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In morte di Daniel Callahan

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È morto il 16 luglio il bioeticista Daniel Callahan, fra i fondatori dello Hastings Center, e fra i principali pensatori degli scopi e dei limiti della medicina. Riportiamo qui sotto l'intervista che gli abbiamo fatto per l'Espresso nel 2006 durante il suo passaggio a Milano in occasione di una conferenza organizzata dalla Fondazione Bassetti, ad alcuni anni di distanza da un altro importante incontro organizzato dalla Fondazione Livia Benini sugli scopi della medicina, una specie di Human Genome della filosofia della medicina.

 

Preparate le scialuppe. La nostra medicina è il Titanic in rotta verso l’iceberg. Costa ogni giorno di più: tutti i sistemi sanitari del mondo, primo fra tutti quello statunitense, stanno arrivando alla bancarotta nel tentativo impossibile di spostare sempre più in là il capolinea della vita. L’unica via d’uscita è il perseguimento di una medicina sostenibile, che sappia accettare i limiti imposti dalla biologia e non si accanisca con tecnologie costose ad allungare penosamente la vita degli anziani. Né a dare guerra a malattie che di fatto non sono eliminabili ma solo controllabili. Abbiamo posto alcune domande al bioeticista Daniel Callahan, fra i più importanti pensatori della medicina sostenibile.

Perché questo pessimismo sulla tenuta dei sistemi sanitari?

Il mio pessimismo prima riguardava solo il sistema statunitense, in assoluto quello più costoso e ingiusto al mondo. Basti pensare che la quota della spesa sanitaria sul PIL sfiora ormai il 15% ed esclude più di 45 milioni persone dalla copertura sanitaria. Ma dagli anni novanta sono entrati in crisi anche i sistemi sanitari europei, compreso quello italiano. Oggi in tutti i principali paesi sviluppati la spesa cresce del 10-15% all’anno, ed è evidente che fra qualche anno ci si dovrà chiedere come fermare questa macchina impazzita. Anche voi europei negli ultimi anni vi siete americanizzati, nel senso che cercate di ridurre i costi della sanità attraverso i ticket, le tariffe, l’aziendalizzazione e la Evidence Based Medicine, che dovrebbe promuovere solo le pratiche che si sono dimostrate efficaci. Ma tutto ciò non basta a fermare la palla di neve dei costi, che infatti continuano a crescere. Bisogna ripensare gli scopi e i valori della medicina, partendo dall’analisi di ciò che non va oggi.

Che cosa non va?

I fattori che determinano l’insostenibilità economica della medicina sono tre: il primo è l’invecchiamento della società: gli anziani stanno diventando la maggioranza della popolazione, e le cure mediche a un anziano costano il quadruplo rispetto a una persona con meno di 65 anni. Gli altri due fattori che hanno mandato in tilt i conti sono da un lato un progresso tecnologico selvaggio e poco utile per il miglioramento della salute, e le pretese sempre crescenti da parte del pubblico nei confronti della medicina.

Nei suoi libri lei parla del sogno sbagliato di una medicina che pretende di sconfiggere le malattie e la morte, e della necessità di accettare dei limiti. Partiamo da quelli che riguardano l’assistenza agli anziani. Da che età dobbiamo dire “basta così”?

Negli ultimi cinquant’anni le nostre società hanno fatto un balzo gigantesco, portando l’aspettativa di vita media dai 50 ai 75 anni. La prima cosa da dire è che questo allungamento della vita è stata una grande conquista, che si deve però più al miglioramento degli stili di vita e del sistema socioeconomico che alla medicina. Con la mia visione di una medicina sostenibile, io ritengo che si debba mantenere questa longevità ma non spingerla più in là a qualsiasi prezzo. Dobbiamo recuperare il senso dei cicli vitali. Con l’età di 70 anni un ciclo vitale si avvia a un compimento. La prima grossa difficoltà psicologica dell’uomo moderno è accettare che la vita ha delle stagioni e che dopo quell’età comincia un declino, contro il quale è inutile accanirsi. Questo non vuol dire che si debba lasciare gli anziani senza assistenza medica. Tuttavia certi interventi come i trapianti, il cuore artificiale, i defibrillatori impiantabili, in una nuova visione sostenibile della medicina, diventano non proponibili dopo i 70-80 anni. Quanto meno non possono essere pratiche pagate dallo Stato. Soprattutto per gli anziani la medicina si deve spostare dall’interventismo tecnologico alla migliore gestione delle patologie croniche che affliggono gli ultimi anni della vita, come l’osteoporosi, i sintomi dell’Alzheimer, la riduzione della vista e dell’udito. L’ideale da perseguire è una vita lunga nel pieno vigore seguita da una morte rapida.

