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Libri per navigare nel 2019

Book Box

Michael Coghlan, Book Box. Crediti: Flikr. Licenza: CC BY-SA 2.0

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Ecco una rassegna dei libri che alcuni nostri collaboratori hanno letto nel 2018 e che ai loro occhi rivestono un particolare significato. Sono quasi tutti libri pubblicati in Italia nel 2018, ma non necessariamente. Abbiamo voluto lasciare piena libertà di scelta per consegnare all'oceano nel quale ci apprestiamo a navigare nel nuovo anno alcuni utili messaggi sigillati nelle loro bottiglie.

 

Philip Roth, Nemesi. Einaudi, 2011.

di Alberto Mantovani

Nemesi, di Philip Roth, è per me il libro dell’anno. Per tanti motivi. Perché proprio nel 2018, il 22 maggio, è morto questo autore che amo particolarmente. Perché ho utilizzato una sua citazione letteraria come incipit non proprio convenzionale di un Viewpoint importante, scritto con Angela Santoni e Rino Rappuoli, su una rivista scientifica di primo piano, il Journal of Experimental Medicine, dove è stata scritta parte della storia della Medicina e dell’Immunologia dell’ultimo secolo - dalla scoperta dei virus che causano cancro a quella che il DNA porta l’informazione genetica.
E perché, in un momento di dibattito acceso sull’utilità dei vaccini, Nemesi ci ricorda l’importanza, senza discussione, di questi potentissimi strumenti di prevenzione. E come sarebbe un mondo senza di essi.
Sono particolarmente legato a questo romanzo perché ha significati e messaggi che vanno ben al di là del suo innegabile pregio letterario. Narra la storia di Bucky Cantor, un giovane che insegna educazione fisica in un campo giochi del quartiere ebraico della città di Newark dove, nella caldissima estate del 1944, le persone vivono con l’incubo della polio. Il romanzo si sviluppa proprio intorno alla comparsa di questa terribile malattia. Inizialmente è una minaccia che non ha ancora toccato i ragazzi che Bucky Cantor segue, poi si presenta seminando morte e dolore nel quartiere ebraico,  e la sua comparsa viene imputata a una provocazione di alcuni ragazzi italiani che già, nel loro quartiere, facevano i conti con questa malattia. La polio segue Cantor anche in montagna, dove il giovane poi si trasferisce per raggiungere la sua ragazza, che ne morirà.
I temi del romanzo sono molto profondi. La superstizione nei confronti di questa terribile malattia: una minaccia che incombe, periodicamente compare e ricompare ma non se ne capisce l’origine. Il tema etico della morte degli innocenti, i tanti ragazzi contagiati dalla polio. L’ostilità fra i diversi ceppi etnici: gli ebrei danno la colpa dell’epidemia di polio agli italiani, che ne loro quartiere la stavano fronteggiando prima di loro. Le emozioni che una simile epidemia può far scaturire: paura, panico, rabbia, confusione, sofferenza e dolore. Il senso colpa che accompagna Cantor per tutta la sua vita. Sono temi che colpiscono e che fanno riflettere.
Nemesi ha - come tanta letteratura - anche il merito di ricordarci un mondo senza vaccini: è questo il motivo per cui ho utilizzato una sua citazione come incipit del viewpoint su JEM, focalizzato proprio sui vaccini. “…but there was as yet no cause for the sort of alarm that had been displayed by parents, ‘justifiably enough,’ twenty-eight years earlier, during the largest outbreak of the disease ever reported—the 1916 polio epidemic in the northeastern United States, when there had been more than 27,000 cases, with 6,000 deaths. In Newark there had been 1,360 cases and 363 deaths. Now even in a year with an average number of cases…”
Un mondo che non conosciamo più, in cui – ad esempio - un personaggio del calibro di Franklin Delano Roosevelt, che ha guidato gli USA fuori dalla recessione economica e alla vittoria contro nazismo, fascismo e imperialismo giapponesi, era costretto in sedia a rotelle dall’età di 34 anni proprio a causa della polio. Le persone della mia generazione hanno solo intravisto questa malattia: io avevo un compagno di classe con una gamba resa atrofica dalla polio, ma i nostri figli e nipoti, se continueremo a vaccinarci, non vedranno questa così come altre malattie, come morbillo, che tanto hanno afflitto il nostro Paese, anche di recente.
Nemesi, dunque, ci ricorda che i vaccini sono una conquista della civiltà. Sono un baluardo contro le malattie, e sono un diritto: penso a quel milione e mezzo di bambini che, ogni anno, ancora muoiono perché non hanno accesso ai vaccini più elementari. Ancora, i vaccini sono un’assicurazione sulla vita dell’intera umanità nei confronti di future epidemie, causate da virus vecchi e nuovi. E sono una cintura di sicurezza che i nostri figli e nipoti, quando si vaccinano, allacciano a loro stessi e - attraverso l’immunità di gregge - alla parte più fragile comunità.

