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Ghiacci e oceani: ecco cosa dice il rapporto IPCC

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Il rapporto speciale dell'IPCC su oceani e ghiacci (Special Report on the Ocean and Criosphere in a Changing Climate) è frutto di un lavoro gigantesco compiuto da 107 scienziati che hanno considerato 6.981 pubblicazioni e 31.176 commenti provenienti da revisori e governi di 80 paesi. Rispetto ai precedenti rapporti IPCC aumenta il livello di certezza sugli effetti che subiranno gli oceani in base agli scenari emissivi. Trova così una conferma la proiezione al 2100 della riduzione di un terzo del ghiaccio mondiale, di quasi tutto il ghiaccio alpino, e dell'innalzamento del livello del mare fino a 1 metro se le emissioni continuassero al ritmo attuale.  Oltre agli aspetti naturali ed ecologici, il rapporto considera gli impatti su pesca, turismo, economia, salute, cultura e credenze locali. Ecco una guida ragionata al monumentale rapporto basata sulla sintesi di Carbon Brief.

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Il 71% del pianeta è coperto dall’insieme degli oceani, che contengono il 97% dell'acqua della Terra e sono responsabili di circa la metà della produzione primaria. Gli oceani e la criosfera forniscono servizi che includono "cibo e acqua dolce, energia rinnovabile, salute e benessere, cultura, commercio e trasporti, ma sono anche una fonte di rischi". Non si ha la percezione di quanto oceani e ghiacci risentano del cambiamento climatico e a loro volta influenzino gli assetti naturali, culturali e sociali. Se quasi il 10% della popolazione mondiale - circa 670 milioni di persone - vive in regioni di alta montagna, e circa quattro milioni di persone vivono nell'Artico, sono le coste le zone più popolate del pianeta. "Nel 2010, il 28% della popolazione mondiale (1,9 miliardi di persone) viveva in aree a meno di 100 km dalla costa e a meno di 100 metri sul livello del mare, comprese 17 grandi città, che ospitano ciascuna più di cinque milioni di persone. I piccoli Stati insulari in via di sviluppo ospitano insieme circa 65 milioni di persone" spiega il rapporto. "Cambiamenti pervasivi dell'oceano e della criosfera sono già in atto. Se si continua così, si prevede che il declino della salute degli oceani e dei servizi dovrebbe costare all'economia globale 428 miliardi di dollari all'anno entro il 2050, e 1.979 miliardi di dollari all'anno entro il 2100". Così esordisce il rapporto speciale IPCC su oceano e la criosfera in un clima che cambia (Special Report on the Ocean and Criosphere in a Changing Climate) reso noto lo scorso 24 settembre.

Figura 1 Illustrazione schematica dei componenti chiave e dei cambiamenti dell'oceano e della criosfera, e dei loro collegamenti nel sistema terrestre attraverso il movimento di calore, acqua e carbonio. Fonte: IPCC: Box 1.1, Figura 1

Il messaggio più importante del voluminoso rapporto è che oceani e criosfera stanno già cambiando sotto l’effetto del riscaldamento globale, e che continueranno a mutare in modi in buona parte ancora imprevedibili anche se l’umanità dovesse riuscire a contenere il riscaldamento globale ben al di sotto dei 2°C. Da qui la necessità di adattarsi alle mutate condizioni. Con l’aiuto della sintesi di Carbon Brief , abbiamo cercato di mettere in fila gli impatti più importanti del clima che cambia su oceani, calotte polari, ghiacciai, e di conseguenza sui sistemi naturali, ed economico sociali.

La montagna

Le regioni di alta montagna ospitano circa un decimo della popolazione mondiale. I ghiacciai, il permafrost e la copertura nevosa fanno sì che siano anche il luogo dei cambiamenti critici della criosfera. Il secondo capitolo del rapporto descrive come alla fine del secolo i ghiacciai dovrebbero perdere circa il 18% della loro massa rispetto ai livelli del 2015 in uno scenario a basse emissioni (circa il 30% in uno scenario di alte emissioni). L'aumento del livello del mare derivante da queste perdite dei ghiacciai si aggira intorno ai 94 millimetri e 200 millimetri rispettivamente per gli scenari a basse e ad alte emissioni entro il 2100. Regioni come l'Europa centrale e l'Asia settentrionale subiranno effetti molto maggiori, con una perdita media di oltre l'80% della attuale massa glaciale entro il 2100. Alcuni ghiacciai potrebbero scomparire completamente in questo lasso di tempo.

I cambiamenti nella massa dei ghiacciai e nella copertura nevosa stanno già influenzando il deflusso dei fiumi. Dopo un periodo di maggiore deflusso dovuto a un maggiore scioglimento dei ghiacci, i ricercatori si aspettano di vedere una loro progressiva diminuzione.

Il ritiro dei ghiacciai e lo scioglimento del permafrost hanno già destabilizzato i versanti delle montagne e negli ultimi decenni si è registrato un aumento delle valanghe di "neve bagnata". Anche le frane e le inondazioni diventeranno un problema sempre più grave nei prossimi anni. I ghiacciai, inoltre, contengono sostanze chimiche tossiche di origine umana come il DDT, metalli pesanti e black carbon, che riversandosi nei corpi idrici potrebbero diminuire la qualità dell'acqua potabile nelle aree circostanti.

