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Nutrizione sostenibile per la salute dell’uomo e del pianeta

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Una corretta nutrizione rappresenta un fattore centrale per il benessere della società, soprattutto quella occidentale, caratterizzata da un crescente aumento dell’obesità e delle patologie degenerative correlate. Ogni volta che noi consumiamo un pasto ad alto contenuto energetico, o sbilanciato dal punto di vista nutrizionale, causiamo nel nostro organismo uno stress post prandiale, inducendo meccanismi di protezione endogena che coinvolgono il sistema immunitario. Questa condizione, se continuata nel tempo, può causare condizioni di obesità e sovrappeso associate a un aumento di diversi fattori di rischio metabolici (trigliceridi, infiammazione, insulino-resistenza, ecc.). Il consumo in eccesso di questi cibi “stressogeni” rappresenta un danno non solo per la salute dell’individuo, ma anche un costo enorme per il Pianeta, date le emissioni di gas climalteranti prodotte lungo la filiera alimentare.

La sostenibilità nutrizionale si basa su alcuni cardini quali la preservazione della biodiversità, la sicurezza alimentare, la riduzione degli sprechi, il basso impatto ecologico del cibo e la funzionalità degli alimenti, rafforzando il concetto che la salute dell’uomo non può essere svincolata dalla salute del Pianeta. La sfida dei prossimi anni per la comunità scientifica sarà concentrata sulla capacità di aumentare le conoscenze dei rapporti tra dieta, salute e ambiente. La risoluzione di questo “trilemma” passa attraverso la riduzione degli sprechi alimentari e del danno ambientale che ne deriva e nel fornire ai cittadini opzioni per un utilizzo sostenibile del cibo attraverso la definizione di stili di vita funzionali e a basso impatto ambientale.

Bisogni nutrizionali e nutrizione personalizzata

Non vi è ormai più alcun dubbio sul fatto che un’alimentazione varia ed equilibrata sia alla base di una vita in salute. Un’alimentazione scorretta, intesa soprattutto come un inadeguato consumo di alimenti e apporto di energia e nutrienti, rappresenta infatti uno dei principali fattori di rischio per l’insorgenza di numerose malattie croniche. Una corretta alimentazione passa quindi per un adeguato apporto di energia, macro e micronutrienti e altri elementi (primo fra tutti l’acqua). Con l’obiettivo di definire i fabbisogni medi per la popolazione (o, in alcuni casi, l’assunzione raccomandata o adeguata), in Italia vengono pubblicati i LARN, acronimo ora corrispondente a “Livelli di Assunzione di Riferimento di Nutrienti ed energia per la popolazione italiana”.


Tuttavia, è ormai evidente come la risposta del nostro organismo al consumo di alimenti sia suscettibile alla variabilità fra individui. Negli ultimi anni, pertanto, il mondo della ricerca scientifica si sta muovendo sempre più verso una nutrizionale più personalizzata e indirizzata ad apportare il massimo beneficio a ciascuno proprio sulla base delle caratteristiche individuali. In questo contesto, i LARN, pur sembrando nettamente in contrapposizione con il concetto di nutrizione personalizzata, essendo indirizzati a tutta la popolazione, possono in realtà costituire la base per una ricerca scientifica nel campo della nutrizione sempre più raffinata e precisa, finalizzata a massimizzare i benefici di una corretta alimentazione sia per il singolo individuo sia per la collettività.


Molte ricerche hanno osservato come la risposta del nostro corpo al consumo di alimenti vari radicalmente all’interno della popolazione1. I fattori che definiscono questa variabilità sono legati allo stile di vita, allo stato di salute e alle caratteristiche genetiche del consumatore. 


Molto recentemente, anche il cosiddetto microbiota intestinale, ossia la popolazione di microorganismi che coabita nel nostro intestino, e che rappresenta una componente cruciale nel mantenimento della nostra salute, è stato riconosciuto come fattore fondamentale nella modulazione delle risposte alla dieta. Questo, infatti, varia da individuo a individuo ed è in grado di trasformare i componenti della dieta con cui entra in contatto. A microbiota differente corrispondono prodotti differenti di tali trasformazioni dei nutrienti e non nutrienti che introduciamo con la dieta, con chiari effetti individuali sullo stato di salute2.

La nutrizione personalizzata identifica quindi un approccio dietetico che risulta cucito su misura sull’individuo e non sull’intera popolazione e che sviluppa una serie di indicazioni, raccomandazioni, prodotti e servizi specifici. L’approccio della nutrizione personalizzata potrà, in futuro, essere applicato sia alla gestione di soggetti che si trovano in una particolare condizione fisiologica, e che si trovano, per questo, in condizioni di necessità particolare (ad esempio in gravidanza o nei soggetti anziani), ma anche nello sviluppo di strategie preventive per tutta la popolazione, ma considerata per le peculiarità di ciascuno, con l’obiettivo di massimizzare i benefici associati a un’alimentazione corretta. 

Malgrado si parli di nutrizione personalizzata da diversi anni, la mole di ricerche che permettano la definizione di raccomandazioni personalizzate per la quasi totalità dei nutrienti è ancora insufficiente. Questo nuovo approccio richiede inoltre una caratterizzazione del consumatore a un livello di dettaglio mai considerato prima, creando un inevitabile aumento dell’invasività della sfera personale.