 


Yuval Noah Harari, Da animali a dèi. Breve storia dell’umanità. Bompiani, 2015.

di Eva Benelli

Preparatevi a dire addio a luoghi comuni e visioni stereotipate sul ruolo dell’uomo nella storia del mondo. È questo il pregio maggiore di Da animali a dèi. Breve storia dell’umanità, il saggio di Yuval Noah Harari, che è già da qualche anno un best seller mondiale. Lo storico israeliano dipana la storia della presenza umana sul pianeta attorno a tre grandi rivoluzioni: quella cognitiva di 70.000 anni fa, quella agricola, datata ormai a 12.000 anni, e quella scientifica che ci accompagna da 500 anni. Non sfugge il saggio all’esigenza di individuare l’elemento di unicità che dovrebbe caratterizzare la nostra specie, facendola sopravvivere, unica, negli ultimi 100.000 anni. La proposta è che sia soprattutto la capacità di creare storie a cui tutti credono, anche a dispetto dei dati e delle evidenze. Una “realtà immaginata” capace di aggregare le popolazioni e di fare accettare anche diseguaglianze e ingiustizie. Almeno fino a quando una nuova narrazione non arriva a scombinare i giochi. Un testo denso di informazioni e curiosità, ma soprattutto benedetto da una felicità di scrittura che lo rende una felicissima esperienza di divulgazione.

 


Carlo Rovelli, La realtà non è come ci appare, Raffaello Cortina 2014.

di Stefano Nespor

Nel Fedone di Platone, Socrate afferma che secondo lui la Terra è rotonda, ma aggiunge “Però non ne sono sicuro”. È il testo più antico giunto fino a noi che parla della sfericità della Terra. Ma è soprattutto il primo testo che enuncia il nucleo del pensiero scientifico, con l’ammissione di ignoranza e di incertezza.
Vivere nell’incertezza e nell’ignoranza è difficile. C’è chi preferisce una certezza qualunque, anche se infondata. C’è chi preferisce credere a una storia purchessia solo perché ci credevano gli anziani della tribù, piuttosto che accettare il coraggio della sincerità. L’ignoranza può fare paura e, per paura, possiamo raccontarci storie che rassicurano: al di là delle stelle c’è un giardino incantato con un dolce padre che ci accoglierà tra le sue braccia: possiamo decidere di avere fede in questa storia. Poi c’è sempre stato nel mondo qualcuno che ci offre risposte ultime. Il mondo è pieno di gente che afferma di conoscere la verità: perché l’ha appresa da chi la conosce, perché l’ha letta su un Grande Libro, perché l’ha ricevuta direttamente da un dio. C’è sempre qualcuno che offre risposte consolatorie: “non abbiate paura, lassù c’è qualcuno che vi vuole bene”. Ognuno è libero di credere ciò che vuole e di fare ciò che vuole della propria intelligenza.
Il testo che ho riportato qui sopra è tratto, con qualche piccola modifica, dal capitolo conclusivo del primo libro con il quale Carlo Rovelli espone gli attuali sviluppi della fisica. Ci sono temi che saranno poi trattati nella sua produzione successiva, ma questa è certamente l’opera che svela compiutamente al lettore una realtà che non solo non ha mai conosciuto, ma che non sospettava neppure che potesse esistere.
Rovelli dissolve le idee di materia, di spazio e di tempo che abbiamo considerato ovvi riferimenti della nostra vita e del nostro modo di pensare, raccontando il progresso delle nostre conoscenze sulla realtà che ci circonda. Così, a partire dalle intuizioni di Democrito e di altri scienziati poeti filosofi molti secoli fa, passando per le teorie della relatività di Einstein, il lettore viene condotto ai sorprendenti risultati della moderna gravità quantistica. Ma soprattutto viene condotto in un viaggio che si conclude con la consapevolezza che accettare l’incertezza del nostro sapere vuol dire accettare di vivere immersi nel mistero e vivere con domande cui non sappiamo (e forse non sapremo mai) dare risposta.