Produzione di energia idroelettrica e agricoltura risentiranno dello scioglimento dei ghiacciai. Per gli agricoltori che lavorano nelle regioni montane, come nelle Ande tropicali e le Montagne Rocciose, la riduzione dell'acqua disponibile per l'irrigazione è già stata attribuita alla diminuzione del deflusso dei fiumi dalle altitudini più elevate.

Il cambiamento delle condizioni in alta montagna dovrebbe avere conseguenze di vasta portata per gli ecosistemi alpini. Alcuni dei quali positivi, almeno a breve termine. Ad esempio, la biodiversità complessiva è aumentata ad altitudini più elevate a causa del ritiro della neve e del ghiaccio. Questo però avviene a spese di specie montane più specializzate, per alcune delle quali si prevede un calo nella popolazione.

Ghiacci marini ai poli

Il rapporto è stato pubblicato lo stesso giorno in cui si annunciava che l’estensione del ghiaccio artico aveva raggiunto i 4,15 milioni di chilometri quadrati, secondo solo al minimo storico di 3,39 milioni di km2 nel 2012. Come risulta dalle misure satellitari, l'estensione dei ghiacci dell’Artico è diminuita costantemente a partire dal 1979, con un calo di 83.000 km2 all'anno tra il 1979 e il 2017, pari al 13% per decennio rispetto alla media 1981-2010. Diminuzioni più contenute ma crescenti si manifestano nel tardo inverno.

La ricostruzione della copertura artica dei ghiacci marini fino al 1850 "dimostra che la perdita di ghiaccio artico negli ultimi due decenni è probabilmente senza precedenti da almeno 150 anni". I satelliti mostrano anche un calo dello spessore dei ghiacci del bacino artico dal 2000 al 2012 di quasi 60 centimetri per decennio. "Circa la metà della perdita di ghiaccio marino estivo osservato nell'Artico è dovuta ai cambiamenti climatici causati dall'uomo”, sostiene il rapporto, mentre il resto è causato dalla variabilità naturale.

Si teme inoltre la cosiddetta "amplificazione artica”: con la diminuzione del ghiaccio, l'energia solare viene assorbita maggiormente dall'oceano, causando un ulteriore riscaldamento. Anche il mare “continua a riscaldarsi nel periodo estivo di circa 0,5°C per decennio in ampi settori del bacino artico che sono privi di ghiaccio in estate". I modelli climatici prevedono "un continuo declino dei ghiacci del Mar Glaciale Artico fino alla fine del secolo", dice il rapporto. Ma è difficile dire quando l’Artico sarà completamente libero da ghiaccio nel periodo estivo, a causa della variabilità naturale, dei limiti dei modelli e dell'incertezza sulle emissioni future.

Figura 2 Mappa delle regioni polari dell'Artico (a sinistra) e dell'Antartico (a destra). Nel testo sono contrassegnati diversi nomi di località a cui si fa riferimento nel testo. Le linee tratteggiate indicano i confini approssimativi delle regioni polari. Fonte: IPCC: Figura 3.2

A differenza dell'Artico, il continente antartico ha visto "cambiamenti di temperatura meno uniformi negli ultimi 30-50 anni, con il riscaldamento di alcune parti dell'Antartide occidentale e nessun cambiamento globale significativo nell'Antartide orientale. (…) L'andamento complessivo dell'estensione dei ghiacci in Antartide è composto da cambiamenti regionali quasi compensatori", osserva il rapporto, "con una rapida perdita di ghiaccio nei mari di Amundsen e Bellingshausen contrastata dalla rapida formazione di ghiaccio nei mari di Weddell e Ross". Sono molti i fattori che contribuiscono a questa variabilità regionale nell'estensione dei ghiacci dell'Antartide. Un'influenza fondamentale è esercitata dai venti che spirano da nord a sud e viceversa: "Le tendenze dei venti verso il Polo nel Mare di Bellingshausen spingono il ghiaccio marino più vicino alla costa e favoriscono l'aria calda nella zona di ghiaccio marino, mentre si verifica il fenomeno opposto per gran parte del Mare di Ross".

Il riscaldamento della superficie dell'Antartide "è ritardato dalla circolazione dell'Oceano Australe, che trasporta il calore verso il basso”. Questo può spiegare la debole risposta del ghiaccio marino antartico all’aumento delle concentrazioni di gas serra nell'atmosfera". Tuttavia, la riduzione del ghiaccio marino che si è verificata dal 2016 suggerisce "cambiamenti a lungo termine in Antartide, simili a quelli dell'Artico".

Il ghiaccio terrestre

Lo scioglimento del ghiaccio in Groenlandia è aumentato a un livello senza precedenti per almeno 350 anni e fino a cinque volte di più rispetto all’epoca preindustriale. Tra il 2012 e il 2016, la regione ha perso circa 247 miliardi di tonnellate di ghiaccio ogni anno. Si tratta di una perdita quasi sicuramente maggiore rispetto al periodo 1992-2001, stimate in 8 miliardi di tonnellate all'anno (con una incertezza di +/- 82 miliardi di tonnellate). Tra il 2005 e il 2016, la perdita di ghiaccio in Groenlandia è stata la causa principale dell'innalzamento del livello globale del mare, contrariamente a quanto è avvenuto nei precedenti 100 anni, in cui sono stati i ghiacciai montani ad essere i principali responsabili del cambiamento del livello del mare.

