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Eredità biparentale dei mitocondri, uno studio apre il dibattito

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Mitocondri

Ingrandimento di un'immagine acquisita con microscopio elettronico a trasmissione in cui si osservano due mitocondri. Crediti: Louisa Howard/Wikimedia Commons. Licenza: dominio pubblico

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"Alle donne che ci hanno trasmesso i loro mitocondri", recita la dedica di "Chi siamo. La storia della diversità umana" di Luca e Francesco Cavalli Sforza. La trasmissione per via materna di questi organelli cellulari è infatti un caposaldo della biologia. Ma a fine dicembre, un articolo pubblicato su PNAS ha descritto un'altra possibilità che, seppur troppo rara per far crollare il dogma della trasmissione dei mitocondri da parte della sola madre, apre comunque il sipario anche su uno scenario diverso. Secondo gli autori, in alcuni casi eccezionali, sarebbe possibile che anche il padre possa trasmettere i propri mitocondri ai figli, e i ricercatori sostengono così la possibilità di un'eredità biparentale del DNA mitocondriale. Se confermato, questo studio potrebbe avere ricadute sulla fecondazione assistita con donazione di mitocondri (approvata dal Parlamento inglese, anche se ancora mai usata nel Paese), nonché sullo studio delle malattie mitocondriali.

Tuttavia, la comunità scientifica non è concorde nell'accettare questi risultati e una lettera recentemente pubblicata su PNAS suggerisce che possano essere dovuti a un artefatto: l'amplificazione, invece che del DNA mitocondriale, dei cosiddetti NUMT (nuclear mitochondrial DNA sequence), frammenti di DNA mitocondriale che nel corso dell'evoluzione si sono trasferiti nel nucleo delle nostre cellule.

La ricerca del gruppo di Luo e Huang 

I mitocondri contengono molecole di DNA circolare che codificano per alcune delle proteine necessarie alla produzione di energia cellulare. Nella gran parte dei casi, le sequenze di DNA mitocondriale sono tutte uguali, una condizione definita "omoplasmia". Nel corso del tempo, però, è possibile osservare la comparsa casuale di mutazioni, solitamente in una singola posizione, che producono una diversa variante di DNA mitocondriale. Man mano che l'organello si moltiplica e replica il suo DNA, aumenterà nella cellula la percentuale di questi mitocondri mutati; comincia così a comparire, nella popolazione dei genomi mitocondriali, la coesistenza di sequenze wild-type e mutate, condizione definita "eteroplasmia". Poiché la presenza di mutazioni può determinare l'insorgenza di malattie legate al malfunzionamento del mitocondrio, la condizione e il livello di eteroplasmia sono fattori importanti in medicina.

Lo studio riportato su PNAS, guidato dai ricercatori Shiyu Luo e Taosheng Huang, parte da un ragazzo sospettato di soffrire di una malattia mitocondriale. Il sequenziamento del suo intero DNA mitocondriale non rivelava però mutazioni patologiche, bensì livelli insolitamente alti di eteroplasmia, riscontrati anche nella madre e nelle sorelle. Estendendo la ricerca alla generazione precedente, gli autori sono risaliti all'origine dell'insolito pattern: un contributo nel contenuto di genoma mitocondriale da parte di entrambi i nonni materni.

Luo e Huang sono poi riusciti a rintracciare altre due famiglie non imparentate che presentavano lo stesso schema, con un alto livello di eteroplasmia mitocondriale (dal 24 al 76 per cento), per un totale di 17 individui. In alcune di queste persone, l'eteroplasmia era associata a sintomi che lasciavano sospettare una malattia mitocondriale; in nessuna di esse, però, è stata confermata una diagnosi.

Da questi risultati, gli autori hanno concluso che vi possano essere casi eccezionali in cui anche il padre contribuisce a trasmettere i mitocondri ai figli, e suggeriscono che la ragione di tale trasmissione possa essere in un difetto del "sistema di sorveglianza" cellulare che consente l'eliminazione degli organelli paterni. Infatti, quando lo spermatozoo feconda l'oocita, trasferisce al suo interno sia il materiale genetico sia i relativamente pochi (un centinaio, a fronte delle centinaia di migliaia contenute nella cellula uovo) mitocondri che gli permettono la motilità. All'interno dell'oocita, i mitocondri paterni sono riconosciuti e selettivamente eliminati, con un meccanismo non del tutto noto, da un "sistema di sorveglianza" della cellula.

