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Elogio dell'imperfezione

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Crediti: aitoff/Pixabay. Licenza: Pixabay License

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Cosa spinge Isaac Newton a immaginare un universo stabile, eternamente uguale a sé stesso nello spazio e nel tempo assoluti? Non c’è dubbio: l’idea della perfezione cosmica. Un’idea che non sta in piedi. Newton immagina che ogni punto dell’universo sia sottoposto a una medesima forza gravitazionale proveniente da ogni direzione. È questa assoluta simmetria che rende l’universo immutabile. Ma l’universo perfetto di Newton è stabile come una matita sulla punta. Basta una minuscola imperfezione e la simmetria gravitazionale implode, creando qui ammassi di materia e lì vuoti assoluti. Qualcuno glielo fa rilevare. E allora lui ammette che nulla, nell’universo, è più instabile della perfezione. Ma lui, Newton, alla perfezione cosmica non sa (non vuole) rinunciare. Ecco allora che il grande fisico inglese invoca Dio – il Dio dei gaps – per annullare ogni più piccola fluttuazione e ricostituire in ogni istante la perfezione assoluta. Qualcuno gli fa notare che il suo dio è più maldestro del più modesto orologiaio svizzero, che non ha bisogno di intervenire ogni momento per far funzionare il suo meccanismo.

Albert Einstein è considerato (a ragione) il padre della relatività. E, anche, uno dei tre padri fondatori della meccanica quantistica, insieme a Max Planck e a Niels Bohr. Ma sono molti a sostenere che se anche non avesse fatto nulla in questi due campi fondamentali, sarebbe comunque entrato in ogni manuale di storia della fisica perché padrone assoluto della fisica statistica e attento al ruolo che hanno le fluttuazioni stocastiche nel mondo naturale. Eppure neppure lui, Albert Einstein, ha saputo rinunciare all’idea – Gerald Holton direbbe al themata, al grande pregiudizio metafisico – della perfezione. E così anche lui ha cercato di mantenere in piedi la matita sulla punta introducendo una costante nelle sue equazioni cosmologiche che rappresentasse una forza repulsiva uguale e contraria alla forza gravitazionale che dovrebbe far collassare l’universo su sé stesso a causa delle piccole o grandi fluttuazioni che inevitabilmente rompono la simmetria gravitazionale. Quando poi ha dovuto constatare che il nostro universo non è affatto perfetto e statico, ma imperfetto, dinamico e in continua evoluzione, ha definito l’introduzione di quella costante “il più grande errore della mia vita”.

Potremmo risalire molto indietro nel tempo, alla ricerca della perfezione come cifra dell’universo naturale. Ad Aristotele, per esempio, e al suo allievo ideale, Tolomeo, che dividevano l’universo in due: il regno della perfezione nel cielo dalla Luna in su, e quello della corruzione qui sulla Terra. E, ancora, l’idea della perfezione ha contaminato anche il pensiero di Copernico e Galileo, che immaginavano le orbite planetaria come circonferenze perfette (considerando, ovviamente, come perfezione assoluta l’orbita circolare).

Homo sapiens, a casa nell'universo o turisti fai da te?

Anche in ambito biologico l’idea di perfezione e di deterministica inevitabilità ha alimentato il pensiero di molti uomini di scienza. Tanto da indurre, una ventina di anni fa, un ottimo ricercatore, Stuart Kauffman, medico e biologo in forze al Santa Fé Institute sui sistemi complessi, a scrivere un libro dal titolo che più significativo non poteva essere: “At home in the universe”. Noi uomini siamo di casa nell’universo. L’evoluzione biologica segue leggi perfette e necessarie e, dunque, noi sapiens siamo qui e non potevamo non esserci. Sì, davvero, per dirla con Voltaire, nel corso della storia culturale umana molti hanno ceduto all’idea (al pregiudizio metafisico) della perfezione della natura. Solo di recente abbiamo compreso che le fluttuazioni o, se volete, le imperfezioni hanno un ruolo decisivo nell’evoluzione a ogni scala. Se potessimo riavvolgere il film dell’evoluzione biologica e riproiettarlo, difficilmente alla fine della proiezione riapparirebbe Homo sapiens, diceva (saggiamente) Stephen Jay Gould. Diciamo saggiamente perché in questi ultimi decenni tutti i dati empirici ci dicono che l’evoluzione della materia, a ogni livello, ha un grande sovrano, l’imperfezione. Non che le leggi necessarie non esistono. Ma le fluttuazioni, a ogni scala appunto, sono inevitabili nella dinamica cosmica e sono loro che rendono unica e irripetibile l’evoluzione, a ogni scala appunto, dell’universo.