La perdita di ghiaccio nella regione antartica è determinata dalle acque più calde dell'oceano, che provocano il ritiro e il rapido diradamento dei principali ghiacciai di sbocco della calotta glaciale dell'Antartide occidentale. La calotta glaciale dell'Antartico orientale, invece, è rimasta stabile, anche se alcuni ghiacciai (come quello di Totten) hanno iniziato a ritirarsi negli ultimi decenni, contribuendo all’innalzamento del livello del mare. Tra il 2012 e il 2016 il livello del mare si è innalzato di circa 1,2 millimetri all'anno, alimentato da entrambe le calotte di ghiaccio, con un aumento del 700% rispetto a due decenni prima.

Secondo rapporto IPCC è difficile al momento separare i fattori naturali e antropici che contribuiscono ai cambiamenti della circolazione atmosferica e oceanica e quindi dello scioglimento del ghiaccio antartico. Anche perché “la massa della calotta glaciale antartica è influenzata da una complessa catena di processi che mostrano una notevole variabilità naturale e hanno molteplici interazioni con le condizioni della superficie del mare nel Pacifico e nell'Atlantico, con ulteriori feedback locali". Su quanto lo scioglimento della calotta antartica possa aumentare il livello del mare c’è ancora molta incertezza. Il rapporto conclude che ci sono "prove limitate e un alto accordo" che il recente scioglimento della calotta antartica potrebbe essere "irreversibile su una scala che va da decenni a millenni”. E conclude: “Considerando le conseguenze dell'innalzamento del livello del mare che un collasso di parti della calotta di ghiaccio antartica comporta, questo rischio ad alto impatto merita attenzione".

La vita ai poli

"I cambiamenti climatici alterano la distribuzione e le proprietà degli habitat marini dell'Artico, con le relative implicazioni per la composizione delle specie, la produzione, la struttura e il funzionamento dell'ecosistema", dice il rapporto. Ad esempio, il calo dei ghiacci marini e il raffreddamento delle acque superficiali hanno contribuito alla fioritura del fitoplancton all'inizio dell'anno e persino in autunno, "un fenomeno raramente osservato in precedenza nelle acque artiche".

"L'aumento della temperatura e i cambiamenti nella qualità e nella distribuzione delle prede stanno già influenzando distribuzione e produzione ittica”. Le acque più calde del Mare di Barents settentrionale "hanno ampliato le aree di alimentazione per le specie boreali e subartiche e hanno contribuito ad aumentare la presenza di merluzzo bianco dell'Atlantico". Le specie artiche, come il merluzzo polare, invece, dovrebbero risentire di "una stagione glaciale ridotta, una maggiore pressione predatoria, ridotta disponibilità di prede, e ridotta crescita e successo riproduttivo". Anche se alcune attività di pesca sono in realtà adattabili ai cambiamenti ambientali, “il cambiamento climatico influenzerà la distribuzione spaziale e la produttività di alcuni pesci e molluschi marini importanti dal punto di vista commerciale".

Anche i mammiferi e gli uccelli marini sono interessati dai cambiamenti in atto. Molte specie si adattano spostando il loro areale, modificando l’alimentazione o le rotte migratorie. Non senza conseguenze, però. Ad esempio "si è osservato un aumento di tasso di mortalità di piccoli di tricheco durante gli spostamenti a terra di gruppi insolitamente grandi" a causa della diminuzione dei ghiacci marini.
Anche gli orsi polari risentono dei cambiamenti nei ghiacci marini. "Meno ghiaccio sta spingendo gli orsi polari a percorrere distanze maggiori e a nuotare più di prima sia in mare aperto che in zone costiere, il che può essere particolarmente pericoloso per i cuccioli".

Per quanto riguarda l'Oceano Meridionale, il rapporto osserva che il krill antartico "gioca un ruolo centrale nelle catene alimentari dell'Oceano Meridionale come alimento per pesci, calamari, mammiferi marini e uccelli marini". Le proiezioni indicano "impatti futuri negativi del cambiamento climatico sul krill e su tutte le specie di balene, anche se l'entità degli impatti differisce tra le popolazioni come per altri predatori superiori”.
Il krill è anche un'importante attività di pesca nell'Oceano Meridionale, per un valore di circa 70 milioni di dollari all'anno. La pesca è diventata "sempre più concentrata nello spazio negli ultimi decenni, il che ha destato preoccupazione per gli impatti localizzati sui predatori di krill". Per altri mammiferi e uccelli marini cominciano ad accumularsi prove di cambiamenti nelle popolazioni indotti dal clima, come un aumento di pinguini comuni (o papua), e una diminuzione dei pinguini di Adelia, pinguini antartici, pinguini reali e pinguini imperatori".

Anche uccelli come i fulmari meridionali, petrelli antartici e gli albatros neri potrebbero risentire dei mutamenti ambientali in termini di tassi si riproduzione.

