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Il 16 ottobre pioveva su Roma

Birkenau

Crediti: RonPorter/Pixabay. Licenza: CC0

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Il 27 gennaio del 1945 venne liberato, ad Auschwitz, Cesare Di Segni, nato a Roma il 5 agosto del 1899, venditore ambulante di abbigliamento, catturato nel rastrellamento del ghetto il 16 ottobre del 1943; fu l’unico a resistere in quel campo (ma morì poco dopo il rimpatrio nell’ottobre del 1945), mentre altri 14 uomini, fra cui suo figlio Lello, ce la fecero in campi diversi, dove gli ebrei romani non destinati immediatamente al gas furono in parte smistati; sopravvisse una sola donna, sua nipote Settimia Spizzichino, mentre Fiorella Anticoli ed Enrica Spizzichino, che furono anch’esse liberate, morirono dopo pochi giorni. Nessun bambino tornò.

Settimia Spizzichino subì gli esperimenti di Carl Clauberg:

Pregavo notte e giorno: io devo tornà a Roma, magari per un’ora, poi famme morì, ma io ce devo tornà a Roma, perché io devo raccontare, devo dirle ‘ste cose!1 

Dopo l’annuncio di Badoglio delle trattative per la resa, l’8 settembre del 1943, quando i tedeschi occuparono l’Italia, in alcune migliaia gli ebrei erano già fuggiti in Svizzera, altri avevano trovato riparo presso conventi o istituzioni cattoliche oppure avevano raggiunto il sud d’Italia liberato; molti, giovani, si erano uniti alle formazioni partigiane (in cui sono stati israeliti il 2% dei combattenti e il 7% dei caduti) . Gli ebrei di Roma, che speravano nell’incolumità in cambio della quale avevano consegnato a Kappler di 50 chili d’oro (e Debenedetti riferisce che non pochi “ariani” parteciparono alla raccolta), ebbero la peggio: il 16 ottobre i tedeschi prelevarono 1.022 tra uomini, donne e bambini, li portano nel Collegio Militare di Palazzo Salviati in via della Lungara e, di lì, alla stazione Tiburtina, dove li caricarono su carri blindati che partirono il 18 e arrivarono ad Auschwitz il 22 ottobre. Due anziani morirono in viaggio e, a nord di Padova, un giovane, Lazzaro Sonnino, riuscì a fuggire, gettandosi dal treno.

Il 26 ottobre 2018, con la morte di Lello Di Segni, figlio di Cesare, che era stato internato a Dachau, è scomparso l’ultimo sopravvissuto di quel rastrellamento.

Pioveva su Roma, una fitta pioggia autunnale che non faceva molto rumore e che copriva di un velo il buio della notte. Prima dell’alba i soldati tedeschi avevano sparato diffusamente intorno alle vie strette del vecchio ghetto: sparavano in aria nel deserto del coprifuoco, senza scopo apparente e questo rendeva ancora più inquietante il fragore dei loro spari. Qualcuno si era alzato ancor prima dell’alba nella casa e nelle case vicine. Era annunciato un rifornimento di sigarette, quella mattina. Ed era meglio mettersi in coda presto dal tabaccaio dell’Isola Tiberina, là accanto. Erano in tanti a fumare, allora, e le sigarette erano un bene raro e rassicurante…La razzia cominciò poco prima delle cinque e trenta. Il quartiere del vecchio ghetto era circondato, c’erano pattuglie tedesche di guardia a tutte le vie d’accesso, in via del Tempio, in via del Progresso, in via del Portico d’Ottavia, in piazza Costaguti, in via Sant’Angelo in Pescheria, in piazza Mattei, di fronte al teatro Marcello…il sentimento più forte, oltre alla paura, era l’incredulità…che se ne facevano, i nazisti, di tutti quei bambini, quei vecchi? si pensava…non sapevano che i tedeschi stavano facendo lo stesso in tutta Roma, in quello stesso momento ogni edificio della città in cui abitavano ebrei risuonava delle stesse grida e degli stessi passi. I nazisti avevano in mano gli elenchi di tutti gli ebrei di Roma, uno per uno, completi di indirizzo. Avevano diviso la città in 26 zone operative e in ognuna di esse si sviluppava contemporaneamente la razzia, che aveva lo scopo di arrestare la maggior parte degli ebrei presenti in quel momento in città, fra italiani e stranieri oltre tredicimila2 