Dall’elogio della perfezione, dunque, siamo passati all’elogio dell’imperfezione. Ed è questa la cifra del nuovo libro che Telmo Pievani, filosofo della biologia, ha appena pubblicato con l’editore Raffaello Cortina (pagg. 198, euro 14,00). Nel primo capitolo Pievani si sofferma sui vari bivi che l’evoluzione cosmica, un istante dopo il Big Bang, ha attraversato. Ogni volta poteva scegliere una strada, invece che un’altra. E così la storia dell’universo si è dipanata lungo un percorso impossibile da prevedere. Se, seguendo Gould, provassimo a riavvolgere il film e poi a riproiettarlo difficilmente l’universo di apparirebbe così come lo osserviamo. A proposito di osservazione: il fisico Victor Weisskopf amava dire che Homo sapiens è l’occhio con cui l’universo ha imparato a osservare sé stesso. Ebbene non è affatto detto che quest’occhio dovesse apparire “necessariamente”. Non siamo a casa nel cosmo. Siamo come turisti “fai da te” capitati nella hall del “Grand Hotel Universo”. Non siamo alieni. Ma neppure eravamo attesi. Siamo il frutto di una serie fortunata quanto irripetibile di eventi.

Supponiamo che, 65 milioni di anni fa, quel grosso asteroide avesse solo sfiorato e non colpito la Terra. Una fluttuazione minima di percorso per quel corpo celeste. Una storia affatto diversa della vita sulla Terra. Senza quel formidabile pugno nell’occhio, l’evoluzione dei dinosauri si sarebbe srotolata in maniera affatto diversa. E forse i mammiferi non sarebbero saliti sul trono dei dominatori della Terra. Di conseguenza non sarebbe apparsa una specie così piena di sé da definirsi sapiens. Potremmo continuare con i se. Ma, come dice un vecchio e tutto sommato saggio adagio, con i se non si fa la storia. Dunque noi siamo qui, vegeti e parlanti, grazie a una serie praticamente infinita di fluttuazioni statistiche a ogni livello, di errori, di imperfezioni. Telmo Pievani ricostruisce per larghi tratti questa “evoluzione imperfetta” che ci ha fatto nascere. Di più. Dimostra, con esemplare chiarezza, come sia l’imperfezione e non la perfezione il motore dell’evoluzione.

L'imperfezione del DNA

Per comprenderlo diamo uno sguardo ravvicinato al DNA umano, un ventennio dopo l’acquisizione della capacità di sequenziarlo per intero e di conoscerlo base per base. Ebbene, oggi sappiamo che esso contiene all’incirca 20.000 geni codificanti: non più dell’1,5% delle sequenze nucleotidiche che lo compongono. Ne discende che il 98,5% del nostro DNA è costituito da sequenze non codificano per proteine. Ebbene ancora venti anni fa, nel 1998 per la precisione, un grande biologo che di geni se ne intendeva, il premio Nobel per la medicina Sydney Brenner, definiva junk DNA (DNA spazzatura), questa massa debordante del nostro genoma che non sembrava avere alcuna funzione. Il ricercatore sudafricano non era il solo a pensarla così. La gran parte dei suoi colleghi biologi non solo riteneva che quella predominante parte non codificante fosse essenzialmente una grossa imperfezione, ma anche che la sua ingombrante presenza non avesse senso. Il DNA che avrebbe dovuto essere il regno della perfezione e dunque dell’efficienza assolute nei territori dell’evoluzione biologica, appariva invece il regno dell’inutilità.