I cambiamenti stanno avendo conseguenze anche sulle comunità indigene dell’Artico, a cominciare dall’insicurezza alimentare. Gli impatti includono la diminuzione dei ghiacci dei laghi che influenzano la pesca, i cambiamenti delle condizioni della neve che rendono "più difficili e pericolosi i viaggi", limitano l'accesso alle zone di caccia, e riducono "l'affidabilità del permafrost per la refrigerazione naturale".
Il turismo sta già conoscendo un aumento in Artico. "Rispetto ad un decennio fa, c’è più offerta di crociere, le navi viaggiano di più in una sola stagione, sono in funzione navi più grandi con più posti di ormeggio per i passeggeri, si stanno costruendo nuove navi da crociera polari, e le imbarcazioni da diporto private appaiono con maggiore frequenza (…) il passaggio a Nordovest, che ha visto nei primi anni 2000 solo occasionali transiti di navi da crociera, è ora accessibile durante la stagione crocieristica estiva e, di conseguenza, nell'ultimo decennio ha visto raddoppiare e quadruplicare l'attività crocieristica e da diporto".

L'attività di trasporto marittimo continuerà a crescere attraverso l'Artico mano a mano che le rotte settentrionali diventeranno sempre più accessibili. Questo avrà "significative implicazioni socio-economiche e politiche", dice il rapporto, in relazione alla sicurezza (come incidenti marittimi) e sostenibilità ambientale e culturale (aumento di specie invasive, rilascio di biocidi, prodotti chimici e altri rifiuti, scioperi di mammiferi marini, fuoriuscite di carburante, inquinamento acustico, dell’aria e dell’acqua, impatti sulla caccia di sussistenza)". Inoltre, il trasporto marittimo commerciale "utilizza principalmente olio combustibile pesante, con le relative emissioni di zolfo, azoto, metalli, idrocarburi, composti organici e di black carbon nell'atmosfera durante la combustione".

Punti di non ritorno

Il sesto capitolo del rapporto dell'IPCC è dedicato a "eventi estremi, cambiamenti repentini e gestione dei rischi". Questo capitolo tratta i punti di non ritorno (tipping point) del sistema climatico, che definiscono "il passaggio da uno stato stabile a un altro". I tipping point "sono associati a cambiamenti rapidi e bruschi anche quando il forzante sottostante muta gradualmente", spiega il rapporto. Per "brusco" si intende un cambiamento su larga scala che "si verifica nell'arco di pochi decenni o meno, persiste (o si prevede che persista) per almeno alcuni decenni, e causa notevoli perturbazioni nei sistemi umani e naturali".

Alcuni di questi cambiamenti sono irreversibili, il che significa che il periodo di recupero naturale dallo stato mutato "è significativamente più lungo del tempo necessario al sistema per raggiungere questo stato perturbato". Per l’IPCC, il cambiamento è irreversibile se "la scala temporale di recupero di interesse è di centinaia o migliaia di anni". Il rischio di superare i tipping point sono uno degli argomenti a sostegno degli sforzi per limitare il riscaldamento climatico ben al di sotto dei 2°C.

Capovolgimento meridionale della circolazione atlantica 

Il capovolgimento meridionale della circolazione atlantica (AMOC) è il sistema di correnti nell'Oceano Atlantico caratterizzato da un flusso verso nord di acqua salina calda in superficie (con un effetto di mitigazione del clima del Nord Atlantico e dell’Europa), e da un flusso in direzione sud di acqua fredda in profondità. È una componente fondamentale del sistema climatico globale, con una oscillazione multidecennale (AMO). 

Lo scioglimento dei ghiacci delle Groenlandia, dell’Artico e del Canada ha aumentato del 50% l’afflusso di acqua dolce nel Nord Atlantico dagli anni ‘90, facendo ipotizzare una minore formazione di acque profonde nell’Atlantico settentrionale e quindi la minaccia di un indebolimento della corrente che svolge un ruolo così importante sul clima del Pianeta. Tuttavia, il nuovo rapporto conferma con più modelli la conclusione del Quinto rapporto dell'IPCC (2013) secondo cui "è molto improbabile che l'AMOC collassi nel ventunesimo secolo in risposta all'aumento delle concentrazioni di gas serra".

A seconda dei modelli utilizzati da IPCC, la corrente potrebbe indebolirsi per la fine di questo secolo dell'11%, o del 32%. Un modello mostra addirittura "un collasso della corrente (una diminuzione superiore all'80% rispetto all'attuale) prima della fine del secolo per lo scenario RCP8.5 (cioè quello a più alte emissioni)". In realtà, i modelli suggeriscono "che il collasso del capovolgimento meridionale della circolazione atlantica può essere evitato a lungo termine attraverso la mitigazione". Anche se la minaccia del venir meno di questa corrente è remota, il suo indebolimento genererà comunque impatti importanti su larga scala sui sistemi naturali e umani. Questi includono "un raffreddamento dell'Atlantico settentrionale, un riscaldamento dell'Atlantico meridionale, una minore evaporazione e, quindi, precipitazioni sull'Atlantico settentrionale, e uno spostamento della zona di convergenza intertropicale, la grande area di bassa pressione che circonda la Terra vicino all'equatore.