Queste ricerche hanno quindi la necessità di riesaminare popolazioni studiate in passato da grandi studi epidemiologici. Se infatti molte delle raccomandazioni su cui si basano i LARN sono centrate su indagini di popolazione, è ora necessario esaminare le caratteristiche individuali esistenti per segmentare la popolazione in diversi gruppi. Questo approccio dovrebbe essere considerato soprattutto per le coorti di soggetti per le quali esistono biobanche, ossia per le quali è stato previsto uno stoccaggio sistematico di campioni biologici ottenuti dai volontari per ricerche future. 

Allo stesso modo, risulta anche fondamentale la realizzazione di robusti studi di intervento nutrizionale in cui i volontari sono preselezionati per caratteristiche individuali nel contesto del comportamento, delle preferenze, delle barriere psicologiche e logistiche, delle caratteristiche genetiche e del microbiota intestinale. A differenza degli studi osservazioni, questi studi prevedono di sottoporre un gruppo di solito più piccolo di volontari a un intervento (come una dieta predefinita) tenendo sotto stretto controllo tutti gli altri fattori che potrebbero confondere i risultati. Un schema esemplificativo di un approccio attuale alla nutrizione personalizzata nel campo della prevenzione è quello del progetto Horizon 2020 Preventomics, rappresentato in figura 1, che utilizza strumenti innovativi (Information Communication Technology) per la profilazione dell’individuo e per la guida alle scelte alimentari.

Risulta poi fondamentale per il futuro l’integrazione di competenze e metodologie provenienti da diversi campi delle scienze biomediche e sociali, in modo da valutare in modo più ampio gli effetti dell’alimentazione sui singoli individui e al contempo adottare strategie minimamente invasive per la valutazione delle suddette caratteristiche.

Questo programma di ricerca nel settore degli alimenti e della nutrizione necessita di un consistente finanziamento, che permetta di sostenere le attività volte alla comprensione e a successivi interventi di prevenzione, con evidenti ritorni per la qualità della vita dei cittadini e per i costi di salute pubblica associati alle malattie cronico-degenerative, ora più che mai associate a scelte alimentari scorrette.

 Schema del concetto di nutrizione personalizzata per la prevenzione delle malattie: progetto EU “PREVENTOMICS" (courtesy of Eurecat. European project PREVENTOMICS - Grant Number 818318, www.preventomics.eu)

Figura 1. Schema del concetto di nutrizione personalizzata per la prevenzione delle malattie: progetto EU “PREVENTOMICS" (courtesy of Eurecat. European project PREVENTOMICS - Grant Number 818318, www.preventomics.eu)

Alimenti funzionali e salute

Negli ultimi anni numerosi studi hanno dimostrato che il regime alimentare e lo stile di vita, insieme all’ambiente, sono le cause principali della longevità. La più affascinante di queste ricerche è senz’altro quella delle blue zone, ossia aree del Pianeta nelle quali il tasso di longevità in salute è più alto rispetto alle altre zone del mondo. Sono cinque le blue zone finora individuate: la Sardegna, nelle aree storiche dell’Ogliastra e della Barbagia3, l’isola greca di Ikaria, l’isola giapponese di Okinawa, la penisola di Nicoyain Costarica e Loma Linda, in California, nella comunità cristiana degli Avventisti del settimo giorno.
Queste zone presentano caratteristiche alimentari, ambientali e culturali in comune, prima fra tutti un’alimentazione parca, frugale, semplice, genuina, povera di grassi, di zuccheri e di cibi industriali, caratterizzata da un elevato apporto di cibi di origine vegetale (frutta e frutta secca, verdura, legumi e cereali tipici della zona) che provengono dalla coltivazione della propria terra e da un moderato consumo di carne bianca o pesce (un paio di volte alla settimana), latte e formaggi per lo più caprini. Inoltre, gli anziani di queste zone sono generalmente molto attivi, con una ricca vita sociale, coltivano hobby, dedicano molto tempo alla famiglia e agli amici, impiegano parte della giornata alla meditazione, alla preghiera e alle passeggiate nella natura, dormono in media più dei loro coetanei di altre zone, vivendo la vecchiaia in modo sereno. Fra tutti i fattori coinvolti, sicuramente l’alimentazione “semi vegetariana” gioca un ruolo fondamentale nel promuovere la longevità e diminuire l’incidenza delle malattie legate all’invecchiamento.

Le diete con più alto consumo di frutta e verdura infatti producono sostanziali miglioramenti in alcuni fattori di rischio quali la pressione arteriosa, i livelli di lipidi plasmatici, la resistenza insulinica, i livelli di infiammazione, la funzione endoteliale e il controllo del peso corporeo. Tutto questo perché frutta, verdura e cereali, insieme ai legumi, oltre ad essere le principali fonti di fibre alimentari, sono ricchissimi di vitamine, minerali, fibre e composti bioattivi, noti come polifenoli, a spiccata attività antiossidante, antinfiammatoria, antiaterosclerotica, antitumorale e immunomodulatoria. Questi composti contribuiscono a potenziare le difese endogene del nostro organismo e a mantenere l’omeostasi fisiologica, con un’azione ancora più marcata, tesa a restaurare l’omeostasi nei soggetti a rischio di sviluppare una patologia (obesi e sovrappeso caratterizzati da stress ossidativo e infiammatorio) o negli individui ammalati (figura 2).