 


Giancarlo Ghirardi, Simmetrie. Carocci Editore, 2018.

di Pietro Greco

È un'opera in due grossi tomi: 1300 pagine complessive, per intenderci. È stata appena pubblicata dall'editore Carocci ed è piuttosto impegnativa, anche come costi: 124 euro, i due volumi. È dedicata al concetto di simmetria, nella scienza – e in particolare in matematica e in fisica –, nella natura e nell’arte. Il titolo è, per l’appunto Simmetrie. Il sottotitolo del primo volume è Principi e forme naturali, quello del secondo volume è Nell’arte e nella scienza. Si tratta dell’opera più ampia e completa apparsa in Italia – e non solo in Italia – su questo concetto fatto proprio dai grandi artisti greci così come dai grandi matematici (Euclide incluso) e poi oggi dalla fisica fondamentale. L’autore è Giancarlo Ghirardi, il fisico italiano che forse più di ogni altro ha studiato i fondamenti della meccanica quantistica ottenendo significativi risultati originali. Giancarlo Ghirardi non ha potuto vedere stampate le sue Simmetrie, perché è venuto a mancare il primo giugno 2018. Leggere questa opera non ci mette solo in grado di ricomporre a unità le due culture e a un livello altissimo, ma anche di ricordare come meglio non si potrebbe un grande scienziato che, per chi scrive, è stato anche un grande amico.

 


Richard Buckminster Fuller, Manuale operativo per Nave Spaziale Terra. il Saggiatore, 2018.

di Patrizia Caraveo

Tradotto finalmente in italiano il bestseller  di Buckminter Fuller, uscito in edizione originale nel 1969, perché è un fantastico esempio di un libro visionario che, dopo mezzo secolo, continua ad essere attuale. Richard Buckminster Fuller è stato uno dei più famosi designer e inventori del ventesimo secolo. Il suo principale interesse era quello di migliorare la società per riuscire a “fare di più con meno”.
A metà della sua carriera, Fuller sviluppò la sua cupola geodetica. Si tratta di una struttura leggera, economica e facile da assemblare, molto capiente che ebbe (ed ha) un successo strepitoso. Oltre ad essere stata replicata 300.000 volte tutto il mondo, la struttura della cupola geodetica è diventata talmente iconica da ispirare gli scopritori del fullerene (60 atomi di carbonio disposti secondo uno schema poliedrico sferoidale).
Nei primi anni ’50 Fuller, che si definiva un pensatore sociale, si concentrò sui vantaggi di un approccio sistemico alla risoluzione del problemi. Coniò la frase ormai celebre “astronave Terra” per descrivere la natura onnicomprensiva del sistema vivente della Terra. 
Secondo Fuller, la sopravvivenza dell’umanità dipende proprio dalla gestisce dell’astronave Terra e delle risorse che la Terra contiene, riuscendo a produrre abbondanza senza arrecare danni all’ambiente. 
Una visione attualissima che testimonia la genialità a tutto campo di una persona straordinaria che merita di essere ricordata.

 


Elio Franzini, Moderno e postmoderno. Un bilancio. Raffaello Cortina, 2018.

di Maria Pia Abbracchio

“Moderno” e “postmoderno” sono due termini intrecciati che delineano una significativa parte della storia culturale del nostro tempo, della sua memoria e della sua identità. Tali termini possiedono infatti ampi significati filosofici e, in genere, artistici e culturali. Pur non determinando un periodo storico definito, o una specifica corrente di pensiero o uno stabile percorso concettuale, originano molteplici incroci, che questo libro vuole illustrare, con la volontà di costruire un “bilancio”. Il risultato cui si giunge, dopo un ampio percorso,  forse suggerisce che, con la fine del secondo millennio, le differenze tra moderno e postmoderno tendono a sfumare, indicando piuttosto una comune genesi, che conduce verso nuove prospettive di pensiero. Si scopre così l’autentica finalità di questo “bilancio”, cioè riscoprire la capacità della filosofia di costruire una coscienza critica del presente, che superi le mode e le frammentazioni. Il rapporto tra moderno e postmoderno è dunque un elemento perturbante che insegna a guardare alla funzione e alla responsabilità della filosofia oggi, pur nella consapevolezza che non è a tale attualità che si deve rendere conto.