"I cambiamenti in circolazione hanno impatti multipli intorno al bacino atlantico, ma includono anche impatti remoti in Asia e Antartide. La riduzione dell'AMOC comporta un eccesso di calore nell'Atlantico meridionale, con conseguente aumento delle inondazioni, delle emissioni di metano e della siccità, e, di conseguenza, un impatto negativo sulla produzione alimentare e sui sistemi umani. Nella regione del Nord Atlantico la frequenza degli uragani è diminuita sul lato occidentale del bacino, ma le tempeste aumentano a est. Gli ecosistemi marini e terrestri, compresa la produzione alimentare, sono colpiti, mentre l'innalzamento del livello del mare si osserva su entrambe le sponde dell'Atlantico".

Figura 3 Infografica sulle teleconnessioni e sugli impatti dovuti al collasso dell'AMOC o ad un sostanziale indebolimento. Le frecce indicano la direzione del cambiamento associato ad ogni icona e sono poste sulla sua destra. Una valutazione del livello di confidenza nella comprensione dei processi in gioco è indicata sotto ogni icona. Fonte: IPCC: Figura 6.10

Permafrost

Il permafrost è terreno contenente ghiaccio e materiale organico congelato. È presente sulla terraferma in zone polari e di alta montagna, e anche come permafrost sottomarino in parti poco profonde dell'oceano Artico e meridionale; il suo spessore varia da meno di un metro a più di un chilometro. Il destino del permafrost è particolarmente importante perché si tratta di un grande serbatoio di carbonio organico sensibile al clima. Si tratta di carbonio accumulato da piante e animali morti nel corso di migliaia di anni. Il carbonio presente nel permafrost è circa il doppio rispetto a quello che si trova attualmente nell'atmosfera terrestre.

Il rapporto attribuisce un grado molto elevato di fiducia alla documentazione di alte temperature registrate a 10-20 metri di profondità nel permafrost in molti siti di monitoraggio nella regione circumpolare dell'emisfero settentrionale. In alcuni luoghi, queste temperature sono di 2-3°C più alte di 30 anni fa. "Durante il decennio tra il 2007 e il 2016, l’aumento delle temperature del permafrost è stato di 0.39°C nei siti di monitoraggio del permafrost di zona continua più fredda, 0.20°C per il permafrost di zona discontinua più caldo, dando una media globale di 0.29°C in tutto il permafrost polare e montano".

Mentre le variazioni della temperatura e delle precipitazioni agiscono come pressioni graduali e continue sul permafrost, esso è anche influenzato da eventi improvvisi, come il fuoco, il cedimento del suolo e l'erosione derivanti dal disgelo di permafrost ricco di ghiaccio (thermokarst). La più diffusa di queste pressioni sono gli incendi, dice il rapporto: "C'è una fiducia elevata nel fatto che le aree bruciate, la frequenza degli incendi e gli anni di fuoco estremo siano ora più frequenti rispetto alla prima metà del secolo scorso, o addirittura agli ultimi 10.000 anni. Il recente riscaldamento climatico è stato collegato all'aumento dell'attività degli incendi nelle regioni delle foreste boreali dell'Alaska e del Canada occidentale. Sulla base delle immagini satellitari, si stima che dal 1997 al 2011 siano stati bruciati 80.000 km2 di superficie boreale all'anno".

Il rapporto ritiene probabile che il permafrost artico in prossimità della superficie possa scomparire, “con importanti conseguenze per il clima globale". La scomparsa del permafrost potrebbe però essere compensate dalla crescita di piante - fertilizzate dalla CO2 in eccesso - e dal conseguente sequestro del nuovo carbonio nella biomassa vegetale".

Figura 6 Area storica (linea nera) e proiezione (linee colorate) del permafrost artico fino al 2100. Le proiezioni mostrano la media multimodello CMIP5 e +/una deviazione standard per RCP2.6 (blu), RCP4.5 (arancione) e RCP8.5 (rosso). Fonte: IPCC: Figura 3.10

Livello del mare

Il quarto capitolo del rapporto tratta dell'innalzamento del livello del mare. L'attuale tasso di aumento è ora "superiore al tasso medio dei due millenni precedenti". E si afferma (con un elevato livello di fiducia) che i cambiamenti climatici causati dall'uomo siano "molto probabilmente" la causa dominante dell’innalzamento del livello del mare dal 1970. Secondo il rapporto, il livello medio globale del mare è aumentato di 1,4 millimetri all'anno dal 1990. Quindi è aumentato a 2,1 millimetri all'anno dal 1970-2015 e poi di 3,6 millimetri all'anno dal 2005-2015, circa 2,5 volte più rapidamente del tasso registrato nel corso del ventesimo secolo.

La recente accelerazione è quasi sicuramente dovuta al crescente scioglimento delle calotte di ghiaccio della Groenlandia e dell'Antartide (il cui scioglimento totale comporterebbe un aumento del livello del mare di 66 metri). In Antartide, il tasso di perdita di ghiaccio è triplicato nel decennio 2007-2016, rispetto a quello precedente. Analogamente, la perdita di ghiaccio dalla Groenlandia è raddoppiata rispetto al 1997-2006.