Ne presero molti di meno; la caccia, continuata per tutta Roma nelle settimane e nei mesi seguenti, finì con la deportazione di 2.091 ebrei (1.067 uomini; 743 donne; 281 bambini). Nel rapporto sull'operazione inviato da Herbert Kappler, tenente colonnello delle SS, comandante dell’SD e della Gestapo a Roma, al generale delle SS Karl Wolff e reso noto durante il processo ad Adolf Eichmann, l’insufficiente successo dell’operazione fu attribuito sia all’esiguità degli uomini adoperati, sia a un

Comportamento della popolazione italiana chiaramente di resistenza passiva; che in un gran numero casi singoli si è mutata in prestazioni di aiuto attivo. Per es. in un caso, i poliziotti vennero fermati alla porta di un'abitazione da un fascista in camicia nera, con un documento ufficiale, il quale senza dubbio si era sostituito nella abitazione giudea usandola come propria un'ora prima dell'arrivo della forza tedesca. Si poterono osservare chiaramente anche dei tentativi di nascondere i giudei in abitazioni vicine, all'irrompere della forza germanica ed è comprensibile che, in parecchi casi, questi tentativi abbiano avuto successo. Durante l'azione non è apparso segno di partecipazione della parte antisemita della popolazione: ma solo una massa amorfa che in qualche caso singolo ha anche cercato di separare la forza dai giudei3 

Nell’operazione furono impegnati 365 riservisti con un piccolo reparto specializzato diretto da Theodor Dannecker, già responsabile dell’operazione “velodromo d’inverno” (in cui egli aveva concentrato gli oltre 13.000 francesi arrestati) e che in seguito avrebbe aiutato Eichmann a deportare gli ebrei ungheresi. I poliziotti italiani furono esclusi dall’operazione, perché considerati inaffidabili nel mantenimento della sua segretezza.

Degli ebrei romani scampati ai campi, 75 morirono il 24 marzo del 1944 nel gruppo dei 335 uomini uccisi per rappresaglia alle Fosse Ardeatine. In riferimento a questa vicenda, Giacomo Debenedetti racconta, nel libro “Otto ebrei”4,5 che il commissario di Pubblica Sicurezza Raffaele Alianello ascrisse a proprio merito di aver espunto, il 24 marzo 1944, il nome di otto ebrei dalla lista dei destinati alle Fosse Ardeatine. Debenedetti, che bolla quest’azione particolare come una tattica per ingraziarsi i futuri, ma ormai certi, vincitori, si ribella comunque “in via filosofica” a questo pietismo, perché

creare eccezioni a vantaggio degli ebrei non è un modo di riparare dei torti. Riparazione sarebbe rimettere gli ebrei in mezzo alla vita degli altri, nel circolo delle sorti umane, e non già appartarveli sia pure per motivi benigni. Questa è un’antipersecuzione: dunque, fatta della medesima sostanza psicologica e morale della persecuzione… può nascere il dubbio che negli ebrei si perdoni l’ebreo

O, come scriveva Ottavio Cecchi nell’introduzione all’edizione 1977 del libro, che essi siano costantemente confinati “nel ghetto della diversità o nel ghetto della simpatia”.

La comunità ebraica non era certo un corpo estraneo dentro Roma: numerosa e antica, faceva parte della storia della città da ben prima del Papato e dell’era cristiana. Lo testimoniano tracce archeologiche di sinagoghe a Ostia e a Bova Marina in Calabria, nelle catacombe di Venosa in Basilicata e in steli sepolcrali: nel 168 a.C. la Giudea aveva chiesto al Senato romano aiuto nella guerra contro i Seleucidi, mandando a Roma vari ambasciatori con un seguito di mercanti e studiosi; inoltre, la popolazione ebraica sconfinava spesso dalla Palestina e, allora, Roma era caput mundi. Dopo la repressione romana dei ribelli giudei e la caduta di Gerusalemme (70 a.C.), qualche migliaio di ebrei sconfitti arrivò a Roma in ceppi, mentre un’altra parte di essi era stata destinata ad circenses a Cesarea o inviata nelle miniere (ad metalla) in Sardegna o venduta nei mercati di schiavi dell’Oriente.

Nel 313, l’imperatore Costantino, concedendo, con l’editto di Milano, la libertà religiosa ai cristiani, ne capovolse la condizione da perseguitati, da soli o insieme agli ebrei, a persecutori di questi ultimi. Da allora in poi, la storia degli ebrei romani è stata la storia delle vessazioni del papato, per il quale, però, gli ebrei dovevano continuare a esistere, a perenne espiazione del deicidio: per questo motivo, Roma è l’unica città dell’Occidente da cui essi non furono mai espulsi.