C’è chi preconizza che la vita umana in buona salute grazie al progresso medico potrebbe estendersi fino ai 120 anni.

Difficile dimostrarlo. Già oggi assistiamo a un invecchiamento molto più travagliato che in passato. L’ultraottantenne di oggi prende 10 medicinali al giorno, il suo corpo viene progressivamente invaso da un complesso di malattie croniche, dalla cardiopatia alla demenza, che riducono a misera cosa i suoi ultimi anni di vita. I grandi successi della medicina sono alle nostre spalle, quelli futuri non possono essere che residuali, proprio perché la vita umana sta arrivando a ridosso dei suoi limiti biologici. Eppure la big science continua a investire capitali enormi inseguendo il mito dell’immortalità.

Dunque lei è favorevole all’eutanasia.

L’eutanasia è una reazione all’accanimento terapeutico, che rende possibili forme di vita non degne di essere vissute. Una medicina sostenibile, che accetta i limiti naturali che riguardano anche la nostra specie, non si accanisce e non ha bisogno di porre termine in modo artificiale alla vita.

Che cosa vuol dire meno medicina interventistica? Basta by-pass, trapianti, terapia intensiva sui neonati?

Non mi faccia fare il gioco della torre. La medicina per acuti va indirizzata a salvare la vita a chi rischia una morte prematura. Tuttavia, a qualsiasi età, l’accanimento non porta dei benefici: oggi si riescono a salvare anche neonati prematuri che pesano 400-500 grammi alla nascita, ma con gravi compromissioni respiratorie e di altro genere. Ha senso insistere su questa strada? Io che ho perso un figlio di sei settimane per la sindrome della morte improvvisa so quanto è forte la spinta della società verso la ricerca medica sui bambini. Ma non dimentichiamoci che i problemi di questa età sono sopratutto sociali e psicologici, come il suicidio, le gravidanze nell’adolescenza, le malattie a trasmissione sessuale, l’abuso di sostanze, il bullismo.

Basta fecondazione assistita? Basta terapia genica?

Il desiderio di un figlio è una cosa importante. Ma ha senso voler sviluppare più di tanto la medicina riproduttiva, i cui tassi di successo sono bassi, quando in realtà le cause principali dell’infertilità sono l’età avanzata delle gravidanze e le malattie sessualmente trasmesse? Non sarebbe più efficace agire su queste cause? Per ognuna di queste pratiche dobbiamo trovare un bilancio positivo fra i costi e gli effettivi benefici. Quanto alla terapia genica, in quindici anni ha portato a ben poco. La farmacogenomica, che si fonda sul progetto genoma umano per il quale sono stati spesi tre miliardi di dollari, promette una medicina personalizzata, ma a costi non sostenibili e che necessariamente andrebbero a erodere altri settori più importanti e promettenti della medicina e dell’assistenza.

Quali settori, vediamoli.

Dobbiamo riorientare la medicina verso una prospettiva di benefici non solo individuali ma di popolazione. Le sembra logico sapere tutto sui geni e non avere la minima idea di un metodo efficace per smettere di fumare, o di ridurre la montante epidemia di obesi? Su questi big killer la nostra ignoranza è proporzionale alle briciole che investiamo in queste ricerche. Non dimentichiamo poi che i più importanti determinanti della salute della popolazione sono il livello di educazione, un lavoro fisso e una buona alimentazione. Negli Stati Uniti si è fatto troppo poco in questi ambiti. Tanto è vero che a New York abbiamo i migliori centri clinici e di ricerca al mondo, ma se appena usciamo da Manhattan le scuole cadono a pezzi, e i neri e gli ispanici non hanno una copertura sanitaria.