 


Alessandro Baricco, The Game. Einaudi, 2018.

di Renata Tinini

Apocalittici o integrati? Baricco nel suo ultimo libro The Game si schiera con gli integrati. Inutile fare i luddisti di fronte a questa rivoluzione epocale che ridefinisce il senso del nostro essere, la percezione dello spazio e del tempo e la modalità dei rapporti umani. Se questo nuovo mondo va abitato, ci servono delle mappe. Quindi Baricco costruisce il libro come un viaggio in territori sconosciuti, guidato solo dalla "bussola della paura". Una paura, però, non paralizzante, piuttosto un timore che suggerisce cautela ma che convive con la curiosità. La meraviglia, il thaumazein, ha indotto l’uomo, secondo Aristotele, a ricercare la causa delle cose. Ed è un Baricco meravigliato quello che percorre i pochi anni della rivoluzione digitale, con una chiave di lettura originale: è stata una rivoluzione mentale a produrre la rivoluzione tecnologica e non viceversa. L’uomo nuovo, quello della postura uomo-tasti-schermo è la causa e non l’effetto del mondo digitale. Com’è possibile? La spiegazione è affascinante anche se forse qualche storico storcerà il naso. L’Occidente che usciva dalle catastrofi delle guerre mondiali diceva basta ai confini e ai muri, voleva uno spazio aperto in cui ogni cosa potesse circolare. Diceva no alla mediazione, agli esperti che vestivano panni sacerdotali, cercava libertà, velocità, accessibilità. Wikipedia, Youtube, Airbnb, Amazon: in forme diverse rifiutano tutti la mediazione. Il movimento diventa il nuovo totem. E nasce così l’oltremondo. Non era un progetto preciso, non si sapeva dove si stava andando ma era chiaro da cosa si stava fuggendo. In una narrazione che alterna le biografie dei pionieri con aneddoti personali, dati statistici e analisi politiche, Baricco percorre questo oltremondo, che non è alternativo al mondo in carne ed ossa. Non vale il discorso reale/virtuale. Non c’è confine. Viviamo in due mondi. E l’oltremondo è un game. La componente ludica diventa la sua cifra. Tutto diventa semplice, accessibile. La superficialità ha vinto sulla profondità. L’illusione che tutto sia a portata di mano ha soppiantato la fatica dello scavo. L’essenza delle cose ormai galleggia in superficie. Essenza ed apparenza coincidono.  O così pare. In realtà, ci dice Baricco, è l’Iphone ad essere facile, non il Game. Il Game è un habitat difficile e selettivo che genera diseguaglianze e agorafobia. E allora rinasce la voglia di muri e confini, che danno sicurezza. Perché troppa libertà di movimento senza mappe può farci perdere. Come tutte le rivoluzioni anche questa ha prodotto un’élite che parla un linguaggio diverso, quello del Game.
Per capire il cambio di paradigma basta guardare l’audizione al Senato di Mark Zuckerberg nell’aprile 2018. Qui è in atto un esempio di quella che Quine chiama “traduzione radicale”: cioè la traduzione dalla lingua di una civiltà che non si conosce. Come si può dare un senso alle parole che denotano oggetti ed eventi che non abbiamo mai esperito? Come creare un ponte tra questi mondi? Senza rifugiarsi in soluzioni semplicistiche, Baricco fa notare come ci sia bisogno di umanesimo. Ma non è il Game che deve tornare all’Umanesimo bensì l’Umanesimo che deve raggiungere il Game, impedendo quella deriva in atto per cui l’individualismo tipico del Game si sta trasformando in egoismo di massa. E forse riflettere sul fatto che i padri del Game erano tutti maschi, bianchi, americani ed ingegneri può essere un buon inizio.

 


Alexander von Humboldt, I quadri della Natura. Codice Edizioni, 2018.
Andrea Wulf, L’invezione della natura. Luiss, 2017.