Questa perdita accelerata di ghiaccio continuerà ad aumentare nel corso del XXI secolo, avverte il rapporto, indipendentemente dal fatto che le emissioni di gas serra siano ridotte o dalla rapidità con cui si riuscirà a farlo. Se le emissioni da oggi alla fine del secolo resteranno basse (RCP2.6: pannello di sinistra nel grafico sottostante), raggiungendo temperature globali ben al di sotto dei 2°C nel 2100, il livello del mare aumenterà ancora dagli attuali 4 millimetri circa all’anno a 4-9 millimetri/anno nel 2100 e 0,43 metri in totale, rispetto alla media di fine secolo, con un intervallo di 0,29-0,59 metri. Nel caso invece di uno scenario con emissioni alte (RCP8.5: pannello di destra), allora il tasso potrebbe raggiungere 10-20 millimetri/anno entro il 2100 e il totale di 0,84 metri con un intervallo di 0,61-1,1 metri. Ma c'è anche il 17% di probabilità che il livello del mare superi questa soglia - e "non si può escludere un aumento di 2 metri".

Figura 7 Variazione prevista del livello medio globale del mare nel XXI secolo (metri), rispetto alla media del 1986-2005. Ogni pannello mostra le proiezioni del rapporto attuale (SROCC, linea e area colorata) relative alle proiezioni effettuate in AR5 (linea nera e area grigia). A sinistra: lo scenario RCP2.6 a basse emissioni. Al centro: Il percorso RCP4.5 a medie emissioni. A destra: Lo scenario RCP8.5 ad altissime emissioni. Fonte: Figura 4.9 del SROCC dell'IPCC

L'aumento delle stime del passato è dovuto a perdite maggiori del previsto da parte dell'Antartico, spiega il rapporto. La questione centrale è in che misura i cambiamenti vedranno il ghiaccio antartico fluire nell'oceano a velocità sempre più elevate mano a mano che il pianeta si riscalda a causa della ipotizzata "instabilità della calotta di ghiaccio marino" e del "collasso della scogliera di ghiaccio marino”. Si tratta beninteso, come sottolinea il rapporto, di scenari “catastrofici” da prendere con le molle, perché affetti da una grande incertezza.

Figura 8 Innalzamento medio globale del livello del mare, in metri, al 2300, nello scenario a basse emissioni (RCP2.6: linee blu, punti e gamma) e nello scenario ad alte emissioni (RCP8.5: rosso). Fonte: Figura 4.2 del SROCC dell'IPCC

Coste e isole

Circa 680 milioni di persone - circa il 10% della popolazione mondiale - vivono in zone costiere a meno di 10 metri sopra il livello del mare, cifra che dovrebbe raggiungere il miliardo entro il 2050, dice il rapporto, innescando grandi migrazioni. "C'è grande accordo sul fatto che i cambiamenti climatici possano modificare drasticamente le dimensioni e la direzione dei flussi migratori, ma abbiamo un basso livello fiducia nelle proiezioni quantitative delle migrazioni in risposta all'innalzamento del livello del mare e agli estremi del livello del mare".

Le comunità costiere più vulnerabili saranno colpite non solo dall'innalzamento del livello medio del mare, ma anche da eventi estremi sempre più gravi come le tempeste, discusse più avanti. Le coste e le isole basse, compresi i piccoli Stati insulari in via di sviluppo, devono già affrontare rischi notevoli a causa dei cambiamenti del clima e del livello del mare fino ad oggi. Si prevede che questi rischi diventeranno "sproporzionatamente più elevati" alla fine di questo secolo, poiché l'accelerazione dell'innalzamento del livello del mare si combina con il riscaldamento e l'acidificazione degli oceani.

"Più dell'80% degli abitanti delle piccole isole vive vicino alla costa, dove le inondazioni e l'erosione costiera già pongono seri problemi". I rischi legati al clima sono anche aggravati da fattori umani, tra cui la concentrazione di persone e attività economiche sulle coste, la "compressione costiera", il degrado degli ecosistemi, i cambiamenti nel trasporto dei sedimenti nei fiumi e una pianificazione insufficiente. Le megalopoli costiere con oltre 10 milioni di abitanti e situate in aree a meno di 10 metri sopra il livello del mare includono New York, Tokyo, Giacarta, Mumbai, Shanghai, Lagos e Il Cairo, come si mostra nella figura sottostante.

Senza adattamento, l'innalzamento del livello del mare, la crescita demografica e la subsidenza potrebbero determinare l’inondazione di 136 principali città costiere con danni da 6 miliardi di dollari all'anno fino a 1.000 miliardi di dollari entro il 2050.

Figura 9 Le isole a bassa quota e le coste particolarmente a rischio di innalzamento del livello del mare regionale entro la fine di questo secolo, se le emissioni sono molto elevate, con sfumature dal blu al rosso. I piccoli stati insulari in via di sviluppo sono evidenziati con cerchi, le megalopoli costiere con quadrati e delta fluviali con diamanti. Fonte: Figura CB9.1 del SROCC dell'IPCC

Le opzioni per rispondere alla minaccia dell'innalzamento dei mari vanno da misure di ingegneria, come le paratie marine, fino alla protezione costiera basata sugli ecosistemi o alla ricollocazione di intere popolazioni. Ma queste potenziali risposte di adattamento hanno dei limiti, anche nello scenario più favorevole con riscaldamento mantenuto al di sotto di 1.5°C: "La protezione costiera è molto efficace nel ridurre i danni attesi nelle regioni urbane densamente abitate, ma inapplicabile alle aree rurali e più povere. Una protezione efficace richiede investimenti dell'ordine di decine o diverse centinaia di miliardi di dollari all'anno a livello globale".

