Nel 2016 sono stati effettuati nel mondo oltre 135.000 trapianti, il 7,25% in più rispetto al 2015, e i primi dati del 2017 parlano di oltre 139.000 interventi. Una crescita positiva, ma ancora insufficiente, perché sono molte di più le persone in attesa di un trapianto. Quest'ultimo, inoltre, deve ancora affrontare alcuni seri ostacoli, tra cui i più importanti sono la perdita di funzione dell’organo trapiantato nel giro di alcuni anni e gli effetti avversi dell’immunosoppressione. Stato dell'arte degli studi sui trapianti e prospettive future sono al centro del 13° Simposio Scientifico Ri.MED, “Organ Insufficiency: change it or fix it" che si svolge oggi a Palermo. Crediti immagine: Vidal Balielo Jr./ Pexels. Licenza: Pexel License
Nel 2016 sono stati effettuati nel mondo oltre 135.000 trapianti, 15,5 ogni ora, secondo i dati forniti dal Global Observatory on Donation and Transplantation (GODT). Il 7,25% in più rispetto al 2015. E i primi dati del 2017 parlano di oltre 139.000 interventi.
Questa crescita è sicuramente un dato molto positivo perché il trapianto di tessuti e organi è spesso il trattamento di prima scelta per i pazienti che hanno un organo che funziona in modo insufficiente. Tuttavia, sono sicuramente di più le persone che aspettano di essere operate, se si calcola che in Europa erano oltre 14.000 al primo gennaio 2019 (secondo Eurotransplant International Foundation) e negli Stati Uniti 113.000 (secondo il sito organdonor.gov che fa capo al governo americano).
Il fatto è che non ci sono organi per tutti. Inoltre, il trapianto, nonostante gli enormi passi avanti, deve ancora affrontare alcuni seri ostacoli: la perdita di funzione dell’organo trapiantato nel giro di alcuni anni e gli effetti avversi dell’immunosoppressione, per citare i più importanti.
Molti ricercatori in tutto il mondo stanno cercando strategie per ovviare a questi problemi. Lo stato dell’arte su questi studi è al centro del 13° Simposio Scientifico Ri.MED, “Organ Insufficiency: change it or fix it" che si svolge oggi a Palermo. A organizzarlo è la Fondazione Ri.MED, che promuove, sostiene e conduce progetti di ricerca biomedica e biotecnologica, con un’attenzione particolare al trasferimento di risultati innovativi nella pratica clinica, e che costituisce un polo scientifico fondamentale per il sud del nostro Paese.
Il primo problema, dunque, è la mancanza di organi. La medicina rigenerativa però sta facendo passi da gigante: tra ingegneria dei tessuti e stampa 3D siamo già con un piede nel futuro. L’idea di fondo è quella di rimpiazzare i tessuti danneggiati favorendo la loro rigenerazione o addirittura sostituendoli con tessuti prodotti in laboratorio.
Oggi la ricerca procede su tre binari, spiega Riccardo Gottardi, Principal Investigator Ri.MED e ricercatore presso il Bioengineering and Biomaterials Lab, Children’s Hospital di Philadelphia: «Il primo riguarda l’immunità. Si è scoperto infatti che il nostro sistema immunitario ha un ruolo importante nello sviluppo dei tessuti ingegnerizzati e nella loro integrazione nell’organismo e questo si può sfruttare per favorire la rigenerazione tissutale. Il secondo è quello della stampa 3D, una tecnologia che permette di replicare in tempi brevi e in maniera fedele la struttura dei tessuti».
Oggi non siamo ancora in grado di stampare un organo come un rene o un pancreas per impiantarlo e probabilmente ci vorranno ancora vent’anni di ricerca, tuttavia negli ultimi cinque anni sono stati fatti molti progressi, ad esempio sui grandi tessuti vascolarizzati e sulle ossa. È proprio di questi giorni la notizia della ricostruzione di un orecchio di un bambino avvalendosi di questa tecnologia al Meyer di Firenze, mentre Lorenzo Moroni, ospite al convegno, racconta come alla Maastricht University sta lavorando con il suo gruppo alla creazione di una cartilagine per le articolazioni.
«Il terzo fronte – prosegue Gottardi - è quello che si chiama Organ on Chip. Si tratta di ricreare in vitro un sistema che replica la fisiologia umana in modo da predire con maggiore precisione gli effetti dei farmaci sull’essere umano. In una fase più avanzata si può pensare a un modello specifico per gruppi di persone con caratteristiche simili o per ogni singolo individuo, nella direzione della medicina personalizzata».
Per quanto riguarda i problemi che sorgono dopo il trapianto, molti ricercatori stanno lavorando per allungare la sopravvivenza degli organi e diminuire l’uso dei farmaci immunosoppressori. «Attualmente, la metà degli organi trapiantati dura meno di 10-12 anni e questo non è cambiato in più di trent’anni. Non possiamo semplicemente continuare ad aumentare l'immunosoppressione per prevenire il rigetto del trapianto perché i farmaci immunosoppressori possono avere effetti indesiderati importanti per il ricevente”, sottolinea Fadi Lakkis, membro del comitato scientifico Ri.MED e direttore scientifico allo Starzl Transplantation Institute dell’Università di Pittsburgh.
Ecco allora che si cercano altre strategie come la perfusione meccanica dell’organo per migliorarne la conservazione o come l’utilizzo di terapie cellulari al momento del trapianto. Ad esempio l'uso di cellule immunitarie regolatorie che possono essere infuse al momento del trapianto per impedire al sistema immunitario del paziente di reagire in modo eccessivo all'innesto, consentendo così di utilizzare una minore immunosoppressione.
In questa direzione va il lavoro portato avanti da una giovane ricercatrice palermitana, Ester Badami, dal 2015 Senior Scientist in Immunology della Fondazione Ri.MED. Grazie alla collaborazione con l’Università di Pittsburgh, Badami sta sperimentando una terapia cellulare al momento del trapianto che potrebbe rendere superflua la terapia immunosoppressiva che, altrimenti, accompagnerebbe il trapiantato per tutta la vita con rischi di eventi indesiderati anche gravi.