di Anna Piseri


“Possano i miei Quadri della Natura fornire al lettore una parte del piacere che una mente ricettiva trova nella contemplazione della natura.” Così si augurava  Alexander von Humboldt nella prefazione a un’opera di divulgazione molto apprezzata nell’Ottocento (di recente pubblicata in nuova edizione italiana da Codice Edizioni). L’entusiasmo condiviso con i lettori fu indubbiamente l’ingrediente che portò al successo gli “affreschi” sull’impresa scientifica scritti da Alexander von Humboldt. Ancora oggi questo affascinante intellettuale eclettico, vissuto a cavallo tra diciottesimo e diciannovesimo secolo, accompagna chiunque si cimenti nello studio della natura: piante, animali, foreste, parchi nazionali, ghiacciai, montagne, cascate, una corrente oceanica, un asteroide e persino un “mare” lunare portano nomi a lui dedicati. Si tratta però di una fama annebbiata dal tempo; non sono infatti molti nel ventunesimo secolo a conoscerne la biografia. Andrea Wulf, storica della scienza britannica, ha scritto un libro - L’invenzione della natura (Luiss, 2017) - su questo personaggio quasi leggendario. Per i suoi contemporanei era infatti una celebrità. Le conferenze dedicate alle esplorazioni e alla scienza che tenne a Berlino nei primi anni dell’Ottocento conseguirono un tale successo di pubblico da creare ingorghi nel traffico cittadino; Charles Darwin fu indotto a partire sul Beagle dall’avvincente lettura dei suoi resoconti di viaggio in sud America. È entusiasmante riscoprire questo “eroe perduto della scienza” nel vivace racconto della vita di chi ebbe il talento di rendere la scienza accessibile a tutti e di usare l’immaginazione per comprendere e far conoscere la natura. Illustre figlio dell’illuminismo, ebbe una cultura vastissima che spaziava tra scienza, arte, letteratura, politica e storia. Fu amico personale di Goethe, Simon Bolivar, Thomas Jefferson; fu fonte di ispirazione per Henry David Thoreau e per i fondatori del movimento conservazionista e ambientalista americano, George Perkins Marsh e John Muir. Leggendone la biografia scopriamo che è a von Humboldt che dobbiamo il concetto di natura come sistema globale, nonché la prima attualissima intuizione della stretta connessione tra problemi ambientali e questioni sociali, politiche ed economiche.

 


Lev Tolstoj, Guerra e pace. Einaudi, 2018.

di Simonetta Pagliani

Sto tenendo in mano il mio vecchio Guerra e pace, un’edizione Einaudi con custodia (ormai consunta) che mi è stata regalata da un medico russo amico di mio padre quando ho compiuto 12 anni: allora ci avevo messo un po’ a superare le prime pagine, nelle quali erano lasciate senza traduzione le conversazioni in francese dei salotti nobiliari, ma, una volta vinto l’abbrivio, non mi sono più staccata dalla lettura fino a che sono giunta all’ultima pagina, la numero 1.425.
Quell’impresa mi aveva appena dischiuso un forziere che aveva ancora tesori da rivelare. E, così, ho riletto il romanzo a vent’anni, con qualche conoscenza della letteratura russa e poi, ancora, a quaranta, con la capacità di apprezzarlo affinata dal buon numero di errori compiuti. Credo che resisterò alla tentazione di rileggerlo nella nuova traduzione appena uscita, come resisto alla tentazione di cercare su Facebook le persone cui ero legata in gioventù, perché non si dissolva l’incanto del ricordo.
E la traduzione di Enrichetta Carafa d’Andria, che ben sapeva come parlano i nobili, perché lei stessa di antico lignaggio napoletano, mi ha lasciato l’incanto della grande Russia specchiata nei suoi cieli. Per Petja, in guerra, “… il cielo aveva un aspetto magico, come la terra…A volte pareva che il cielo si sollevasse alto, alto sopra la testa; a volte invece il cielo si abbassava tanto che si sarebbe creduto di poterlo toccare con la mano”. Anche il principe Bolkonskij, a terra ferito, guarda il cielo: “Come mai, prima, non m'accorgevo di questo cielo così alto? E come sono felice d'averlo riconosciuto, finalmente! Sì, tutto è vano, tutto è inganno, fuorché questo cielo sconfinato”. 

 


Elkhonon Goldberg, La vita creativa del cervello. Ponte alle Grazie, 2019.

di Ernesto Carafoli


Moltissime pubblicazioni  - articoli, libri, persino un'Enciclopedia - hanno discusso in modo molto approfondito gli aspetti psicologici, socioculturali, evoluzionistici della creatività. I suoi aspetti neuroanatomici e fisiologici  sono  stati  per converso esplorati, o quantomeno discussi, in modo molto limitato: cosa strana, dato che la creatività è un prodotto dell'attivià'  del cervello. Il libro di Elkhonon Goldberg ha invece proprio il cervello come "attore" protagonista, il che gli dà un'importanza del tutto paricolare.
Goldberg discute in modo esauriente e  magistrale il ruolo dell'anatomia e della fisiologia del cervello nella generazione della creatività, con il lobo frontale e la corteccia prefrontale in posizione privilegiata. L'autore arricchisce  la discussione con il racconto delle sue esperienze di giovane neurofisiologo nell'Unione Sovietica, che gli hanno consentito di occuparsi di aspetti importanti, ma molto poco frequentati, della creatività. Il libro è scritto con grande maestria letteraria, il che ne rende la lettura un vero godimento. Golberg non è solo un neuroscienziato di prima grandezza: è anche uno scrittore nato.