Cambiamenti di salinità, ossigeno e acidità

Le regioni polari non sono le uniche zone in cui il riscaldamento dell'acqua si ripercuote sugli ecosistemi. Gli effetti pervasivi del cambiamento climatico negli oceani si estendono oltre l'aumento della temperatura dell'acqua. I cambiamenti nella salinità, nel contenuto di ossigeno e nell'acidificazione sono tra i cambiamenti che stanno già influenzando le forme di vita che abitano gli oceani e, per estensione, i milioni di persone che dipendono da loro per il cibo e il reddito.

"Entro la fine del secolo, anche in uno scenario di emissioni relativamente basse, è molto probabile che l'oceano si riscaldi da due a quattro volte di più rispetto ai cambiamenti osservati dal 1970". Questa proiezione sale a "da cinque a sette volte di più" in uno scenario di emissioni elevate. Il riscaldamento superficiale combinato con un'impennata del deflusso dell'acqua dolce nello strato superiore degli oceani sta rendendo gli oceani più “stratificati” - il che comporta una minore densità dello strato superficiale dell’acqua e meno mescolanza tra i diversi livelli. Si prevedono nei prossimi decenni cambiamenti differenziati di salinità degli oceani, "con un Atlantico e Mediterraneo sempre più salati, tropicali e subtropical, in contrasto con un Pacifico e un Artico polare sempre più freschi".

"In generale, i futuri aumenti della stratificazione intrappoleranno i nutrienti all'interno degli oceani e ridurranno i livelli di nutrienti nello strato più superficiale dell’oceano". Con l'aumento delle emissioni di CO2 negli oceani, i cambiamenti nella stratificazione, nella ventilazione e nella biogeochimica degli oceani hanno portato probabilmente a una perdita tra lo 0,5-3,3% dell'ossigeno degli strati superiori dell’oceano a partire dal 1970. Si prevede che in futuro cresceranno le aree conosciute come “zone minime di ossigeno”, dove solo organismi appositamente adattati possono sopravvivere. Questi mutamenti chimici rappresentano una minaccia per la risalita delle acque profonde ricche di nutrienti in alcune aree. Il fenomeno comporta, nelle proiezioni dell’IPCC, un calo della "produttività primaria netta" (il tasso a cui le piante e le alghe producono materiali organici per fotosintesi) del 4-11% in uno scenario ad alte emissioni, con una conseguente diminuzione di circa il 15% della massa totale di animali marini entro la fine del secolo e un calo del 25,5% del "potenziale di cattura massimo" della pesca.

Questi effetti sono notevolmente minori in uno scenario di emissioni inferiori, che dovrebbe determinare un calo del 4% circa della biomassa e una riduzione del 9,1% del potenziale massimo di cattura. Critica anche la situazione delle barriere coralline, a cui il rapporto riserva una certa attenzione.

"Quasi tutte le barriere coralline si degradano rispetto allo stato attuale, anche se il riscaldamento globale rimane al di sotto dei 2°C. Questo declino della salute della barriera corallina diminuirà notevolmente i servizi che forniscono alla società, come la fornitura di cibo, la protezione delle coste e il turismo". Il rapporto IPCC sottolinea il ruolo che possono svolgere la conservazione e il ripristino degli ecosistemi blue carbon, come le mangrovie, le paludi salmastre e le praterie di fanerogame marine: "Circa 151 Paesi in tutto il mondo hanno almeno uno di questi ecosistemi costieri di carbonio blu, mentre in 71 paesi sono presenti tutti e tre. Lo stoccaggio del carbonio al di sotto del suolo in habitat marini vegetali può raggiungere le 1.000 tonnellate di carbonio per ettaro, molto superiore alla maggior parte degli ecosistemi terrestri".

Tuttavia, si osserva che "i potenziali benefici climatici di questi ecosistemi possono essere un complemento modesto della riduzione molto rapida delle emissioni di gas serra, ma non un sostituto". È probabile che la portata globale di tali ecosistemi non superi il 2% delle emissioni attuali. La relazione mette inoltre in dubbio la probabilità che "gli interventi umani per migliorare l'assorbimento del carbonio marino" svolgano un ruolo significativo. Ad esempio, la fattibilità della fertilizzazione in mare aperto - una tecnica controversa di ingegneria climatica che comporterebbe l'aggiunta di grandi quantità di nutrienti all'oceano - è descritta come "limitata a trascurabile".

Eventi estremi

Gli eventi estremi includono i cicloni tropicali, le ondate di calore marino e le onde di particolare altezza, alcune delle quali hanno già visto aumentare la frequenza e l'intensità come risultato dei cambiamenti climatici provocati dall'uomo. "Gli impatti di ulteriori cambiamenti nei cicloni tropicali ed extra-tropicali, le ondate di calore marino, gli eventi estremi di El Niño e La Niña e altri supereranno i limiti della resilienza e dell'adattamento degli ecosistemi e delle persone, portando a perdite e danni inevitabili", chiosa l’IPCC.

