se si trascura un aspetto determinante: la crescente tendenza a creare condizioni di monopolio dei dati e dei risultati della ricerca, attraverso istituzioni come i brevetti, la non pubblicazione e in genere la segretezza. Questo è un fattore organizzativo. Un esempio clamoroso è dato dall’involuzione che sta subendo la ricerca clinica applicata alla medicina, dove l’appropriazione privata dei dati e dei risultati da un lato priva la comunità scientifica del principale strumento di autocorrezione rispetto alle manipolazioni (la riproducibilità e le analisi indipendenti), dall’altro fornisce ai detentori dei brevetti (che non sono più ricercatori, e neppure industriali, ma gruppi finanziari) un potere contrattuale ormai incontrastabile persino dagli Stati. Le multe multimiliardarie, per reati anche penali negli USA e in Europa, vengono pagate senza modificare i comportamenti e incorporate nel prezzo dell’innovazione, come fossero punture di zanzare sulla pelle di un pachiderma.
E il peggio forse deve ancora arrivare, perché la ricerca sulla cosiddetta intelligenza artificiale, di grande interesse conoscitivo e pratico ora che abbiamo finalmente algoritmi e macchine capaci di apprendere macinando montagne di dati, sta facendo progressi rapidissimi nel chiuso dei laboratori di colossi come Google e Amazon, del tutto al di fuori non solo dall’accademia, ma persino da ogni intenzione di pubblicazione e di condivisione dei risultati e degli scopi con la società civile. Qui davvero non c’è traccia di universalismo, collaborazione e disinteresse: altro che democrazia!