 


Walter Quattrociocchi, Antonella Vicini, Liberi di crederci. Codice Edizioni, 2018.

di Marco Taddia

A distanza di un paio d’anni dall’uscita di Misinformation. Guida alla società dell'informazione e della credulità (Franco Angeli, 2016), la coppia Quattrociocchi-Vicini torna sull’argomento con questo nuovo libro, che si può leggere in una sera ma che permette di immunizzarsi dal dogmatismo comune, ossia “ragionare alla leggera di cose di cui non si comprende nulla e di cui nessuno al mondo capirà mai nulla" (Kant). Viene presentato come un antidoto contro la disinformazione, benché anche gli autori riconoscano che non sia sufficiente tentare di ristabilire con chiarezza le categorie del “vero” e del “falso” per non cadere nelle trappole di cui è disseminata la giungla internet dei miliardi di terabytes che ormai, poco o tanto, seducono tutti. Negli ultimi tempi si è parlato, anche in politica e nel campo della salute, di disinformazione digitale, casuale o costruita ad arte. Il World Economic Forum l’aveva inserita tra i “rischi globali” fin dal 2013. Se volete sapere il perché e conoscere i meccanismi che la favoriscono anche a livello cognitivo, questo è il libro giusto, dato che Quattrociocchi è autorevole studioso del ramo. 

 


Dava Sobel, Le scienziate che misurarono il cielo. Storia delle astronome che conquistarono Harvard. Rizzoli, 2018.

di Claudio Elidoro

Chi si interessa di astronomia o l’ha studiata alle superiori ricorda certamente la filastrocca “O Be A Fine Girl, Kiss Me!”, ideata da Henry Norris Russell per aiutare i suoi studenti a memorizzare la sequenza delle classi stellari. Pochi, però, sanno che le basi di questa classificazione, pilastro dell’astrofisica stellare, sono state gettate tra la fine del XIX e l’inizio del XX secolo dal fondamentale lavoro di un gruppo di astronome. In quegli anni, grazie alla lungimiranza di Edward Pickering, direttore dell'osservatorio, e all'interesse per l'astronomia di due ereditiere americane, ad Harvard si iniziò ad assumere alcune donne cui venne affidato il delicato compito di analizzare le lastre fotografiche dell’intera volta celeste. Analisi rigorosamente fatta a occhio nudo e calcoli fatti a mano con carta e penna.
Una nicchia di occupazione femminile davvero insolita per l’epoca. Ad Harvard, poi! Talvolta indicato con il nomignolo di “harem di Pickering”, quel gruppo di lavoro era davvero eterogeneo. Accanto a laureate in fisica, esperte in matematica e astronome dilettanti, infatti, vi erano mogli, sorelle e figlie dei professori di Harvard. Basta però citare i nomi di Williamina Fleming, Antonia Maury, Henrietta Swan Leavitt e Annie Jump Cannon per comprendere l’incredibile levatura di quel team tutto al femminile e la sua fondamentale importanza nella storia dell’astronomia.
Nel suo Le scienziate che misurarono il cielo Dava Sobel ci racconta le loro storie. Un libro che, attingendo direttamente alle fonti, ai diari personali e agli scambi epistolari delle protagoniste, ci conduce per mano alla scoperta di quel gruppo di lavoro. Strettamente intessute con le loro storie personali, ecco che prendono forma anche le loro scoperte, dalla scelta di un efficace criterio di classificazione delle stelle – tuttora in uso – all’elaborazione di una scala per le distanze astronomiche. Un appassionato e avvincente tuffo nel passato, insomma, portando alla luce del sole quel lavoro poco conosciuto che ha gettato le basi dell’astrofisica stellare.