Intorno al 1000, in tutti i paesi cristiani furono istituite le Corporazioni di arti e mestieri, precluse ai non cristiani. Da quel momento, gli ebrei si appropriarono dell’unica professione vietata ai cristiani, il commercio di denaro; con tale attività si resero ovunque necessari e, perciò, tollerati. Gli ebrei di Roma furono tra i primi a istituire banchi di credito. La tolleranza, nei secoli, fu, però, sempre precaria: quando Federico II lo Svevo nel 1231 legiferò per la parità degli ebrei con gli altri cittadini, fu scomunicato; nel 1250, a Napoli, si era scatenato il primo pogrom ante litteram, un eccidio che ancora risuona nel nome della via Scannagiudei; dieci anni dopo Papa Clemente I chiese a domenicani e francescani ancor più rigore nei confronti degli ebrei.

Nel 1492, la corona spagnola scacciò 200.000 ebrei dalla Spagna e 40.000 da tutti i suoi domini, Sicilia inclusa, dove erano presenti da quindici secoli. Con l’arrivo di molti di essi a Roma, le usanze sefardite s’innestarono su quelle autoctone. Nel 1555, in clima di Controriforma, papa Paolo IV emise la bolla Cum nimis absurdum, in cui deprecava che “…gli ebrei, che per loro colpa sono stati condannati da Dio alla schiavitù eterna” vivessero in mezzo ai cristiani, perfino nelle vicinanze delle chiese, si vestissero come gli altri, comprassero case e assumessero dipendenti cristiani. Venne, perciò, istituito il ghetto, chiamato “serraglio degli ebrei”, nel rione Sant’Angelo, con cancelli chiusi alla sera e riaperti all’alba. Gli uomini dovevano portare un berretto e le donne uno scialle distintivi, “glauci coloris”; era vietato ogni contatto o amicizia con i cristiani e ogni tipo di lavoro, arte o commercio che non fosse il traffico di stracci e di abiti usati “sola arte strazziariae seu cenciariae”.

Nel 1798, la nascita della prima Repubblica romana fu una breve parentesi di egualitarismo, ma, il ritorno di Pio VII nel 1814 rinchiuse nuovamente gli ebrei nel ghetto e ripristinò per i capi della comunità l’obbligo dell’umiliante periodico omaggio in Campidoglio, durante il quale venivano sottoposti al tradizionale calcio, usanza che durerà fino al 1830. Tutto ciò mentre a Livorno (unica città italiana che non istituì mai un ghetto) il granduca di Toscana incoraggiava l’afflusso degli ebrei, garantendone la sicurezza con il decreto “Livornina” e in Piemonte la storia degli ebrei italiani confluiva sempre di più con la storia d’Italia: gli ebrei parteciparono ai moti risorgimentali e alle imprese garibaldine, Carlo Cattaneo denunciava l’insostenibilità della loro discriminazione, Camillo Benso di Cavour aveva per consiglieri Ottolenghi, Todros, Vitta, Leonino, per segretario particolare Isacco Artom e per direttore del giornale governativo L’opinione Giacomo Dina, tutti israeliti.

Il 20 settembre 1870, proprio al comando di un ebreo, il capitano d’artiglieria Giacomo Segre, scelto perché incurante della scomunica minacciata dal Papa, una batteria di cannoni aprì la fatale breccia nelle mura di Roma a Porta Pia: il ghetto viene definitivamente abolito e gli ebrei equiparati agli altri cittadini. Nel 1871, la Camera contava undici deputati ebrei. Nel 1888, per risanare l’area del vecchio ghetto, buona parte degli edifici, igienicamente inadeguati, fu demolita, creando così tre nuove strade: via del Portico d’Ottavia, via Catalana e via del Tempio. Nel 1904, tra Lungotevere Cenci e via del Portico d’Ottavia, fu inaugurato il Tempio Maggiore, disegnato in stile art nouveau dagli architetti Osvaldo Armanni e Vincenzo Costa e tra il 1907 e il 1913, Ernesto Nathan fu sindaco di Roma.

Nel 1938, al momento dell’emanazione delle leggi razziali, la comunità ebraica romana consisteva di circa 12.000 persone; gli uomini erano prevalentemente dediti al commercio o impiegati nel settore pubblico e privato, mentre erano pochi i liberi professionisti e i grandi imprenditori. Nel giugno del 1944 mancavano all’appello circa 2.000 deportati, ma nel dopoguerra gli ebrei a Roma erano comunque più di 11.000, perché molti erano profughi dall’Est europeo.