Il cambiamento climatico in atto ridurrà inevitabilmente il valore delle proprietà costiere, in particolare nei piccoli Stati insulari in via di sviluppo, attraverso "perdite e danni causati dall'innalzamento del livello del mare, dall'aumento dell'intensità delle tempeste, ondate di calore, inondazioni, siccità e altri eventi estremi".

Passando a tipi specifici di eventi estremi, il rapporto dice che c'è una fiducia media che il cambiamento climatico causato dall'uomo abbia già aumentato la quantità di precipitazioni associate ad alcuni cicloni, così come una fiducia bassa nell'aumento della velocità del vento e una fiducia elevata nell'aumento degli eventi estremi associati al livello del mare. Vi sono anche alcune prove che i cicloni più intensi stiano aumentando, ma probabilmente non a causa dell’uomo.

Passando alle ondate di calore marino, dove il calore oceanico estremamente elevato viene sostenuto per giorni o mesi, queste sono "molto probabilmente raddoppiate in frequenza dal 1982" e sono diventate "più durature, più intense e più estese". È molto probabile che l'84-90% delle ondate di calore marino nel periodo 2006-2015 possa essere attribuito al riscaldamento provocato dall'uomo. E queste ondate di calore hanno "avuto un impatto negativo sugli organismi e gli ecosistemi marini in tutti i bacini oceanici negli ultimi due decenni". Anche in condizioni di basse emissioni, le ondate di calore marine potrebbero diventare ancora più frequenti entro la fine del secolo rispetto ai tempi preindustriali. Con emissioni elevate, le ondate di calore potrebbero diventare 50 volte più frequenti.

Secondo il rapporto, uno dei più importanti motori delle ondate di calore marine è l'oscillazione meridionale di El Niño (ENSO). Anche in questo caso, si prevede che il cambiamento climatico "aumenterà probabilmente" la frequenza degli eventi estremi di questo secolo ed è "suscettibile di intensificare i rischi esistenti". "Si prevede che gli eventi estremi di El Niño si verificheranno circa il doppio delle volte sia nell'ambito di RCP2.6 che di RCP8.5 nel XXI secolo rispetto al XX secolo (fiducia media).

Infine, il capitolo esplora il concetto di "eventi composti e impatti a cascata", dove diversi tipi di eventi estremi si combinano e amplificano i rischi. Nonostante le loro significative conseguenze potenziali, questo è un altro esempio di "profonda incertezza", dovuta alla mancanza di dati. "L'insieme della letteratura sui rischi composti e sugli impatti a cascata è in crescita, ma è ancora piuttosto piccolo. Un settore in cui sembra esserci una grave carenza in letteratura è la valutazione degli impatti economici di eventi estremi e irreversibili". Per fare un esempio, il rapporto afferma che le coste stanno "subendo cambiamenti più grandi a seguito di fenomeni multipli, come l'innalzamento del livello del mare e l'intensità dei cicloni. La mancata considerazione della natura multifattoriale di eventi estremi porterà a sottovalutare le probabilità di accadimento (alta fiducia)”. Implicazioni socioeconomiche ".

Le comunità umane dipendono fortemente dall'oceano attraverso i beni e i servizi forniti dagli ecosistemi marini. I valori delle attività economiche basate sugli oceani sono stimati in miliardi di dollari, "generando centinaia di milioni di posti di lavoro" si legge nel quinto capitolo del rapporto speciale IPCC, dove vengono presi in considerazione gli effetti sociali ed economici dei cambiamenti in atto, e che interessano attività cruciali come pesca e turismo. Nel 2010 il reddito lordo della pesca marittima mondiale è stato di circa 150 miliardi di dollari, fornendo posti di lavoro a circa 260 milioni di persone. "Oltre 4,5 miliardi di persone nel mondo ottengono più del 15% del loro apporto proteico dai prodotti di mare, comprese alghe e mammiferi marini, così come pesci e crostacei". Molte delle popolazioni delle isole del Pacifico e in Africa occidentale risiedono in zone "dove anche la produzione alimentare terrestre è a rischio". Il rapporto suggerisce quindi di concentrare gli sforzi nella ricostituzione degli stock ittici sovrasfruttati.

Un altro settore in sofferenza è il turismo oceanico, che coinvolge circa 121 milioni di persone ogni anno e un milione di posti di lavoro. Sbiancamento delle barriere coralline e l’aumentata frequenza e intensità degli eventi estremi avranno riflessi inevitabili su questa forma di turismo, ad esempio nelle isole caraibiche. Ma il rapporto rileva che il turismo, con la sua elevata impronta carbonica, è anche una delle cause della crisi climatica, e che "qualsiasi riduzione dell'intensità di questo settore contribuirebbe a mitigare il cambiamento climatico". L’IPCC affronta anche l'impatto che il cambiamento degli oceani può avere sulle culture, dalle usanze tradizionali basate su prodotti ittici specifici al valore estetico della Grande Barriera Corallina: "Non ci sono sostituzioni efficaci o compensazioni adeguate per i siti perduti. Poiché la sensibilità degli ecosistemi marini, come le barriere coralline e le foreste di kelp, risentono rapidamente dei cambiamenti climatici, questi possono portare alla perdita di parte dell'identità culturale e dei valori delle persone".

 

Fonte: Carbon Brief, "In-depth Q&A: The IPCC's special report on the ocean and cryosphere

 


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