Totipotenza dei componenti bioattivi degli alimenti di origine vegetale

Figura 2. Totipotenza dei componenti bioattivi degli alimenti di origine vegetale

Il modo migliore per garantire un apporto equilibrato e ottimale di tutti questi nutrienti e composti bioattivi è quello di seguire una dieta variegata, che comprenda tutte le diverse tipologie di alimenti, seguendo possibilmente la loro stagionalità. Non esiste un unico alimento, o “super food”, che sia in grado di fornire tutti i nutrienti necessari al mantenimento di un buon stato di salute e alla prevenzione delle malattie. Non a caso, “super food” non è un termine scientifico ma coniato dal marketing, con lo scopo di promuovere ingannevolmente alimenti potentissimi, fuori dal comune, quasi miracolosi. Si richiamano a questa moda cibi poco noti, esotici, come la guava, le bacche di goji, l’avocado e le alghe. Valutare gli effetti che un certo alimento può avere sull’uomo è molto complesso: i geni, le abitudini alimentari, lo stile di vita e l’ambiente variano da persona a persona, rendendo difficile studiare l’impatto dei nutrienti sulla salute. Vi è poi da considerare che spesso le decantate proprietà nutrizionali di questi alimenti non sono supportate da appropriate ricerche scientifiche nell’uomo, e anche quando sono loro riconosciute importanti qualità nutrizionali, queste sono spesso comuni a molti altri prodotti più economici e di più semplice reperibilità.

Diverso è invece il caso degli alimenti funzionali, definiti come qualsiasi alimento, parte di alimento, bevanda o gruppi di alimenti, dotati di effetti positivi addizionali sul mantenimento della salute, dell’omeostasi fisiologica o sulla prevenzione delle malattie4. Grazie al progresso della scienza e della tecnologia alimentare infatti negli ultimi anni sono comparsi sul mercato, accanto agli alimenti tradizionali, “nuovi alimenti” in grado di apportare componenti benefici per la salute, generalmente non-nutrienti (come polifenoli, probiotici, prebiotici), che sono in grado di regolare positivamente e selettivamente una o più funzioni fisiologiche del nostro organismo.

Questi alimenti possono essere “naturalmente funzionali”, come frutta, verdura e cereali al naturale (ad es., il pomodoro per il licopene, l’olio di oliva per i tocoferoli, thè verde per le catechine, etc.) o cibi tradizionali (ad es., prodotti lattiero-caseari, prodotti da forno e pasticceria, condimenti per insalate, bevande non alcoliche) tecnologicamente modificati (yogurt probiotici, alimenti prebiotici e alimenti simbionti). Grazie alle loro proprietà, questi composti possono contribuire al benessere dell’organismo con diverse attività biologiche, quali azione antiossidante, antinfiammatoria, antipertensiva, ipocolesterolemica, antimicrobica, antivirale, e cosi via.

Tuttavia, per essere definito tale, non è sufficiente che l’alimento possieda queste componenti, ma la sua efficacia nel mantenere un buono stato di salute e nel prevenire l’insorgenza delle malattie deve essere dimostrata da rigorose ricerche scientifiche. L’approccio da utilizzare in questi studi dovrebbe essere sia di tipo osservazionale (dove i ricercatori osservano gli effetti delle differenze nelle diete delle persone senza intervenire) che interventistico (dove i ricercatori manipolano la dieta per determinare l’effetto di un alimento o nutriente). È importante che tali studi vengano svolti mediante protocolli standardizzati su determinati gruppi di persone, non solo già colpite dalla malattia, ma anche su individui sani caratterizzati da fattori di rischio al fine di stabilire l’efficacia di un determinato alimento nel ritardare o addirittura prevenire quella malattia e al tempo stesso migliorare la qualità della vita della popolazione, abbattendo i costi della spesa sanitaria pubblica per le patologie indotte da una scorretta alimentazione.

È fondamentale sottolineare che gli alimenti funzionali non sono né farmaci né integratori e che il loro consumo, anche se in grado di dare un contributo concreto alla salute, non deve prescindere da uno stile di vita sano accompagnato da attività fisica costante, tenendone presente il valore dietetico, la quantità e la frequenza di consumo, la possibile interazione con altri alimenti e farmaci, l’impatto sul metabolismo e i rischi di allergia.

Nonostante il concetto di alimenti funzionali sia stato introdotto circa 30 anni fa, permangono ancora aspetti critici, come la grande lacuna della legislazione europea, la tutela del consumatore da informazioni false o fuorvianti che possano indurlo a scelte sbagliate e la mancanza di un’informazione corretta e semplice. Innanzitutto, non è stata ancora sviluppata una specifica normativa a riguardo, che riconosca gli alimenti funzionali come categoria alimentare definitivamente a sé stante. Di conseguenza, ogniqualvolta la Commissione Europea e l’Autorità Europea per la Sicurezza Alimentare (EFSA) si trovano a dover disciplinare l’entrata in commercio di potenziali alimenti funzionali, è necessario un lungo e dispendioso lavoro di valutazione, scelta e interpretazione delle giuste linee guida da seguire e delle corrette norme da applicare.

