fbpx Quel brutto pasticcio del TMT | Scienza in rete

Quel brutto pasticcio del TMT

Nelle luci del tramonto hawaiiano, sulla sommità del Mauna Kea spiccano (da sinistra) la silhouette del Subaru Telescope, le cupole dei due telescopi gemelli del W.M. Keck Observatory e quella del NASA Infrared Telescope Facility. Sono solamente alcune delle strutture astronomiche presenti sulla montagna ritenuta sacra dalla popolazione locale. Crediti: Joe Parks/Flickr. Licenza: CC BY-NC 2.0

Tempo di lettura: 8 mins

Alle Hawaii, quando tutto era ormai pronto per l’avvio dei lavori per la costruzione del Thirty Meter Telescope (TMT), il super telescopio da 30 metri di ultimissima generazione, sono riprese le dure contestazioni dei nativi. Troppo semplicistico ricondurre la situazione a uno sterile braccio di ferro tra scienza e superstizione o, peggio ancora, a mere rivendicazioni economiche. Vista l’estrema incertezza della situazione, i responsabili del progetto hanno già cominciato a valutare il trasferimento dell’opera in altra sede. In attesa degli eventi, alle Canarie – possibile nuova destinazione del super telescopio – hanno comunque già espresso parere favorevole.

Un progetto ambizioso

Come dice il nome, il cuore del TMT è un gigantesco specchio da 30 metri di apertura. Non uno specchio monolitico, ma formato da 492 segmenti esagonali il cui esatto posizionamento sarà controllato elettronicamente per permettere allo strumento di rispondere in tempo reale alle bizze della turbolenza atmosferica. Questo sistema, detto ottica adattiva, equipaggia ormai tutti i telescopi più grandi e permette di ottenere risoluzioni paragonabili a quelle di un telescopio orbitale. Secondo i dati di progettazione, con il sistema di ottica adattiva del TMT si potrebbero ottenere prestazioni dieci volte superiori a quelle del telescopio spaziale Hubble. Una nuova frontiera per la ricerca astronomica.

Al di là delle sfide tecnologiche, è inevitabile che per la struttura destinata a ospitare un simile strumento si debba mettere in conto un edificio ben più grande di quelli che solitamente caratterizzano gli osservatori astronomici. La sola struttura del telescopio, infatti, si innalzerà da terra per 50 metri e il diametro della cupola sarà di 66 metri. Anche mettendo in conto la realizzazione dell’ELT dell’ESO, la cui struttura raggiungerà l’altezza di un’ottantina metri, e di altri telescopi giganti in corso di costruzione, il TMT si collocherà dunque ai primissimi posti per maestosità dell’edificio che dovrà ospitarlo. 

Confronto indicativo, ma estremamente eloquente, tra la struttura che ospiterà il TMT e alcune strutture astronomiche attualmente operative. Nella grafica non sono raffigurate alcune strutture altrettanto imponenti, per esempio l’edificio del Large Binocular Telescope (52 m), le due cupole dei telescopi Gemini (46 m) e le quattro strutture del Very Large Telescope (25 m). Crediti: ESO

Come appare evidente anche a un profano, un telescopio dà il meglio di sé quando può operare sotto un cielo il più terso e stabile possibile. Non è dunque un caso che i moderni osservatori si trovino in altura, talvolta in regioni davvero sperdute, e con condizioni atmosferiche che assicurino sia un elevato numero di notti osservative, sia un cielo di eccellente qualità. Sulla base di queste esigenze, quando si trattò di decidere la location per la costruzione del TMT venne preso in considerazione un ventaglio di possibilità, dalle Ande cilene alle isole Canarie, dalle isole Hawaii al Messico e persino la regione indiana del Kashmir. Dopo attente valutazioni, la scelta venne ristretta a due contendenti: il Cerro Armazones nel deserto di Atacama (Cile) e il Mauna Kea sull’isola di Hawaii. Nel luglio 2009, sulla base di una delicata alchimia di considerazioni di natura scientifica, finanziaria e politica, il comitato prese la decisione di costruire TMT alle Hawaii, affiancandolo alle strutture astronomiche già operative sulla sommità del Mauna Kea.