«L’evoluzione ha fatto sì che il DNA mitocondriale della gran parte degli animali sia trasmesso solo per via materna in modo da evitare l’eccesso di mutazioni che si genera, a causa del forte danno ossidativo, nei mitocondri dello spermatozoo durante il suo lungo viaggio per raggiungere l'oocita», spiega Antonio Torroni, professore di genetica all'Università di Pavia che da anni utilizza il DNA mitocondriale per ricostruire l’origine e la storia delle popolazioni umane.

Il lavoro di Luo e Huang non rappresenta una novità completa nel panorama degli studi sull'ereditarietà dei mitocondri. «Già nel 2002, John Vissing, clinical professor all'Università di Copenhagen, aveva descritto il caso di un paziente affetto da miopatia, nel tessuto muscolare del quale aveva riscontrato la presenza di DNA mitocondriale di origine paterna», racconta Torroni. «Ma da allora non sono più stati confermati casi simili: quello descritto da Vissing rappresentava finora l'unica eccezione al paradigma dell'eredità materna dei mitocondri».

«Inoltre nel caso descritto da Vissing era stata accertata la malattia mitocondriale e identificata la mutazione patogena», nota Valerio Carelli, professore associato all'Università di Bologna e specializzato nello studio di un particolare gruppo di malattie mitocondriali, le neuropatie ottiche. «Mentre per i pazienti analizzati dal gruppo di Luo e Huang la malattia non è stata comprovata».

Uno studio controverso

Le tre famiglie sarebbero quindi le prime a dimostrare una trasmissione biparentale di DNA mitocondriale dopo oltre 16 anni dalla pubblicazione del lavoro di Vissing. E diversi aspetti dello studio hanno sollevato la perplessità della comunità scientifica. Lo stesso Vissing, in un commento allo studio pubblicato a fine gennaio, evidenzia la stranezza di un livello di eteroplasmia molto uniforme tra una generazione e la successiva, suggerendo come possibile spiegazione la co-amplificazione, insieme al DNA mitocondriale materno, di NUMT.

«Si tratta di un fenomeno avvenuto in epoche ancestrali diverse e che in parte continua ancora oggi: frammenti di DNA mitocondriale si sono trasferiti nel nucleo delle nostre cellule e vi sono rimasti. Ciò fa sì che il genoma nucleare contenga al suo interno sequenze simili a quelle del genoma del mitocondrio. È quindi possibile che si possano avere artefatti tecnici di co-amplificazione di questi NUMT, che fanno apparire una falsa eteroplasmia», spiega Carelli.

I dubbi riguardo il lavoro di Luo e Huang sono stati raccolti in una lettera, anch'essa pubblicata a fine gennaio, firmata dai biologi molecolari Walther Parson e Sabine Lutz-Bonengel delle Università di Innsbruck e Friburgo. Il primo dubbio sorge proprio dal livello uniforme di eteroplasmia conservatosi da una generazione all'altra. «Quando il DNA mitocondriale eteroplasmico viene trasmesso da una madre ai figli, la percentuale di una determinata sequenza che segrega negli oociti cambia in modo stocastico attraverso un fenomeno detto di bottleneck (letteralmente, "collo di bottiglia"). In pratica, se in una determinata posizione del genoma mitocondriale è presente una mutazione e il DNA mutato è contenuto nelle cellule somatiche della madre ad esempio all'80 per cento, nella linea germinale non si mantiene la stessa percentuale. Un oocita potrebbe contenere il DNA mutato nel 10 per cento dei suoi mitocondri, un altro al 100 per cento, uno non averne affatto e così via», spiega Carelli.

Ma guardando le eteroplasmie riportate dal gruppo di Luo e Huang di generazione in generazione non si osserva il fenomeno di segregazione stocastica attraverso la linea germinale: dalla madre ai figli, il livello di eteroplasmia rimane costante. Un dato che fa pensare ai ricercatori che, ad essere analizzato, sia stato un segmento di cromosoma nucleare contenente NUMT, e quindi soggetto alle regole di segregazione mendeliana.