Al tempo stesso, gli alimenti funzionali non devono incoraggiare consumi eccessivi di quel determinato cibo, non devono far nascere timori nei consumatori, devono essere facilmente comprensibili per il consumatore medio e devono evitare messaggi che attribuiscano proprietà curative o terapeutiche all’alimento. Questo ultimo aspetto è particolarmente importante, visto che i maggiori acquirenti di alimenti funzionali sono individui affetti da malattie molto comuni, come diabete, malattie cardiovascolari e obesità, che vedono questi cibi come una alternativa pratica, più naturale e meno dannosa, in termini di effetti collaterali, rispetto ai farmaci. Inoltre, c’è una generale carenza di informazione; basti pensare che la maggior parte dei consumatori non sa nemmeno definire il termine “alimento funzionale” e spesso confonde erroneamente gli alimenti funzionali con gli integratori, i nutraceutici o addirittura i prodotti erboristici.

La scarsa conoscenza del concetto di alimento funzionale determina l’aumento dello scetticismo riguardo gli effetti benefici attribuiti ai cibi funzionali e ciò può costituire un ostacolo allo sviluppo del mercato di tali prodotti. Inoltre, considerando che la principale fonte di informazione riguardo gli alimenti funzionali è la pubblicità, è inevitabile che la scelta dei consumatori sia influenzata più dal marketing che dalla consapevolezza del beneficio reale di questi alimenti.

Per risolvere questi problemi, istituzioni, esperti del settore, scuola e ricerca dovrebbero essere maggiormente coinvolti e responsabilizzati nella diffusione di materiale informativo riguardante l’alimentazione funzionale, in modo da tutelare il consumatore, permettendogli di effettuare scelte alimentari consapevoli. Dovrebbe inoltre cambiare la strategia di comunicazione dei produttori, che anziché essere incentrata sulla descrizione degli ingredienti funzionali specifici (la maggior parte dei quali è nota solo a persone che hanno una preparazione scientifica), dovrebbe chiarire gli effetti benefici derivanti dall’assunzione di tali ingredienti. Dovrebbe essere anche incoraggiato lo sviluppo di una specifica normativa europea per regolamentare il mercato di questi alimenti. Infine, servirebbero maggiori finanziamenti alla ricerca in ambito nutrizionale, per sviluppare soprattutto robusti studi di intervento nell’uomo, tanto utili quanto laboriosi e costosi.

Nutrizione ecosostenibile

Da sempre siamo consapevoli che la nostra salute è fortemente condizionata dalle scelte alimentari che facciamo, allo stesso modo la produzione di alimenti che decidiamo di consumare condiziona a sua volta la qualità dell’ambiente che ci circonda5. Secondo stime delle Nazioni Unite che prevedono una popolazione mondiale di 9 miliardi nel 2050, la produzione alimentare dovrà essere quasi raddoppiata per sostenere l’aumento dei consumi alimentari che passeranno da un consumo calorico mondiale di 2,772 Kcal/giorno a persona (18 trilioni Kcal totali) del 2006 a circa 3,070 Kcal/giorno a persona (28 trilioni Kcal; 3,500 Kcal/giorno a persona nei Paesi industrializzati).

L’aumento di ricchezza nei Paesi industrializzati ha portato a una maggior richiesta di carne, prodotti lattiero-caseari e uova. La crescita della domanda globale di proteine animali sta mettendo in difficoltà le risorse già limitate del nostro Pianeta, come gli oceani, il suolo agricolo e l’acqua potabile. Circa il 75% della superficie agricola e l’80% dell’acqua disponibile sulla Terra viene annualmente sfruttata per produrre capi avicoli, bovini, ovini e prodotti d’acquacoltura, che rappresentano circa il 50% della produzione mondiale di pesce.
Si stima che a livello mondiale, entro il 2050, il quantitativo di prodotti animali richiesto toccherà i 465 milioni di tonnellate, comportando inevitabilmente una maggior emissione di gas serra, tra i responsabili dei cambiamenti climatici, la deforestazione provocata dal pascolo intensivo e un generale degrado ambientale, conseguenza diretta dello smaltimento del letame e di altre sostanze inquinanti. I gas a effetto serra derivanti dalla produzione di bestiame, incluso il trasporto e l’alimentazione, rappresentano il 18% delle emissioni globali prodotte dall’uomo. Il metano, che viene prodotto dalle fermentazioni enteriche degli animali, corrisponde al 35-40% delle emissioni.