 


Silvio Garattini, Vittorio Bertelè, Farmaci sicuri. La sperimentazione come cura. Edra, 2018.

di Maria Rosa Valetto

“Un nuovo farmaco può essere approvato sulla base di tre prerogative: qualità, sicurezza, ed efficacia (…). Ma manca qualcosa, il ‘valore terapeutico aggiunto’. Queste tre parole cambierebbero completamente il quadro della farmacologia clinica e del mercato del farmaco.” Questo, in estrema sintesi, il messaggio che Silvio Garattini e Vittorio Bertelè vogliono far passare al professionisti della salute e al grande pubblico; un messaggio che emerge dalle pagine del loro ultimo libro Farmaci sicuri - La sperimentazione come cura edito da Edra, ma che connota tutta una vita di ricerca al Mario Negri.
Gli autori si domandano se e quando sia possibile affermare che un medicinale faccia bene, male o non serva e provano a rispondere raccontando il percorso che porta all’approvazione di un farmaco, le regole scientifiche ed etiche della sperimentazione, i diritti e i doveri dei cittadini e delle aziende farmaceutiche e i potenziali benefici che la sperimentazione può portare alla società.
Invitano a tenere gli occhi ben aperti in un contesto dove gli interessi in gioco sono alti – il mercato globale dei farmaci vale due mila miliardi di euro – e costante la spinta a produrre farmaci di valore terapeutico incerto o nullo. Intravedono una possibile soluzione nella ricerca indipendente e smentiscono la teoria dominante che l’innovazione in campo farmaceutico dipenda solo dai profitti che può generare.

 


Cristina Cattaneo, Naufraghi senza volto. Raffaello Cortina, 2018.

di Roberto Satolli


Un cadavere senza nome è una storia che non si conclude, pensa Cristina Cattaneo, che ha trasformato il suo lavoro di anatomopatologa in un impegno costante per la pietà umana, dal barbone milanese agli annegati di Lampedusa, cui è negato persino il nome. Come per la fame e le varie forme di disoressia, il diritto alla privacy che ossessiona il mondo opulento e quello ad avere riconosciuta una identità individuale sono inversi e complementari. Come sapeva il Foscolo, il tasso di umanità di una società si misura anche da come si trattano i morti (e questo vale dai Neandertal in poi), ma questo è un riconoscimento davvero postumo. Durante l’epidemia di Ebola in Africa occidentale ci si è resi conto di quanto fosse importante contare bene i morti, ma ancor più che ogni bambino fosse registrato con un nome e una data di nascita. Tra tutte le infrastrutture carenti in quei luoghi, l’anagrafe si vede meno ma conta forse di più.

 


Roberta De Monticelli, Il dono dei vincoli. Garzanti, 2018.

di Giulia Candiani 

Meglio non leggere Husserl senza una guida. E' da tempo che volevo iniziare, ma una certa soggezione mi ha sempre dissuaso. Ora con l'aiuto di Roberta de Monticelli e del suo nuovo libro Il dono dei vincoli mi sono decisa a muovere i primi passi in quella direzione. Il sottotitolo è “Per leggere Husserl” e il libro spiega sia perché ne vale la pena, oggi, nonostante tutto quello che è già stato detto e scritto sull'autore, sia come farlo, attraverso quali chiavi di lettura. Inoltre ripropone il metodo con cui passare dalla teoria alla pratica e lo chiarisce con molti esempi.
Per Roberta De Monticelli “la fenomenologia è uno strumento per pensare con rigore qualunque aspetto di quel mondo della vita nel quale siamo immersi con il nostro corpo e i nostri sensi, le nostre emozioni e i nostri desideri, dal quale emergiamo appena con le nostre decisioni e le nostre azioni, nel quale comunichiamo con i nostri simili, lottiamo per quello che ci sta a cuore, abitiamo le istituzioni della vita civile, soffriamo tutti i mali e godiamo di tutti i beni che la civiltà ci procura, dove infine, sciolti tutti i vincoli in cui consiste l'unità del nostro essere, moriamo”.

 


Carl Safina, Al di là delle parole. Adelphi, 2018.