Lo scorso 5 aprile Sydney Brenner è morto, all’età di 92 anni. Ha dunque fatto in tempo a capire quanto errata fosse la definizione di quella massa imperfetta di DNA. E ha avuto modo di prendere atto delle risposte alla domanda: perché tanta ridondante imperfezione nel DNA (umano e non)? Telmo Pievani ricostruisce la catena di risposte che sono state date a questa domanda negli ultimi anni. Una parte di quello che Brenner ha ribattezzato junk DNA non è affatto spazzatura, ma assolve a ruoli diversi della codifica per proteine nella vita di una cellula. Ha, per esempio, funzioni regolatrici (per inciso, Brenner è stato un grande studioso della regolazione del DNA). Il modo con cui il DNA spazzatura esplica queste funzioni è per certi versi inatteso: attraverso un movimento (almeno in apparenza) caotico nello spazio tridimensionale creato dal groviglio in 3D in cui il DNA si raggomitola nel nucleo cellulare. Si tratta di un movimento incessante, non privo di imperfezioni, che portano sequenze che sarebbero lontane se stendessimo per intero la lunga catena del DNA ad avvicinarsi (e poi a riallontanarsi). Dunque non è la successione lineare, perfettamente determinata, a governare l’attività del DNA, ma il gomitolo confuso e cangiante – una vera e propria giungla (la metafora non è casuale) – in cui si avviluppa.

Riassumendo: una parte del junk DNA contribuisce ad attivare o a silenziare le sequenze codificanti, insomma in qualche modo a dirigere l’attività dei geni. Non male, per della spazzatura. Ma, ci ricorda ancora Pievani, una parte del junk DNA è poi costituita anche da “geni atavici”, che una volta, nel corso della lunga storia biologica, avevano una funzione codificante e che ora sono inattivi. Non servono più. Geni spazzatura, appunto. Il DNA umano contiene almeno 2.000 “geni atavici”. Alcuni sono in una sorta di silenzio tombale: è il caso dei geni in testa alla catena per la produzione interna di vitamina C o anche dei geni olfattivi. Questi geni sono stati disattivati, perché non ne abbiamo più bisogno: infatti, assumiamo facilmente dalla dieta la vitamina C e, a differenza degli amici cani, non abbiamo più tanto bisogno dell’olfatto per orientarci nel mondo inseguendo gli odori. Non tutti i geni atavici sono sempre disattivati. Talvolta vengono risvegliati temporaneamente. Per sbaglio, per un’imperfezione. Qualche volta, per esempio, un bambino nasce con un coccige piuttosto allungato: si tratta, in qualche modo di una coda ancestrale. È il frutto di un gene atavico riattivato e subito dopo silenziato. Lo sviluppo del coccige si ferma subito e la protuberanza può essere eliminata senza danno con un semplice intervento.

Talvolta geni atavici si riattivano anche se la loro funzione non è più utile. Uno di queste sequenze codificanti ancestrali si riattiva, per esempio, in ogni feto umano verso il sesto mese, facendo apparire una lanugine diffusa che ricorda i peli dei primati nostri avi. Ma questo pelo ormai per noi è inutile. Così, un mese prima della nascita, la lanugine scompare. Perché? Ma è chiaro, perché il gene responsabile viene silenziato.

Tutto questo ci dice quanta imperfezione ci sia nel nostro DNA. Ma non siamo ancora al punto: perché il nostro genoma si trascina dietro questa enorme palla al piede del junk DNA? La risposta non è solo quella che questo DNA non è sempre così junk e, nella sua imperfezione, assolve a funzioni che possono tornare ancora utili. Ma resta il problema: perché una parte rilevante del DNA, nonostante i nostri studi, sembra ancora inutile? Perché questo enorme spreco? Perché le imperfezioni non sono state semplicemente tagliate e gettate via dalla sapiente selezione naturale?

Da junk DNA a jungle DNA

Le risposte a queste domande sono molteplici, soprattutto se si assume l’ottica prediletta da Telmo Pievani: quella evoluzionista. La prima è che la selezione naturale non butta quasi mai nulla. Costruisce sulle mura esistenti, piuttosto che abbattendo il palazzo precedente e ricostruendo daccapo. Non torna mai indietro. Non cancella quasi mai i suoi errori, le sue imperfezioni. Il quasi sta a indicare che, in genere, prevale il bilancio costi/benefici. Se tagliare via una parte del DNA che non serve più a nulla è più costoso che conservarla in garage, la selezione naturale quella parte la conserva. Giusta prudenza, quella della selezione naturale. Perché – ecco la seconda risposta – può succedere che un gene silenziato usato nel passato profondo per alcuni scopi possa ritornare in auge per altri scopi.