La presa di coscienza da parte dell’uomo di aspetti legati alla salute e all’ambiente ha risvegliato un nuovo interesse verso le diete “sostenibili” che, preservando la salute dell’uomo, non danneggiano l’ecosistema. La FAO definisce le diete sostenibili come:

Diete a basso impatto ambientale che contribuiscono alla sicurezza alimentare e nutrizionale nonché a una vita sana per le generazioni presenti e future. Le diete sostenibili concorrono alla protezione e al rispetto della biodiversità e degli ecosistemi, sono accettabili culturalmente, economicamente eque e accessibili, adeguate, sicure e sane sotto il profilo nutrizionale e, contemporaneamente, ottimizzano le risorse naturali e umane

Per illustrare l’impatto ambientale degli alimenti che consumiamo, il Barilla Center for Food and Nutrition ha sviluppato la “piramide ecologica”, dove viene calcolato il costo ambientale dei vari alimenti, valutato utilizzando l’impronta di carbonio, l’impronta idrica e l’impronta ecologica6. Relativamente al ciclo vitale di un alimento, l’impronta di carbonio calcola l’impatto espresso in termini di emissioni di biossido di carbonio equivalente (kg CO2eq), l’impronta idrica misura il consumo di acqua impiegata e l’impronta ecologica permette di misurare la superficie terrestre o marina (biologicamente produttiva) utilizzata per la produzione dell’alimento.

Analizzando la piramide ambientale, si nota così che gli alimenti di origine vegetale, che si posizionano sulla punta della piramide, sono quelli a minor impatto ambientale e che conferiscono maggiore protezione per la salute dell’individuo (vedi piramide mediterranea). Gli alimenti di origine animale, come carne e derivati, hanno un impatto ambientale più elevato per il fatto che le risorse utilizzate - come acqua, e metri quadrati di terreno occupati dagli allevamenti - sono notevoli, in associazione con un’enorme produzione di CO2, e si posizionano alla base della piramide. A parità di calorie consumate, la produzione di carne bovina ha un costo ambientale enormemente superiore a quello degli altri tipi di carne (pollame e maiale), delle uova e dei prodotti lattiero caseari. Basti pensare che per produrre 225 g di patate, pomodori, pollo e bovini si producono emissioni di CO2 equivalenti a quelle prodotte guidando un’auto per 300 m, 320 m, 1,7 Km e 15,8 Km.

È quindi evidente che, sulla base dei dati della piramide ecologica, la scelta alimentare basata su un consumo quotidiano di alimenti di origine animale è dannosa per l’ambiente. Va però osservato che questi si riferiscono a un confronto a parità di peso: infatti l’utilizzo di risorse per produrre un kg di carne sarà più elevato di quello necessario a produrre un kg di frutta o ortaggi. Diventa quindi fondamentale valutare l’impatto ambientale degli alimenti in funzione dei consumi della popolazione e di regimi alimentari ottimali, come la dieta mediterranea, per poter calcolare il vero impatto ambientale di una dieta.

Esiste poi un altro aspetto cruciale del trilemma “cibo, pianeta e ambiente”: il rapporto tra l’impatto ambientale, il valore nutrizionale e funzionale del cibo e i consumi raccomandati. Un esempio a tale proposito ci viene dalla dieta mediterranea, ormai universalmente riconosciuta come modello di dieta salutare in grado di soddisfare i bisogni nutrizionali e conferire protezione nei confronti dell’insorgenza delle patologie da eccesso di cibo. In questa dieta, così come nei modelli alimentari di popolazioni longeve come le blue zone della Sardegna o di Okinawa, è previsto un consumo moderato di alimenti di origine animale associato però a un alto consumo di alimenti di origine vegetale. In linea con tale modello, le raccomandazioni nutrizionali che suggeriscono di mangiare circa cinque porzioni al giorno di frutta e verdura, dato l’elevato contenuto di sostanze ad alto valore nutrizionale (vitamine, sali minerali ecc.) e funzionale (antiossidanti, sostanze anti-infammatorie, basso indice glicemico, etc.), hanno un loro costo ambientale se valutate nella prospettiva del consumo giornaliero, ma sicuramente tale costo è bilanciato dalla valenza salutistica di questi alimenti.

Il problema posto dagli alimenti di origine animale, sotto il profilo ambientale e di salute, si basa sull’aumento esponenziale dei consumi negli ultimi settant’anni, associato all’epidemia obesigena e delle connesse malattie degenerative. La domanda che si pone spontanea è: quale sarebbe il costo ambientale degli alimenti di origine animale se tornassimo a un consumo moderato, saltuario, in linea con i regimi alimentari salutistici?

L’impatto ambientale degli alimenti cambia significativamente rispetto ai dati della “piramide ecologica”, se valutato sulla base dei consumi raccomandati, come evidenziato dalla “clessidra ambientale” ottenuta moltiplicando l’impatto ambientale degli alimenti per le quantità settimanali suggerite dalle linee guida nazionali italiane per una dieta sana ed equilibrata. Dall’analisi dei dati si vede come l’impatto di 14 porzioni settimanali di carne, uova, pesce, legumi e salumi sia di 5,9 kg CO2eq e quello di 24 porzioni settimanali di latte, yogurt e formaggi (5,6 kg CO2eq) sia comparabile a quello di 35 porzioni settimanali di frutta e ortaggi (5,6 kg CO2eq) e a 51 porzioni settimanali di pane, pasta riso, biscotti e patate (4,2 kg CO2eq). Conferma a tale evidenza viene anche dal lavoro svolto dall’Università di Parma, dove si dimostra come una dieta vegana e latto-ovo-vegetariana abbiano un impatto totale significativamente più basso rispetto a una dieta onnivora7.