di Sergio Cima

Safina intende mostrare che al di là delle parole si può comunicare, forse anche ragionare, pensare in modo completo e complesso come capita di fare, a volte, agli umani. La parola è un accidente che è capitato a noi ma se agli altri manca non dobbiamo giudicarli al di sotto del nostro livello. Per dimostrarlo Safina racconta decine di aneddoti vissuti in prima persona (e no) durante le ore di osservazione degli animali che lo hanno convinto sempre più che tra l'uomo e gli altri animali non c'è un salto ma un continuo, giacciono sullo stesso piano.
Qui qualcuno potrebbe preoccuparsi di eccessivi antropomorfismo e aneddotica. Safina no (ci sono passaggi interessanti su cosa intenda l'autore per antropomorfismo e perché non debba essere un tabù per gli etologi: "Quando qualcuno dice che non si possono attribuire sensazioni umane agli animali, dimentica che le sensazioni umane sono sensazioni animali. Sono ereditate, rese possibili da sistemi nervosi ereditati") e scarta un po' troppo in fretta filosofi e cognitivisti e le loro teorie della mente. Ecco, forse Safina avrebbe potuto spendere qualche ora in più per capire il famoso aforisma di Wittgenstein ("Se un leone potesse parlare, noi non potremmo capirlo"), invece lo liquida con nonchalance ma poi impiega un capitolo per ipotizzare proprio ciò che aveva inteso dire il grande filosofo: i leoni, gli animali con le loro diverse strutture percettive, neuronali (e, a volte, sociali) giocano a un altro gioco.  
Se non le parole i sentimenti sono terreno di incontro con gli animali. Safina è insofferente verso i colleghi che osservano con un atteggiamento troppo razionale: non puoi capire il soggetto se non gli vuoi bene. Non è banale, perché implica per Safina che certe fasce di rispetto, che oggi tutti danno per scontate, andrebbero eliminate. Un esempio? In Canada e negli USA accarezzare una balena costa una multa salata. Sembra normale al nostro odierno spirito ecologista. In Messico però multe non ne fanno: giusto così, dice Safina. Quando la balena vuole la privacy se la prende, lì invece vuole le carezze, tant’è che se i turisti non si mostrano interessati se ne va in cerca di altri più affettuosi. E' una prospettiva diversa e insolita per un etologo, uno dei pochi che non condanna i delfinari a priori, perché è evidente che i delfini si stanno divertendo (il capitolo Non disturbare è da leggere). 
E' una questione di equilibrio, che muta anche in rapporto alle nostre conoscenze. Ma l’uomo dovrebbe sempre accogliere e proteggere (il titolo di uno degli ultimi capitoli): di fronte ad animali che non hanno parola dovremmo comportarci come di fronte a tutti i soggetti deboli che non hanno voce in capitolo nel nostro mondo e difenderli attivamente. Prima ancora di capirli, amarli. 

 


Alberto Mantovani, Bersaglio mobile. Mondadori, 2018

di Luca Carra

Quest'anno a Natale me la sono cavata con due regali seriali: ai più giovani (diciamo dalla terza media alla quinta superiore) ho regalato una copia di L'uomo e la farfalla, di Filippo Giorgi, il nostro migliore modellista climatico, con cui ho l'onore di condividere l'insegnamento di Ambiente al master in comunicazione della scienza della Sissa di Trieste. Ne ho già parlato su questo sito in un articolo a cui rimando chi voglia capire perché il cambiamento climatico sia cosa molto più seria di quanto ci ostiniamo a credere. Agli adulti ho regalto Bersaglio mobile, del nostro (e non solo nostro) migliore immunologo, Alberto Mantovani. Purtroppo il cancro è un bersaglio mobile nel senso che cambia fattezze sotto i nostri occhi, ancora abituati a ragionare in medicina secondo vecchie classificazioni statiche. Stiamo entrando in una nuova era della cura del cancro, un'era che nasce dalla comprensione profonda dei meccanismi del sistema immunitario, dove troviamo lo stallo ma spesso anche la via d'uscita dal labirinto della malattia. Con stile piano e comprensibile a tutti il libro indica la strada che sta portando la comunità scientifica a riorientare sull'individuo le strategie di cura. L'ultimo capitolo riassume le sfide della ricerca concludendo con l'importanza di condividere le terapie con i Paesi in via di sviluppo, per colmare un divario inaccettabile: nei nostri Paesi l'85% delle leucemie infantili viene curato con successo, nei Paesi poveri meno della metà. Qualcuno mi ha fatto capire che a Natale si aspettava un regalo più allegro. Gli ho risposto di leggerlo, contiene buone notizie.

 


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Why science cannot prove the existence of God

The demonstration of God's existence on scientific and mathematical grounds is a topic that, after captivating thinkers like Anselm and Gödel, reappears in the recent book by Bolloré and Bonnassies. However, the book makes a completely inadequate use of science and falls into the logical error common to all arguments in support of so-called "intelligent design."

In the image: detail from *The Creation of Adam* by Michelangelo. Credits: Wikimedia Commons. License: public domain

The demonstration of God's existence on rational grounds is a subject tackled by intellectual giants, from Anselm of Canterbury to Gödel, including Thomas Aquinas, Descartes, Leibniz, and Kant. However, as is well known, these arguments are not conclusive. It is not surprising, then, that this old problem, evidently poorly posed, periodically resurfaces.