Telmo Pievani cita, a esempio, il gene, comune a topi e uomini, che codifica per l’osteocrina ed è indispensabile per lo sviluppo delle ossa e dei muscoli. Ebbene, questa sequenza genica è presente anche nella neocorteccia degli umani ma non nel cervello dei topi. Si attiva in coltura nelle cellule dei tessuti muscolari sia di topi che degli uomini; ma si attiva solo nelle cellule cerebrali umane e non in quelle dei topi. La domanda, allora, è: perché un gene “nato” molto tempo fa per far funzionare il sistema osseo e muscolare di vari mammiferi si ripresenta in un luogo in cui non dovrebbe stare, il cervello degli umani? La risposta è stata data solo di recente, nel 2016: con una piccola serie di mutazioni il gene “è stato cooptato” per regolare la forma dei dendriti, l’allungamento degli assoni e favorire lo sviluppo strutturale del cervello. Nato per una funzione, il gene è stato tirato fuori dal ripostiglio e impiegato dalla selezione naturale per tutt’altra funzione.

Ma, forse, è la terza risposta sulla presenza del DNA inutile a indurre Telmo Pievani (e, per quel che conta, anche chi scrive) a tessere “l’elogio dell’imperfezione”. La selezione naturale è pigra, ma è anche saggia. A quel DNA imperfetto, a quel junk DNA che si è accumulato per pigrizia – perché sarebbe stato troppo faticoso eliminarlo –, la selezione naturale ha trovato un ruolo. Il più utile di tutti, per la continuità della vita. La selezione naturale ha trasformato l’enorme ridondanza del DNA spazzatura nella principale fonte di creatività della vita.

Il ragionamento è questo: i geni normali, quelli che fanno lavoro utile, hanno bisogno di un certo grado di perfezione. Le imperfezioni (più correttamente, le mutazioni casuali) che inevitabilmente sopravvengono per il non preciso funzionamento dei meccanismi interni o per cause ambientali, vengono subito riparate da apposite proteine. La precisione del sistema di correzione delle imperfezioni di questa parte del DNA è molto alta, anche se non assoluta. Il motivo è semplice: perché una parte rilevante delle mutazioni è dannosa e, se non corrette, il loro accumulo genererebbe subito il blocco del corretto funzionamento dell’intero DNA. Ma le mutazioni intervengono anche nel junk DNA. È proprio qui che la selezione naturale si sbizzarrisce, creando le premesse per l’evoluzione adattativa. Perché in questa parte del DNA le mutazioni possono fare poco danno. Dunque non c’è questa gran necessità di correzioni. Ecco, dunque, che il sistema di correzione interviene di meno. Succede, dunque, che la gran parte delle mutazioni nel junk DNA si accumulano senza conseguenze. Succede, però, che talvolta una mutazione si riveli utile, magari per riattivare un gene atavico e fargli svolgere una funzione nuova. È raro, ma succede.

Conclusioni: ecco dunque una funzione inattesa del junk DNA: è il laboratorio dove la selezione naturale può sperimentare. Il DNA spazzatura è dunque una riserva – la principale riserva – di creatività. Ecco dunque che quel gomitolo che si agita caoticamente che noi chiamiamo DNA fa di sé un monumento all’imperfezione. E ora ci mostra la sua vera natura: somiglia a una foresta tropicale, a una giungla in apparenza inestricabile, ma piena di vita e di diversità. Per questo possiamo dare l’ultimo saluto a Sydney Brenner e proporgli di cambiare la sua definizione del DNA imperfetto: da junk DNA a quella che propongono Telmo Pievani e altri di jungle DNA. Dal DNA spazzatura al DNA giungla. È nel DNA giungla che il DNA trova il modo per vincere la battaglia con l’ambiente. Se l’ambiente cambia – e l’ambiente cambia spesso – è nelle sue parti più imperfette che il DNA trova gli strumenti per adattarsi e sopravvivere. In fondo è questa la storia naturale e vincente dell’imperfezione.

 


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