Quando però andiamo a valutare l’impatto ambientale dei singoli gruppi di alimenti, la produzione di CO2 dovuta al consumo di carne e pesce degli onnivori (1,44 kg CO2eq/giorno) è comparabile all’impatto degli alimenti di origine vegetale nei vegani (1,42 kg CO2eq/giorno) e superiore a quello del latto-ovo-vegetariani (1,0 kg CO2eq/giorno). È altresì vero che se aggiungiamo il contributo degli alimenti di origine animale (latte, uova ecc.) pari a 0,9 kg CO2eq/giorno negli onnivori, 0,63 kg CO2eq/giorno per i latto-ovo-vegetariani rispetto allo zero dei vegani spieghiamo il maggior impatto ambientale della dieta onnivora.

L’analisi di questi dati suggerisce come sia fondamentale valutare l’impatto ambientale del cibo in associazione con il valore nutrizionale e funzionale, valutando per ogni situazione costi e benefici del rapporto impatto ambientale/valore salutistico al fine di suggerire regimi alimentari (apporti raccomandati e frequenza) in grado di tutelare la salute dell’uomo e quella del pianeta.

È necessario sviluppare un approccio complessivo che permetta di valutare al meglio parametri metabolici, nutrizionali e ambientali in grado di fornire informazioni dell’impatto della dieta a vari livelli. Considerare questi elementi insieme fornirebbe un quadro più completo e innovativo, in quanto lo stato di salute è correlato a un corretto stile di vita e questo non solo aiuta a prevenire l’instaurarsi di patologie degenerative ma anche a limitare i costi ambientali delle risorse. Questa nuova visione potrebbe permettere di sviluppare studi ad hoc, per esempio stratificando i soggetti sulla base del loro impatto ambientale per capire quali siano i gruppi alimentari che impattano di più l’ambiente e come questo impatto sia correlato a marcatori nutrizionali o metabolici, aumentando la comprensione dei rapporti tra il costo ambientale e lo stato di salute in base al tipo di scelte alimentari.

Insetti edibili

Il termine scientifico per il consumo di insetti è “entomofagia”, dal greco éntomos (insetto) e phăgein (mangiare). L’entomofagia rappresenta una delle prime forme di alimentazione nell’uomo: pitture rupestri di Altamira, nel nord della Spagna, datate da 30.000 a 9.000 anni a.C., raffigurano collezioni di insetti commestibili. Testimonianze scritte risalenti al 2000 a.C. narrano quanto assiri e siriani fossero ghiotti nel consumare cavallette. A conferma di ciò, sulle pareti del maestoso palazzo assiro di Ninive, è possibile scorgere un bassorilievo raffigurante scene di un banchetto inaugurale, in cui i servitori trasportano piatti contenenti spiedini di cavallette. Aristotele stesso, nella sua "Historia Animalium", elogia il piacere sensoriale che si prova mangiando la cicala madre. Plinio il Vecchio in "Naturalis Historia" racconta la modalità di preparazione e degustazione di una larva, probabilmente la Lucanuscervus o Prionuscorioranus.

Stando alle stime della FAO, esistono oltre 1.900 specie di insetti commestibili consumati a tutti i vari stadi di crescita (uova, larve, crisalidi e adulti). Gli insetti più comunemente utilizzati appartengono all’ordine dei Coleotteri (31%), principalmente scarafaggi, seguono i Lepidotteri (18%), cioè i bruchi, mangiati principalmente dalle popolazioni dell’Africa sub-sahariana, al terzo posto, gli Imenotteri (14%), rappresentati da vespe, api e formiche, consumati prevalentemente nell’America Latina e gli Ortotteri (13%), con cavallette, locuste e grilli, seguiti da cicale, cocciniglie e cimici, appartenenti all’ordine degli Emitteri (10%)8.

Come visto nel paragrafo precedente, la carne e i prodotti di origine animale, rappresentano i gruppi di alimenti che impattano maggiormente dal punto di vista ambientale, la riduzione del consumo di proteine animali è ormai diventata una priorità globale per ridurre lo sfruttamento del terreno e le emissioni di gas serra. A prescindere da soluzioni avveniristiche ed estremamente costose come lo sviluppo di carne da colture cellulari, una delle strategie che sta assumendo una rilevanza sempre maggiore, in linea con la tradizione storica dell’essere umano in moltissime regioni del mondo, risiede nell’utilizzo degli insetti, fonte proteica e non solo, a basso impatto ambientale.

Sebbene i valori nutrizionali degli insetti commestibili siano altamente variabili, sia per l’elevata varietà di specie sia per lo stato metamorfico dell’insetto, il tipo di dieta, l’habitat e le stagioni, si può affermare con certezza che gli insetti forniscono quantità soddisfacenti di energia e proteine, sono ricchi di acidi grassi monoinsaturi e polinsaturi, di micronutrienti, come rame, magnesio, ferro, fosforo, zinco, selenio e manganese, nonché acido pantotenico, riboflavina e biotina con un contenuto calorico che oscilla tra le 293 e le 762 kilocalorie per 100 g di sostanza secca. Dal punto di vista proteico risultano possedere proteine di buona qualità e alta digeribilità, il contenuto di aminoacidi essenziali è pari al 10-30% di tutti gli aminoacidi. Inoltre studi molto recenti suggeriscono come grilli, cavallette e bruchi d’africa esibiscono valori di capacità antiossidante non enzimatica in vitro (FRAP), superiori al succo d’arancia, in generale anche altre specie d’insetti come bachi da seta, formiche nere e larve della farina hanno valori comparabili al succo d’arancia (figura 3). Sebbene questi dati necessitino di una conferma in vivo nell’uomo, suggeriscono per gli insetti anche potenzialità funzionali oltre il loro contenuto proteico9.

