Un articolo pubblicato la scorsa settimana su Il Manifesto sostiene che il salto di specie del nuovo coronavirus sia imputabile agli organismi geneticamente modificati, o transgenici. Una teoria che non ha alcuna base scientifica e che richiama, ancora una volta, alla necessità di verificare le fonti.
Crediti immagine: Frederick Burr Opper/Wikimedia Commons. Licenza: dominio pubblico
Il «passaggio di specie» di un organismo patogeno dall’animale all’essere umano, che spiega la diffusione del coronavirus SARS-CoV-2, sarebbe colpa, tra le altre, dell’introduzione nell’ecosistema di organismi geneticamente modificati (Ogm). Questa la fantasiosa teoria elaborata in un articolo che sta facendo il giro dei social, nell’incredulità degli esperti: «Il virus degli Ogm nel “salto di specie”» pubblicato il giovedì 12 marzo su ilmanifesto.it, a firma di Francesco Bilotta.
L’autore ci informa che per spiegare i salti di specie compiuti dai virus è necessario prendere in considerazione «l’inquinamento genetico del pianeta causato dalla presenza di centinaia di organismi geneticamente modificati». E conclude dicendo che «gli organismi geneticamente modificati sono, di fatto, nuove specie che vengono inserite negli ecosistemi e che possono compromettere il loro l’equilibrio. Questa contaminazione genetica – secondo l’autore – pone seri problemi di sicurezza ambientale e contribuisce a determinare quegli squilibri che favoriscono il salto di specie».
Numerosissime, negli ultimi venti anni, le campagne di disinformazione scientifica: dal protocollo Di Bella, alle staminali di Vannoni, alla Xylella. L’articolo in questione mostra però che tutto è ancora possibile, non in natura, ma nella propaganda antiscientifica: la bufala dell’Ogm dietro il salto di specie e al SARS-CoV-2 potrebbe essere di tutte la più grande sino a ora, per fantasia e complottismo (ingrediente coerente e decisivo nella maggioranza delle fake news).
Dunque, cerchiamo di smontarla. Non per protagonismo, ma per evitare, come sempre accade quando diventano virali certe fandonie, di buttare alle ortiche centinaia di conquiste in campo tecnologico e scientifico che hanno allungato la qualità di vita dell’uomo e favorito il progresso.
Sono conosciute più di 200 specie di virus che infettano l’uomo. Più di due terzi infettano anche altri vertebrati (mammiferi o, in misura molto minore, uccelli). Il «passaggio di specie», che è sempre avvenuto, da quando esiste la vita, è favorito principalmente da due fattori: dal fatto che le «chiavi» per entrare nelle cellule – i recettori cellulari – da parte, per esempio, di un patogeno, sono spesso molto simili in specie diverse, e dalla prolungata vicinanza fra uomini e gli animali che portano il virus.
È chiaro da tempo che l’affollamento del pianeta e il naturale desiderio di spostarsi non può che favorire questo processo, mentre una più attenta gestione degli allevamenti e della commercializzazione di alimenti lo può ostacolare. Cosa c’entri questo con il fatto che sia coltivata una pianta che porta nel suo genoma un gene proveniente da un’altra specie o una nuova copia di un suo gene è invece molto chiaro: non c’entra nulla ed è un’altra incredibile bufala, che ha solo il potere di spaventare la gente. A questo punto ci si domanda se l’autore conosca la differenza fra un gene e un virus e sappia cosa sia una pianta.
Non esiste alcuna base scientifica, o dato sperimentale in tutta la storia documentata della scienza, che permetta di ipotizzare un ruolo delle piante modificate in laboratorio nei salti di specie dei virus animali. L’assurdità scientifica di queste ipotesi non dà nessun aiuto a cercare di limitare l’epidemia in atto, e anzi procura potenzialmente allarmi - come non ne avessimo abbastanza, in questo delicato momento.
Queste precisazioni sono quindi dovute al cittadino, non sono un attacco ai professionisti dell’informazione ma anzi un invito a seguire una delle regole fondamentali che accomunano proprio le nostre professioni, quella di giornalista e quella di scienziato, e cioè: la verifica delle fonti. Se qualcuno vi dicesse che la birra fa ricrescere i capelli correremmo pubblicarlo (l’uno sul quotidiano e l’altro sulla rivista scientifica) o andremmo prima a verificare chi lo ha detto? Il punto quindi è: prendere le distanze da ciò che non è verificabile e basare le affermazioni su fonti che possono essere verificate.