fbpx Teoria della mente per le grandi scimmie | Scienza in rete

Teoria della mente per le grandi scimmie

La teoria della mente presuppone la capacità di attribuire ad altri individui pensieri e conoscenze. Nonostante decenni di ricerche al riguardo, non è ancora chiaro se possa essere attribuita anche ad animali non umani. Un nuovo studio pubblicato da PNAS supporta l'ipotesi che sia presente nelle grandi scimmie (bonobo, scimpanzé e oranghi), che sono in grado di fare inferenze dalla propria esperienza per capire come si comporterà un altro individuo. Crediti: Susanne Jutzeler, suju-foto/Pixabay. Licenza: Pixabay License

Tempo di lettura: 4 mins

Vi è mai capitato, da piccoli, di chiudere gli occhi convinti che in questo modo nessun altro potesse vedervi? La capacità di attribuire stati mentali agli altri individui è definita "teoria della mente": è il riuscire a comprendere che i pensieri e le conoscenze altrui differiscano dalle proprie, e nei bambini molto piccoli è scarsamente presente. Nonostante decenni di ricerche al riguardo, non è ancora chiaro se la teoria della mente possa essere attribuita anche agli animali non umani o se è propria della nostra specie. Gli studi sono generalmente concentrati sui corvidi e sulle grandi scimmie. Proprio su queste ultime è stato appena pubblicato un nuovo lavoro, apparso su PNAS, che sembra aggiungere nuovi dati a sostegno dell'ipotesi che scimpanzé, bonobo e oranghi abbiano, in effetti, una teoria della mente.

Il test delle false credenze

Lo studio è firmato, tra gli altri, da Fumihiro Kano e Christopher Krupenye, che pochi anni fa avevano pubblicato su Science un articolo nel quale si riportava che le grandi scimmie sono in grado di superare il cosiddetto test delle false credenze, originariamente sviluppato per testare la teoria della mente nei bambini. In pratica, il test consiste nel far assistere il bambino a una scena in cui un personaggio nasconde un oggetto ed esce di scena. Appare quindi un secondo personaggio che sposta l'oggetto nascosto; una volta rientrato il primo, dove cercherà l'oggetto? I bambini piccoli tendono a rispondere che lo cercherà nel nuovo nascondiglio, perché non sono ancora in grado di attribuire agli altri conoscenze diverse dalle proprie.

Il test è stato adattato per le grandi scimmie e, combinato con la tecnologia di eye tracking, che permette di capire dove l'animale dirige lo sguardo, aveva dimostrato che potrebbero avere una teoria della mente. Le scimmie, infatti, tendevano a dirigere lo sguardo verso il "vecchio" nascondiglio, anticipando i movimenti dell'attore, pur sapendo che l'oggetto nascosto non si trovava più lì.

Restava però la possibilità che le scimmie agissero, in realtà, sulla base di una regola di comportamento per la quale si tende a cercare qualcosa nell'ultimo punto in cui lo si è visto. Non è quindi detto che le grandi scimmie fossero realmente in grado di comprendere la "falsa credenza" dell'attore: è possibile, invece, che fosse in grado d'inferire i movimenti dell'attore da indizi comportamentali che possono consentire loro di anticipare ciò che farà .

Dietro la barriera: inferire dalle esperienze

È proprio per testare quest'ipotesi che i ricercatori hanno proseguito il loro lavoro sulle grandi scimmie, usando un nuovo esperimento, il cosiddetto goggles test. Un gruppo di 43 scimmie di diverse specie (scimpanzé, oranghi di Sumatra e bonobo, provenienti dallo zoo di Leipzing in Germania e dal Kumamoto Sanctuary in Giappone) ha fatto esperienza di due diversi tipi di barriere, indistinguibili a prima vista: una trasparente, l'altra trasparente solo in apparenza. In questo modo, un gruppo imparava che era possibile vedere attraverso la barriera, l'altra invece che la barriera impediva la visuale. Quindi, le scimmie sono state sottoposte a eye tracking mentre guardavano un filmato in cui un attore umano poteva vedere dove venisse nascosto un oggetto. L'attore si spostava poi dietro una barriera, mentre l'oggetto veniva rimosso. La barriera dietro cui si nascondeva l'attore era identica a quella già nota alle scimmie.