Potenziale riducente totale (FRAP) di estratti idrosolubili d’insetti edibili e succo d’arancia

Figura 3. Potenziale riducente totale (FRAP) di estratti idrosolubili d’insetti edibili e succo d’arancia10

Altro vantaggio innegabile a favore dell’utilizzo di insetti risiede nell’elevata efficienza di conversione del mangime in massa corporea: la produzione di 1 kg di grilli richiede appena 1,7 kg di mangime rispetto ai 2,5 kg per i prodotti avicoli, 5 kg per il maiale e 10 kg per la carne bovina. Si è inoltre stimato che fino all’80% di un grillo è commestibile e digeribile rispetto al 55% per pollo e suino e al 40% del bestiame. Ciò significa che i grilli sono due volte più efficaci nella conversione di alimenti di derivazione mammifera; almeno 4 volte più efficienti dei suini e 12 volte più dei bovini.

Relativamente all’impatto ambientale, vermi della farina, locuste e grilli producono basse emissioni di CO2, basti pensare che per avere un aumento di un kg di peso si producono meno di 100 gas serra equivalenti per vermi della farina, grilli e locuste, rispetto ai 2.800 gas serra equivalenti di un bovino11, e che per ogni ettaro di terreno necessario per produrre 1 kg di proteine dal verme della farina sono necessari 2,5 ettari, rispetto ai 10 ettari per produrre un kg di proteine da bovino.


Sebbene siano ancora molte le perplessità, da parte sia degli addetti ai lavori sia della gente comune, sull’utilizzo degli insetti come alimento abituale della nostra dieta, essi rappresentano una fonte proteica a basso impatto ambientale e a costi ridotti. Dovrà ora essere compito della comunità scientifica chiarire se esistono i presupposti dal punto di vista nutrizionale, funzionale, organolettico, immunologico e microbiologico, per considerare l’entomofagia come un’ulteriore opzione nell’ambito delle strategie di riduzione dell’impatto ambientale alimentare o una mera trovata mediatica.

Gli sprechi alimentari

Uno degli aspetti rilevanti e potenzialmente più preoccupanti per la salute ambientale è rappresentato dal danno causato dalla quantità di cibo prodotto e che non raggiunge la tavola del consumatore, cioè lo spreco alimentare (food waste), oppure dal cibo che si perde durante la coltivazione agricola, il raccolto e le trasformazioni industriali (food loss). La FAO ha stimato come il volume globale di cibo sprecato sia di circa 1,3 Gtonnellate, un numero impressionante soprattutto se confrontato con la produzione agricola totale, che è di circa 6 Gtonnellate12. Per produrre tale cibo sono utilizzate risorse economiche ma soprattutto ambientali (acqua, terra, ecc.) che hanno un costo e che si traducono in un danno ambientale di proporzioni elevatissime anche e soprattutto per le alte emissioni di anidride carbonica.

In Italia i dati raccolti da Last Minute Market e dall’Università di Bologna indicano che circa 1,5 milioni di tonnellate di prodotti agricoli vengono lasciate nei campi ogni anno, pari al 2,73% della produzione agricola totale. Mentre nel settore della distribuzione ogni anno vengono buttate via circa 270.000 tonnellate di cibo ancora consumabili. Il sondaggio condotto su 3.500 nuclei familiari ha messo in evidenza che circa un terzo degli intervistati è consapevole di buttare via gran parte del cibo acquistato, a fronte di un altro terzo che invece spreca pochissimo. Recentemente, il Progetto “Reduce” condotto dall’Università di Bologna e finanziato dal Ministero delle Politiche Agricole su un campione di 430 famiglie italiane ha messo in luce come siano stati fatti significativi passi in avanti per la riduzione dello spreco domestico: lo studio ha quantificato uno spreco per famiglia pari a circa 84 kg, 36 a persona, rispetto ai dati del 2016 dove lo spreco era di 145 kg a famiglia e 63 kg a persona. Un ottimo risultato frutto delle campagne d’informazione messe a punto da associazioni e dal governo, inclusa la Legge Gadda che prevede sgravi fiscali a favore di chi dona cibo per solidarietà.