Le considerazioni del gruppo di Luo e Huang

La replica degli autori è stata pubblicata in contemporanea alla lettera di Parson e Lutz-Bonengel. In effetti, scrivono, il loro lavoro si limita a documentare un inusuale modello di trasmissione di DNA mitocondriale che appare di origine paterna, ma senza specificare da dove derivi questo DNA; tuttavia, vi sono alcuni elementi che li portano a escludere l'ipotesi dell'artefatto dovuto alla co-amplificazione di NUMT. Il primo è strettamente metodologico: la tecnica di amplificazione impiegata (sull'intera lunghezza del DNA mitocondriale, usando una coppia di primer back-to-back) non dovrebbe permettere la replicazione dei corti frammenti rappresentati dai NUMT, eventualità che comunque gli autori non escludono.

Un altro aspetto che secondo gli autori inficia l'ipotesi di un artefatto è basato sulla considerazione che le diverse sequenze di DNA nucleare sono presenti in duplice copia (una sul cromosoma di origine materna, l'altro su quello paterno), mentre il mitocondriale è presente in centinaia di copie (tante quante sono gli organelli contenuti nella cellula). L'amplificazione con PCR di un elemento nucleare come il NUMT dovrebbe quindi dare un netto svantaggio numerico rispetto al DNA mitocondriale, tale da renderne difficile la rilevazione. «Una possibile contro-risposta a quest'argomentazione, però, sarebbe che non è frequente né improbabile che una certa sequenza sia presente in copie ripetute all'interno del cromosoma», commenta Carelli. «Il genoma umano è ricchissimo di ripetizioni, causate dalla duplicazione di sequenze nel corso dell'evoluzione».

Infine, scrivono Luo e i colleghi, nelle tre famiglie analizzate vi sono quattro casi di donne che presentavano l'eteroplasmia e hanno avuto, in totale, otto figli, tutti con la stessa eteroplasmia. Se la sequenza analizzata fosse un NUMT, quindi un elemento nucleare, bisognerebbe assumere che questi otto figli abbiano sempre ricevuto il cromosoma che conteneva il NUMT, una probabilità piuttosto scarsa.

Una questione ancora aperta

«Gli argomenti del gruppo di Luo e Huang sono buoni dal punto di vista tecnico», commenta Torroni. «Di fatto la questione rimane però aperta, perché la possibilità di una co-amplificazione di NUMT andrebbe affrontata più nel dettaglio: ad esempio, come sostengono nella loro lettera Parson e Lutz-Bonengel, sarebbe stato necessario escludere la possibilità di NUMT analizzando cellule degli individui eteroplasmici modificate in modo da privarle del loro DNA mitocondriale (quelle chiamate "cellule Rho zero")».

«Inoltre, l'eteroplasmia in patologia umana produce mosaicismo: la biopsia muscolare di un paziente con malattia mitocondriale non presenta tutte le fibrocellule deficitarie allo stesso modo, bensì alcune deficitarie e altre normali. Questo perché durante la divisione cellulare i mitocondri si distribuiscono nel citoplasma delle due cellule figlie a caso, e dunque non può mai essere ereditata dalle singole cellule la stessa dose di eteroplasmia », aggiunge Carelli. «Quello che manca al lavoro del gruppo di Luo è quindi anche una single-cell analysis per verificare la presenza di mosaicismo. Un'eteroplasmia sostanzialmente uniforme tende ad avvalorare lo scenario che si stia co-amplificando qualcosa che non appartiene al mitocondrio».

Resta insomma la necessità di fare ulteriori e più dettagliate analisi prima di poter affermare con certezza che il lavoro di Luo e dei suoi colleghi descrive effettivamente tre casi familiari di ereditarietà biparentale dei mitocondri. Se lo studio fosse confermato, sarebbe poi importante capire come non solo il DNA mitocondriale di origine paterna possa evitare l’eliminazionare selettiva nell'oocita, ma anche come riesca a replicarsi tanto da raggiungere le stesse proporzioni di quello di origine materna (che, ricordiamo, è presente in un numero enormemente maggiore di copie). Comprendere questi due aspetti, scrive Vissing nel suo commento, è la chiave non solo per conoscere meglio la genetica molecolare umana ma anche per riuscire, un giorno, a identificare potenziali target per il trattamento dei pazienti affetti da malattie mitocondriali.

 


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