Nel 1994 Clinton ha provato a creare anche negli Stati Uniti un sistema sanitario universalistico, ma ha fallito. Ora anche l’amministrazione Bush sta riscoprendo questi temi perché si rende conto che il sistema è fortemente discriminante e troppo costoso.

Non ci si deve aspettare grandi novità dai prossimi quattro anni della presidenza Bush. La pressione delle lobby del Big Pharma è troppo forte. Il privato non può garantire una sanità equa e sostenibile.

Torniamo alla sua critica della tecnologia medica. Lei dice che vanno posti limiti all’idea stessa del progresso medico indefinito. Ma non è proprio nella natura della scienza l’idea di superare i limiti?

È una superstizione, e la stessa storia della tecnologia lo dimostra: la NASA ha lasciato la strada delle missioni spaziali umane oltre la Luna per ragioni di sostenibilità economica e tecnologica. Allo stesso modo l’industria dei trasporti aerei ha abbandonato la strada dei jet supersonici perché non conveniente. Oggi gli aerei vanno più piano di quelli di 25 anni fa. Anche in medicina possiamo modulare diversamente gli investimenti, togliendo un po’ di enfasi all’high-tech e concentrandoci sulla promozione degli stili di vita sani, sulla prevenzione e su una migliore gestione delle malattie croniche invalidanti, come il diabete. Le nuove tecnologie e i nuovi farmaci vanno valutati prima di essere immessi sul mercato non solo per la loro efficacia e sicurezza ma anche per la loro sostenibilità economica. Senza questo criterio bisognerebbe impedirne la commercializzazione.

In realtà la tecnologia porta a costi discendenti. Pensi agli stent per l’angioplastica: negli ultimi dieci anni si sono dimezzati di prezzo.

Questo ha fatto sì che venissero proposti a molte più persone. I costi aumentano nel loro complesso proprio perché i prodotti diventano più economici e diventano accessibili a tutti, favorendo anche un loro impiego poco appropriato.

La sua proposta verte sul controllo delle tecnologie innovative e sul razionamento. Non le sembra un programma difficile da realizzare in una società democratica?

Sarebbe la quarta rivoluzione culturale americana dopo il femminismo, l’ambientalismo e i diritti civili. È un cambiamento lungo, di tipo culturale, che deve conquistare il consenso della popolazione. D’altra parte il razionamento è presente, in forma occulta o palese, in tutti i sistemi sanitari, per esempio attraverso le liste di attesa. Va indirizzato a beneficio della salute pubblica.

Embrioni e cellule staminali: molti ritengono che la libertà di sperimentazione possa portare allo scacco finale contro le malattie croniche come il diabete e l’Alzheimer.

Sono pro-choice sull’aborto ma non sono d’accordo sulla sperimentazione sugli embrioni, soprattutto di quelli creati appositamente per la ricerca. Tendo a essere cauto su questo filone di ricerca, che come molte altre potrebbe rivelarsi illusoria. Pensiamo alla favola che dieci anni fa ci raccontava che avremmo curato il Parkinson con il tessuto fetale. Ci sono altre strade da battere nella ricerca sulle staminali senza scomodare gli embrioni. Anche la forma più blanda di rispetto per l’embrione mi sembra sufficiente per respingere il suo uso a scopo di ricerca.

Eppure c’è un forte consenso sociale nei confronti di queste ricerche.

È il frutto di quello che io chiamo l’imperativo della ricerca. Gli scienziati ci fanno sentire in colpa per le vite bruciate dai ritardi nelle autorizzazioni alle ricerche. Ma spesso questi progressi sono tutti da dimostrare. E ci sono molte strade per migliorare la salute pubblica: la California ha investito 3 miliardi di dollari sulle cellule staminali, ma in quello stato ci sono due milioni e mezzo di analfabeti. Investendo la stessa cifra in istruzione salveremmo molte più vite umane.

 


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