Oggi, gli ebrei romani sono circa 13.000. Claudio Procaccia, direttore del Dipartimento per i beni e le attività culturali della comunità ebraica di Roma, rileva che nel dopoguerra essa era divisa in “caste”, prima ancora che in classi6, 7, tanto che c’era, al suo interno, chi ironicamente vi distingueva Israeliti, Ebrei e Giudii. I primi erano i membri delle famiglie ricche in denaro e cultura da generazioni; al secondo gruppo appartenevano i bottegari, commercianti con negozi di dimensioni variabili, i proprietari di imprese medie e piccole, spesso a conduzione familiare; dell’ultima categoria facevano parte i venditori ambulanti (ricordari, stracciaroli e simili) e chi svolgeva lavori ritenuti umili.

Lo stretto gruppo delle persone che frequentavano conferenze e riunioni culturali tendeva a disertare le funzioni religiose, mentre i membri dei ceti più bassi erano più assidui nel seguire i riti sinagogali; sono quindi stati i Giudii (e, soprattutto i frequentatori del Tempio Spagnolo) a trasmettere l’identità ebraica romana. Le famiglie dei discendenti dai prigionieri portati a Roma dall’imperatore Tito dopo la distruzione del Tempio di Gerusalemme erano nominate, nelle fonti ebraiche, come min ha-tappucḥim (delle mele), min ha-adumim (dei [capelli] rossi), min ha-anavim (dell’umile) e min ha-ne‘arim (dei giovani); nel XVI secolo, diventano de Pomis e de Rossi. La maggioranza delle famiglie ebree che andarono a vivere nella capitale dello Stato Pontificio assunse un cognome ereditario proprio nel 1500, mutuandolo dal nome delle città vicino a Roma da cui provenivano, come Di Segni, Piperno, Pontecorvo, Rieti e Tivoli8.

Il rito religioso degli ebrei capitolini è quello detto italiano o romano; in esso vi sono elementi sefarditi commisti a elementi autoctoni antichissimi, che possono essere fatti risalire alla ritualità del Tempio di Gerusalemme9. Solo a Roma, per esempio, si può arrostire l’agnello per il Seder di Pesach (cosa vietata in tutti gli altri luoghi, perché non si creda che l’animale sia stato sacrificato fuori del Santuario di Gerusalemme).

Come tutti gli ebrei che vivono in Italia, i romani parlano da secoli l’italiano o il dialetto, trasformato dal lessico familiare in quel giudeo-italiano che, secondo Primo Levi, è soprattutto la lingua che si usa per non farsi capire da terzi, come i bambini o gli ebrei di un’altra regione o i non ebrei. Egli si riferiva (ma, propabilmente, vi sono analogie nel dialetto romano) al giudeo-piemontese, rilevando che il suo vocabolario ha soprattutto le parole della solidarietà, dell’allarme, del pericolo e che vi sono inseriti termini di origine ebraica per indicare persone di famiglia, bambini e fortune materiali e morali; nell’uso dialettale di tali parole si conserva la caratteristica pronuncia italiana dell’ebraico, simile a quella sefardita, con qualche differenza regionale10.

 
Bibliografia
Marcello Pezzetti Il libro della Shoah italiana. Einaudi 2009
Anna Foa. Portico d’Ottavia 13. Una casa del ghetto nel lungo inverno del ’43. Laterza 2013
Renzo De Felice. Storia degli ebrei italiani sotto il fascismo. Einaudi 1961
Giacomo Debenedetti 16 ottobre 1943 Mercurio 1944, Saggiatore 1961, Editori Riuniti 1977, Sellerio ed Einaudi tascabili 2015
Giacomo Debenedetti Otto ebrei Atlantica 1944 ed Editori Riuniti 1978
Giogio Piperno. Ebraismo, sionismo, halutzismo. Carucci 1976
Sergio Della Pergola. Anatomia dell’ebraismo italiano. Caratteristiche demografiche, economiche, sociali, religiose e politiche di una minoranza. Carucci 1976
Alexander Beider. Né Askenaziti né Sefarditi: gli ebrei italiani sono un misteroJoimag, 6 agosto 2018
Riccardo Di Segni. La cultura folkloristica degli ebrei in Italia. Morasha
Primo Levi. Il sistema periodico, Einaudi 1975
Altri libri sull’argomento
Elsa Morante qualche pagina ne “La Storia” (Einaudi 1974)
Sandro Gai “Mio Dio perché? 16 ottobre 1943 in fuga con blocco e matita” (Palombi Editori 2012)
Lia Levi “Una bambina e basta” (editore E/O 2011)
Lia Levi “Tutti i giorni di tua vita” (editore E/O 2012)
Rosetta Loy “La parola ebreo” ” (Einaudi 1997)
Francesca Romana De Angelis “Per infiniti giorni” (Passigli 2014)

 


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