Sebbene la consapevolezza degli italiani dello spreco alimentare sia aumentata in questi anni, le statistiche indicano ancora uno spreco pari a 2,2 milioni di tonnellate di cibo l’anno, pari allo 0,6% del PIL. 
Recentemente è stato sviluppato dall’Università di Teramo un nuovo indice, lo Spreco Alimentare Metabolico, che per la prima volta quantifica l’insostenibilità nutrizionale dell’obesità, sia in termini di impatto economico sul Sistema sanitario nazionale, sia di spreco di risorse naturali ed emissioni climalteranti, dando un’idea di quale sia l’impatto dell’eccesso di peso sulla salute del pianeta13. Il razionale di questo indice si basa sul concetto che, se si è in una condizione di sovrappeso o obesità, nella maggior parte dei casi si è adottato un regime alimentare ricco di cibi “stressogeni” ad alto contenuto energetico, con un carico calorico e nutrizionale enormemente più elevato rispetto a quello raccomandato. Tale eccesso di calorie rappresenta un danno non solo per la salute dell’individuo, ma anche un considerevole costo ambientale.

Lo Spreco Alimentare Metabolico valuta i chili di cibo associati al grasso in eccesso, calcolato sulla base dell’Indice di Massa Corporea, e il suo impatto ambientale in termini di emissioni di anidride carbonica, consumo di acqua e di terreno. I dati pubblicati finora, valutando il consumo di cibi “obesigeni” (zuccheri, grassi di origine animale, alcolici, ecc.) in sessanta soggetti sani sovrappeso o obesi, hanno mostrato come lo spreco alimentare metabolico fosse pari a 5.710 chili di peso per l’intero campione (63,1 kg/procapite e 127,2 kg/procapite rispettivamente per i soggetti sovrappeso e i soggetti obesi). Utilizzando i dati dei Food Balance Sheets della FAO, lo spreco alimentare metabolico per la popolazione italiana in sovrappeso e obesa è risultato essere di oltre 2 miliardi di chili di cibo, un consumo di acqua pari al 13% del volume del Lago di Garda, una quantità di emissioni di CO2 pari all’11,8% delle emissioni prodotte dalla produzione agricola in Italia e un consumo di terreno pari al 73% della superficie di Asia e Africa (tabella 1).

MFW OW OB
Cibo (milioni kg) 1.322 790
Acqua (milioni m3) 4.098 2.233
CO2eq (milioni kg) 2.370 1.445
Terra (milioni m2) 34.589 19.329

Tabella 1. Spreco Alimentare Metabolico (MFW) stimato nella popolazione italiana in sovrappeso (OW) e obesa (OB)14

Lo spreco alimentare metabolico associato all’obesità a livello mondiale è risultato essere di circa 141 miliardi di tonnellate di cibo sprecato. Tra le sette regioni FAO considerate, l’Europa e il Nord America/Oceania si caratterizzano per il maggiore spreco metabolico con 39 e 32 miliardi di tonnellate di cibo sprecate. Seguono America Latina, Asia industrializzata, Nord Africa e Asia centrale e occidentale, Asia meridionale e sudorientale e Africa sub sahariana (5 miliardi).

Sebbene i dati sullo spreco alimentare e su quello metabolico siano stati ottenuti con due metodologie diverse e si riferiscano a due valutazioni molto diverse tra loro, ci forniscono un’idea dell’enorme quantità di cibo che viene sprecata o consumata in eccesso nel nostro Paese, con ingenti danni ambientali ed economici. Gli sforzi futuri dovrebbero essere incentrati su una comunicazione ad ampio respiro, basata su solide prove sperimentali derivanti da studi sull’uomo, che si prefigga l’obiettivo di educare la popolazione a un consumo alimentare funzionale, salutare e a basso impatto ambientale.

 

Note
1. Betts JA, Gonzalez JT, Personalised nutrition: What makes you so special?, Nutrition Bulletin, December 2016; Volume 41, Issue 4, 1: 353-359
2.  Ordovas JM et al, Personalised nutrition and health, BMJ (Online), 2018; Volume 361. Article number k2173
3.  Pes GM et al, Male longevity in Sardinia, a review of historical sources supporting a causal link with dietary factors, Eur J Clin Nutr, 2014: 1-8
4.  Gul K et al, Nutraceuticals and Functional Foods: The Foods for the Future World, Crit Rev Food Sci Nutr, 2016; 56(16): 2617-27
5. Tilman D, Clark M, Global diets link environmental sustainability and human health, Nature, 2014; 515: 518–522
6. Barilla Center for Food and Nutrition (BCFN), Doppia piramide 2015. Le raccomandazioni per un’alimentazione sostenibile, 2015 (www.barillacfn.com)
7. Scazzina F et al, Environmental impact of omnivorous, ovo-lacto-vegetarian, and vegan diet, Scientific Report, 2017; 7:6105
8. Van Huis  et al, Edible insects: future prospects for food and feed security” FAO Forestry Paper, 2017; 171
9. Di Mattia C, Battista N, Serafini M, Antioxidant activities in vitro of water and liposoluble extracts obtained by different species of edible insects. Submitted to Frontiers Immunology
10. Ibidem
11. Vedi nota 8
12. FAO, “Food Wastage Footprints, Impact on Natural Resources”, Summary Report, 2013 (FAO, “Food Wastage Footprints, Impact on Natural Resources”, Summary Report, 2013 (www.fao.org)
13. Serafini M, Toti E, Unsustainability of Obesity: Metabolic Food Waste, Front Nutr, 2016, 3: 40
14. Vedi nota 13

 


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