L’eccellenza delle condizioni osservative che una simile location può garantire è ampiamente testimoniata dal gran numero di osservatori costruiti nel corso degli anni sulla vetta di questo vulcano spento che troneggia sulla Big Island di Hawaii. Sono una dozzina, infatti, le strutture osservative indipendenti tutt’ora operative ai 4200 metri di quota del Mauna Kea, una collaborazione che rende questo osservatorio tra i più produttivi al mondo.

Il TMT si affiancherebbe alle numerose strutture astronomiche già operative sulla vetta del Mauna Kea. Secondo il progetto, non solo il nuovo edificio rispetterebbe la sacralità della vetta del vulcano, ma una sua collocazione defilata e scelte costruttive adeguate lo renderebbero poco invasivo dal punto di vista paesaggistico. Crediti: Haisam Hussein 

Aloha, astronomia!

La presenza di strutture astronomiche alle Hawaii risale alla fine degli anni Sessanta, quando l’astronomo Gerard Kuiper vi costruì il primo osservatorio, immediatamente affiancato da altre due strutture. Se, da un lato, vi era l’entusiasmo degli astronomi per l’eccezionalità del sito e degli amministratori per le positive ricadute in termini di prestigio e di sviluppo economico, dall’altro si fece sentire, fin dall’inizio, l’opposizione di una parte della popolazione.

Gli ambientalisti erano preoccupati per le possibili minacce alla fauna e all’intero sistema ecologico, altri erano semplicemente dispiaciuti per l’impatto paesaggistico delle cupole che spuntavano come funghi sulla sommità del vulcano. Accanto a questi, però, vi è sempre stato chi contestava soprattutto l’utilizzo di un’area che, da sempre, era considerata dalla tradizione locale un luogo sacro. Il Mauna Kea è la vetta più alta delle Hawaii e questo, secondo la spiritualità hawaiiana, ne fa uno dei luoghi più sacri di tutte le isole.

Questa contestazione non accennò mai a diminuire; anzi, con la costruzione nel corso degli anni di altri più grandi osservatori, diventò sempre più agguerrita e determinata a far valere le proprie ragioni. Inevitabile, dunque, che la decisione di collocare sul Mauna Kea un osservatorio di così grande impatto qual è il TMT finisse col riacutizzare le proteste.

Dopo il via libera per la costruzione deciso dal Board of Land and Natural Resources dello Stato delle Hawaii nel 2011, la faccenda finì in tribunale e nel dicembre 2015 la Corte Suprema delle Hawaii bloccò i lavori rilevando che non era stata rispettata la procedura corretta. Al Consorzio che gestisce il progetto del TMT non restò che rimuovere le attrezzature e i veicoli già predisposti sul Mauna Kea e iniziare daccapo l’iter burocratico per la richiesta del regolare permesso. Sembrava quasi che il braccio di ferro tra favorevoli e contrari al TMT volgesse a favore di questi ultimi, ma nel settembre 2018 veniva rilasciata la nuova concessione, sulla cui validità si pronunciava in via definitiva il mese successivo la Corte Suprema delle Hawaii.

Dopo oltre tre anni di blocco e lunghi dibattiti nelle aule dei tribunali, lo scorso 15 luglio era tutto pronto perché i lavori per la costruzione del TMT potessero finalmente cominciare. L’avvio, però, è apparso fin da subito in decisa salita: il 17 luglio, infatti, un migliaio di manifestanti bloccava l’accesso al sito inducendo il Governatore delle Hawaii a proclamare lo stato di emergenza. La decisione di utilizzare il pugno di ferro nella gestione di quella manifestazione di protesta è sfociata nell’arresto di numerosi manifestanti; il fatto che tra gli arrestati vi fossero autorevoli anziani (kūpuna) della comunità locale ha però suggerito in molti una differente lettura della vicenda del TMT, nella quale vengono messe sul tappeto considerazioni di natura etica.

