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Sugar tax all’italiana

O la si fa bene o non la si fa. La sugar tax inserita nella legge di bilancio 2020 manca per ora dei requisiti essenziali per renderla efficace in termini di sanità pubblica. Una tassa sulle bevande zuccherate ha un senso, infatti, solo se concepita per contrastare seriamente il fenomeno dell’obesità infantile, non per fare cassa. Per funzionare dovrebbe avere un’aliquota massima 4-5 volte più alta, colpire i prodotti in modo proporzionale al loro contenuto in zucchero. Va inoltre preparata con cura, lasciando il tempo all’industria di riformulare i propri prodotti e all’opinione pubblica di comprenderne i suoi veri scopi di salute. Parola di Franco Sassi, docente all’Imperial College di Londra e fra i promotori della analoga, ma meglio concepita, tassa britannica.

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La tassa che il governo Conte bis si appresta a inserire nella manovra finanziaria riguarda non più snack e merendine bensì le bevande zuccherate (sugar tax), una tassa assolutamente legittima e utile. Dipende però come la si concepisce, perché in campo fiscale il diavolo sta nei dettagli.

Per nulla convinto della riuscita della tassa in versione italiana è Franco Sassi, in forza all’Imperial College di Londra e fra gli esperti più qualificati su queste misure fiscali che in teoria dovrebbero essere concepite con finalità di promozione della sanità pubblica. Sassi è fra i curatori di una monografia dell’Organizzazione mondiale della sanità in materia, la cui pubblicazione è prevista per il 2020. E’ anche colui che segue per conto dell’agenzia Public Health England l’impatto della sugar tax britannica, che in qualche modo ha fatto scuola.

Cosa non convince della sugar tax nostrana? O per girarla in positivo, quali sono i requisiti minimi per far funzionare una tassa di questo genere?

“Il primo requisito è che sia finalizzata a effetti di sanità pubblica. Da questo punto di vista la sugar tax può essere uno strumento utile, anche se non risolutivo, per affrontare l’emergenza dell’obesità infantile, che in Italia è ai vertici europei (secondo le ultime rilevazioni, prevalenza di 15% nelle femmine e 23% nei maschi di 8 anni, con un gradiente positivo Nord-Sud). Il punto però è che nel dibattito italiano manca quasi completamente la consapevolezza della natura sanitaria del provvedimento. Direi anzi che manca a monte l’intenzione del governo di intenderla in questo modo”. In effetti, la tassa è nata da un’idea del ministro del MIUR Lorenzo Fioramonti per rimpinguare le casse della scuola, ma di lotta all’obesità infantile non si è sentito parlare un granché. “Questo è desolante” rincara Sassi. “Purtroppo in Italia manca una consapevolezza diffusa della gravità del problema obesità. La sugar tax è uno degli strumenti che si possono utilizzare, non passa mese che un nuovo Paese non la adotti. Ma”, e qui viene il secondo requisito per il successo di questa misura, “una tassa di questo genere deve avere un’aliquota significativa per poter avere effetto sui consumi, altrimenti è inutile, anzi dannosa perché allontana la gente dal vero significato della tassa”. E’ il appunto il rischio che corre la sugar tax italiana.

A questo proposito Sassi ripercorre la storia della Sugar Tax. Introdotta nel 2012 in Francia, la sugar tax era molto bassa e infatti non ha funzionato, almeno in termini di riduzione dei consumi di bibite. Quindi la Francia ha alzato l’aliquota. Nel 2016 anche il Regno Unito ha annunciato la “Soft Drink Industry Levy (SDIL)”, introdotta nel 2018.