Il punto allora è: se le scimmie possono usare la propria esperienza per capire cosa l'attore sa della posizione dell'oggetto, allora quelle che hanno conosciuto la barriera trasparente dovrebbero dedurre che l'attore ha potuto vedere l'oggetto rimosso. Al contrario, per la teoria della mente, il gruppo che ha conosciuto la barriera attraverso cui la visuale è impedita si aspetterà invece la "falsa credenza", per la quale l'attore è ignaro che l'oggetto nascosto non è più presente sulla scena.

L'esperienza e la teoria della mente

Ed è quanto effettivamente osservato dai ricercatori grazie all'eye tracking. Il gruppo di scimmie che conosceva la barriera opaca indirizzava lo sguardo verso la posizione originale dell'oggetto, anticipando le mosse dell'attore. Una simile tendenza era invece assente nel gruppo di scimmie che avevano sperimentato la barriera trasparente, suggerendo quindi che fossero consce che l'attore aveva potuto vedere la rimozione dell'oggetto e dunque non lo cercasse. Questo risultato esclude una spiegazione basata sugli indizi comportamentali, perché i due gruppi avevano visto lo stesso identico video e hanno basato il loro comportamento esclusivamente sulla propria esperienza.

«Siamo emozionati nell'osservare che le grandi scimmie sono in grado di superare questo difficile test», commenta in un comunicato Fumihiro Kano. «È un risultato che suggerisce che condividiamo questa capacità con i nostri cugini». Ed è un risultato coerente con quanto già osservato nei bambini di appena 18 mesi e nei corvidi, che in altri studi si sono rivelati in grado di impiegare le proprie esperienze visive e di "furtarelli" per proteggere il proprio cibo da altri individui. Questo, scrivono gli autori, evidenzia anche l'importanza dell'esperienza personale nell'espandere gli stati mentali che i bambini e alcuni animali non umani sono in grado di attribuire agli altri individui. I ricercatori continueranno comunque a rifinire i metodi d'indagine per escludere altre possibili alternative.

 


Scienza in rete è un giornale senza pubblicità e aperto a tutti per garantire l’indipendenza dell’informazione e il diritto universale alla cittadinanza scientifica. Contribuisci a dar voce alla ricerca sostenendo Scienza in rete. In questo modo, potrai entrare a far parte della nostra comunità e condividere il nostro percorso. Clicca sul pulsante e scegli liberamente quanto donare! Anche una piccola somma è importante. Se vuoi fare una donazione ricorrente, ci consenti di programmare meglio il nostro lavoro e resti comunque libero di interromperla quando credi.


prossimo articolo

Why have neural networks won the Nobel Prizes in Physics and Chemistry?

This year, Artificial Intelligence played a leading role in the Nobel Prizes for Physics and Chemistry. More specifically, it would be better to say machine learning and neural networks, thanks to whose development we now have systems ranging from image recognition to generative AI like Chat-GPT. In this article, Chiara Sabelli tells the story of the research that led physicist and biologist John J. Hopfield and computer scientist and neuroscientist Geoffrey Hinton to lay the foundations of current machine learning.

Image modified from the article "Biohybrid and Bioinspired Magnetic Microswimmers" https://onlinelibrary.wiley.com/doi/epdf/10.1002/smll.201704374

The 2024 Nobel Prize in Physics was awarded to John J. Hopfield, an American physicist and biologist from Princeton University, and to Geoffrey Hinton, a British computer scientist and neuroscientist from the University of Toronto, for utilizing tools from statistical physics in the development of methods underlying today's powerful machine learning technologies.