Alla ricerca di una terapia contro SARS-CoV-2, il nuovo coronavirus, un team di ricercatori capitanato da Alberto Mantovani lancia una sfida: sfruttare l'immunità innata, la prima - e più aspecifica - linea di difesa del nostro organismo. Una proteina, in particolare, è sotto la lente dei ricercatori. Si tratta della pentrassina 3, scoperta dallo stesso Mantovani, che si è vista essere attiva contro altri coronavirus.
L'articolo è stato aggiornato alle ore 16:45 del giorno 19/02/2020
Sfruttare l’immunità innata per stanare e magari colpire il virus della nuova epidemia Covid-19 che si sta diffondendo anche fuori dai confini cinesi è la nuova sfida lanciata da Alberto Mantovani, insieme a Cecilia Garlanda di Humanitas University, Elisa Vicenzi e Massimo Clementi dell’Università Vita-Salute San Raffaele di Milano, con la collaborazione dell’Istituto per le Malattie Infettive “Lazzaro Spallanzani” di Roma e il finanziamento di Dolce&Gabbana.
L’immunità innata è la prima linea di difesa dell’organismo da virus e batteri, ma anche dai tumori e altre minacce. “Diciamo che l’immunità innata costituisce il 95% delle nostre difese, mentre l’altra forma di immunità, quella adattiva, rappresenta il 5%” spiega la virologa Elisa Vicenzi. “Poiché la seconda si attiva in modo specifico ci mette più tempo (anche 2-3 settimane nel caso della produzione di anticorpi), quella innata interviene subito sebbene in modo aspecifico, attivandosi anche prima che l’organismo venga invaso dal virus”. Contrariamente all’immunità innata, quella adattiva è non solo specifica, ma “si ricorda” del patogeno e - a patto che non muti - conferisce un’immunità duratura (principio alla base della vaccinazione). Tuttavia, poter contare su una tempestiva prima linea di difesa può fare la differenza, soprattutto per un virus a RNA che muta con una certa facilità e che quindi può adattarsi aumentando con il tempo la sua efficienza di trasmissione evadendo la risposta anticorpale specifica.
La ricerca sull'immunità innata
L’ipotesi del team coordinato da Mantovani è di scandagliare il lato umorale dell'immunità innata per studiare il comportamento delle molecole presenti in presenza di un'aggressione virale. Stiamo parlando delle famiglia delle pentrassine (in particolare della pentrassina 3 - PTX-3 -, scoperta più di un decennio fa dallo stesso Mantovani che ne ha rilevato potenzialità antitumorali e antivirali), ma anche le ficoline le proteine leganti il mannosio, le SAP e il sistema del complemento. Spiega Alberto Mantovani: "Per un verso o per l'altro questi componenti dell'immunità innata si sono dimostrati importanti nel contrastare i coronavirus. Ora si tratta di verificare se si legano alla nuova variante patogena per l’uomo e se sono in grado di cambiare il corso dell'infezione”.
Per far questo, i ricercatori quantificheranno i livelli di queste molecole (come la PTX3) nel siero dei tre pazienti di Covid-19 curati allo Spallanzani, per misurare la loro presenza e persistenza nel tempo nelle diverse fasi dell’infezione. La prima fase dello studio, quindi, è puramente osservazionale. “Se, come speriamo, si osserverà un effetto di questo ed eventuali altre componenti dell’immunità innata sul nuovo coronavirus, si potrebbero aprire prospettive interessanti sia per la diagnosi che per il trattamento dell’infezione”.
C'è ovviamente ancora molta cautela sulla ricerca, ma Alberto Mantovani non esclude che questa possa indicare la strada per nuove cure. "D'altra parte, per alcune di queste molecole si intravede già un posibile futuro terapeutico, come le proteine SAP che hanno superato la fase 2 della sperimentazione per un loro impiego nella fibrosi polmonare. La ricerca che stiamo conducendo sul nuovo coronavirus potrebbe quindi suggerire il reimpiego di alcuni farmaci che al momento hanno altri bersagli".
Un'altra ricaduta importante della ricerca riguarda la possibilità di individuare nuovi biomarcatori della malattia. "Nel caso di PXT3 c'è già un diluvio di dati che mostra come in alcune infezioni queste molecole sono indicatori della gravità della malattia" prosegue Mantovani. "Io mi auguro che non si debba affrontare questa epidemia in Italia, ma non escludiamo che un domani possa partire anche un ramo cinese della ricerca".
Una lotta contro il tempo
Rispetto al Coronavirus che provocò l’outbreak di SARS nel 2003, la variante attuale sembra trasmettersi anche durante la fase di sintomi leggeri, o addirittura nella fase asintomatica. “Infatti solo il 20% dei casi di Covid-19 sono stati ospedalizzati” spiega Vicenzi. “Il che rende più complesso confinare la malattia. C’è da dire però, che rispetto all’epidemia del 2003 sono molto aumentate le nostre capacità di individuare i casi anche attraverso il monitoraggio della febbre”. Da questo punto di vista le varie misure messe in campo, dalle restrizioni dei viaggi alla quarantena, sono al momento le uniche strade possibili per cercare di limitare l’epidemia. In attesa che le centinaia di trial in corso in Cina e altrove riescano a mettere a punto un vaccino o nuove terapie.
Come spiega un gruppo di ricercatori anglo-cinesi su Lancet, “le future sperimentazioni su animali e gli studi clinici dovrebbero concentrarsi sulla valutazione dell'efficacia e della sicurezza dei farmaci antivirali più promettenti, di anticorpi monoclonali e policlonali e delle terapie dirette contro le risposte immunopatologiche dell'ospite”.
Ma i tempi di sviluppo di nuovi farmaci e vaccini variano da pochi mesi a più di un anno.
“In questa lotta contro il tempo, possiamo anche sperare che il virus sviluppi adattamenti negativi, come una attenuazione del legame ai recettori polmonari e una diminuita capacità di trasmissione, proprio come è successo con il coronavirus della SARS” spiega Vicenzi. Cioè che il virus sparisca del tutto dalla popolazione umana.
Oppure, come ipotizza l’Organizzazione Mondiale della Sanità, nelle successive ondate epidemiche il virus diventi endemico ma induca una immunità diffusa (“di gregge”) nella popolazione mondiale, diventando di fatto il quinto coronavirus responsabile dei comuni raffreddori.