Questo è un punto importante. “Una tassa del genere non si introduce da un giorno con l’altro. L’opinione pubblica, e l’industria, vanno preparate” continua Sassi. “In particolare bisogna consentire all’industria di riformulare i prodotti esistenti con meno zucchero. Inoltre la tassa britannica è - intelligentemente - presentata non come una tassa sui consumatori ma sull’industria (anche se saranno sempre i consumatori a pagarne l’onere), e soprattutto graduata in base al contenuto di zucchero, bassa per le bevande poco zuccherate, alta per quelle molto dolci”. L’esperimento britannico ha avuto successo: i consumi di soft drink sono diminuiti di un terzo (si veda anche Codignola sul Fatto Alimentare), e lo zucchero contenuto in molte bevande è stato ridotto, mentre è presto per osservare l’effetto su peso e malattie conseguenti. Il successo ha spinto altri paesi ad adottarla con queste caratteristiche. “E’ il caso, ad esempio, del Portogallo. In Messico, una tassa sulle bevande zuccherate e sugli snack esiste dal 2013, e diverse valutazioni hanno dimostrato, tra l’altro, la sostituzione delle bevande dolci con acqua”. Quello della sostituzione è un altro punto molto delicato quando si parla di tasse su cibi e bevande. Se non viene progettata con finalità di promozione della salute, la tassa su una categoria di prodotti può spingere la popolazione a sostituire quei prodotti con altri, non necessariamente più salubri. Questo avviene più facilmente con le tasse su prodotti ad elevato contenuto calorico (spesso definita fat tax) che riguarda alimenti molto eterogenei come snack e merendine di cui è molto difficile controllare con che cosa vengono rimpiazzati. Paesi come Ungheria e Messico ci hanno provato con risultati positivi ma queste tasse sono complesse” continua Sassi. Diverso il caso della tassa sulle bevande, più facilmente controllabili.

Una sugar tax con aliquota alta potrebbe essere criticata per il suo carattere socialmente discriminatorio. Questo tipo di tasse sui consumi sono infatti regressive, nel senso che colpiscono maggiormente le classi più disagiate, che si alimentano in modo meno salubre. “L’obiezione in realtà non regge perché si è stimato che anche una tassa relativamente alta come quella britannica costa circa 8 sterline in più all’anno per le famiglie più povere rispetto a quelle più ricche. Un costo tutto sommato sopportabile se raffrontato ai benefici di salute che provoca” commenta Sassi. (Si veda a questo proposito il paper della rivista The Lancet co-firmato da Sassi).

“Piuttosto è bene dire che non dobbiamo aspettarci miracoli da una semplice tassa, se non accompagnati da una strategia più ampia, fatta di incentivi al consumo di alimenti più sani (misura però difficile da attuare) o riduzione dell’IVA su alcuni prodotti. Ancora più risolutivo sarebbe cercare di cambiare l’ambiente in cui si determinano le scelte alimentari (food environment), come le pubblicità, l’informazione, il contenuto delle etichette, la dislocazione della grande distribuzione e la varietà di prodotti disponibile nei negozi (il progetto europeo “Science and technology in obesity policy- STOP”, ad esempio, ha mostrato una correlazione fra fast food vicino alle scuole e prevalenza dell’obesità infantile). Ma ciò fa parte di una consapevole politica sulla prevenzione primaria da preparare con cura e non senza mettere nel conto poderosi ostacoli economici e politici.

La sugar tax italiana non è nulla di tutto questo. Essa si preannuncia in realtà di difficile accettazione pubblica per il poco tempo di preparazione, è minata nella sua efficacia da un’aliquota irrisoria (4-5 volte inferiore allo standard britannico). A questo si aggiunga la stranezza di riservarla a scopi completamente diversi (la scuola), laddove normalmente si suggerisce di indirizzarne parte dei proventi, come nel caso britannico, a finalità almeno vagamente coerenti (soft earmarking) come l’attività fisica dei ragazzi.

Insomma, la sugar tax italiana rischia di lasciare l’amaro in bocca, e di essere strumentalizzata a fini politici, come la facile campagna anti-tasse di Matteo Renzi, che già durante il suo governo si era distinto per una discutibile opposizione alle nuove linee guida sul consumo di zucchero della Organizzazione mondiale della sanità.

 

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