Esprimendo, all’inizio di agosto, il suo parere sulle pagine di Nature, Rosie Alegado – nativa hawaiiana e docente di Oceanografia all’Università delle Hawaii – sottolinea come le considerazioni avanzate da chi si oppone al TMT sono state troppo sbrigativamente catalogate come semplice rifiuto al progresso scientifico. Il termine kapu con il quale i protettori del Mauna Kea indicano la montagna non significa solamente “proibito” e “sacro”, ma ha anche una valenza più profonda. «Per i nativi hawaiiani – scrive Alegado – kapu ci impone che, come membri della società, dobbiamo essere cauti, chiederci se una azione debba o non debba essere intrapresa. Riconoscere ciò che è kapu è una pietra angolare di due valori hawaiiani quali il prendersi cura delle persone e dei luoghi. Anche la scienza occidentale aderisce al kapu – lo chiamiamo etica – e dobbiamo prendere sul serio questa responsabilità nei confronti del pubblico e dell'ambiente. Essere cauti non equivale a essere contro il progresso. La scienza etica è intrinsecamente sensibile alla società. Ottenere il consenso del paziente per la ricerca medica potrebbe rallentare i progressi, ma a nessuno viene in mente di suggerire un ritorno ai giorni in cui su persone vulnerabili veniva fatta sperimentazione senza il loro consenso». 

Perplessità sono state espresse anche da numerosi membri della comunità degli astronomi. In una petizione online, già sottoscritta da più di un migliaio di astronomi di ogni parte del mondo, si chiede espressamente che venga riconosciuto l’ampio contesto storico che caratterizza il conflitto per la costruzione del TMT e si denuncia la criminalizzazione dei protettori del Mauna Kea. Inoltre, si sollecita che la cordata per la realizzazione del TMT e il governo delle Hawaii rinuncino a gestire la faccenda con le maniere forti e rimuovano dalla montagna il personale militare e le forze dell’ordine.

«Vogliamo che si faccia una pausa – si legge nella petizione – e si valuti il significato del TMT all’interno della comunità astronomica. Apprezziamo gli investimenti che un così grande numero di colleghi hanno fatto per il completamento del progetto. Oggi non scriviamo per dare un giudizio di valore sul futuro del TMT sul Mauna Kea, ma per mettere in primo luogo in discussione i metodi con cui stiamo ottenendo che il telescopio sia sulla montagna». 

È evidente che, di fronte alla vigorosa e persistente opposizione dei nativi e alle perplessità di carattere etico che animano la comunità astronomica, gli istituti e le università che sostengono e finanziano la realizzazione del TMT – un investimento di 1,4 miliardi di dollari – non potranno restare in attesa per molto tempo. Stando ad alcune indiscrezioni, diventerebbe sempre più concreta la possibilità di trasferire il progetto all’Osservatorio di Roque de los Muchachos sull’isola di La Palma (Canarie), un sito già valutato nel 2016 quale possibile alternativa al Mauna Kea.

A metà agosto, nel corso di un incontro che ha visto la partecipazione di Angel Víctor Torres (Governatore delle Canarie), di Rafael Rebolo (Direttore dell’Instituto de Astrofisica de Canarias) e di amministratori e responsabili della Comunità autonoma delle Isole Canarie, si è espresso l’appoggio unanime alla possibile decisione di trasferire il TMT a La Palma e l’intenzione di dedicare il massimo sforzo per facilitare l’installazione del super telescopio. Significative, a tal proposito, le parole del Governatore Torres: «Non voglio essere ottimista, ma realista; tuttavia, la nostra intenzione è quella di avere tutti i permessi in regola entro le prossime settimane. Poi spetterà al Consorzio TMT decidere; noi gli stiamo offrendo uno dei migliori cieli del mondo».

Quale sarà la risposta del TMT a questo tappeto rosso steso ufficialmente alle Canarie?

 


Scienza in rete è un giornale senza pubblicità e aperto a tutti per garantire l’indipendenza dell’informazione e il diritto universale alla cittadinanza scientifica. Contribuisci a dar voce alla ricerca sostenendo Scienza in rete. In questo modo, potrai entrare a far parte della nostra comunità e condividere il nostro percorso. Clicca sul pulsante e scegli liberamente quanto donare! Anche una piccola somma è importante. Se vuoi fare una donazione ricorrente, ci consenti di programmare meglio il nostro lavoro e resti comunque libero di interromperla quando credi.


prossimo articolo

Is 1.5 degrees still a realistic goal?

Photo: Simon Stiell, Executive Secretary di UNFCCC (Source: UNclimatechange, CC BY-NC-SA 2.0 DEED)

Keep 1.5 within reach, "keep the 1.5 degrees within reach." This was the slogan with which COP28 opened, the United Nations conference on climate change that just concluded in Dubai. The feasibility of this goal, however, now seems more uncertain than ever, even though many considered this aim too ambitious from the outset.