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Rino Rappuoli: per il vaccino serve almeno un anno

Tempo di lettura: 6 mins

Parliamo di vaccini con Rino Rappuoli, appena tornato dagli Stati Uniti. Rappuoli, ora in Glaxo SmithKline, è fra i massimi esperti al mondo di vaccini. A lui si deve la messa a punto del vaccino contro il meningococco, e i primi vaccini a RNA. Ecco cosa ci dice sulle ricerche in corso. E sui tempi.

Tutti si chiedono quanto ci vorrà per mettere a punto il vaccino contro il nuovo coronavirus. Qual è la sua previsione?

Oggi abbiamo tecnologie spettacolari che ci permettono di realizzare nuovi vaccini in laboratorio in tempi brevissimi. Avendo la sequenza del virus si può fare un gene sintetico e un vaccino sperimentale in una settimana. Quello che è difficile e più lungo è poi trasformare questi vaccini sperimentali in vaccini approvati che possano essere utilizzati nell’uomo, cosa che richiede prove cliniche, industrializzazione, uso di adiuvanti. In tempi normali ci possono volere quasi 20 anni, come è successo a me quando ho fatto il vaccino per il meningococco bis. Quando invece siamo in emergenza si tagliano i tempi riducendo anche le prove cliniche. Per Ebola ci sono voluti 5 anni, dal 2014 al 2019. Adesso possiamo ulteriormente accelerare, ma non possiamo metterci meno di un anno. Diciamo che fra uno-tre anni avremo molti vaccini per coronavirus.

Quindi mi sta dicendo che questo virus non uscirà di scena molto presto?

Essendo questo virus già diffuso in un centinaio di paesi, pensare che fra sei mesi sia già scomparso è un’utopia. Magari succede, ma non credo.

Ma essendo un virus a RNA, come quello dell’influenza, che quindi tende a mutare più facilmente, sarà necessario sviluppare vaccini sempre diversi?

Difficile rispondere adesso. Dalle osservazioni compiute finora, questo virus muta ma non come quello dell’influenza. Quindi gli scenari sono due: o il virus non muta abbastanza e si può usare sempre lo stesso vaccino, oppure se muta è possibile con le tecnologie attuali adattare abbastanza rapidamente i vaccini alle mutazioni, come facciamo con l’influenza.

Che vantaggi ci danno oggi le nuove tecnologie per la produzione dei vaccini?

Una volta per fare il vaccino per l’influenza bisognava isolare il virus, renderlo innocuo, inviarlo ai produttori (e già passavano due mesi). A quel punto ci volevano altri 8-10 mesi per produrlo. Oggi non serve più isolare il virus: il 7 gennaio i cinesi mettono su internet la sequenza del coronavirus, il giorno stesso la sequenza viene scaricata da molti laboratori di ricerca. Il giorno dopo sintetizzano il gene che esprime la proteina di superficie virale utile a fare il vaccino. Siamo entrati nell’epoca digitale dello sviluppo dei vaccini.

Si usano ancora le uova per fare i vaccini?

Per l’influenza e altri vaccini si usano ancora, ma sempre meno.

Si possono usare anche le piante…

Ci sono vari gruppi che stanno sviluppando vaccini in piante di tabacco anziché nei fermentatori (uno importante in Canada).

Fra i vari vaccini in studio qual è il più vicino alla realizzazione?

Probabilmente il primo che questa settimana comincerà a essere sottoposto a prove cliniche è un vaccino a RNA, cioè un vaccino sintetico che di fatto consiste nel recapitare nell’organismo solo l’informazione, il messaggero, che poi le nostre cellule utilizzano per fare il vaccino. Questi vaccini devono essere formulati con nanoparticelle lipidiche.

Qual è l’azienda più avanti in questa corsa?

Mi risulta una ditta di Boston, Moderna, che ha utilizzata una sequenza disegnata dagli National Institutes of Health. Dovrebbero entrare nelle prove cliniche oggi (15 marzo, ndr.).

Lei sta lavorando a qualche vaccino contro il coronavirus?

Sì ma non direttamente sul vaccino. Mi spiego. Un tempo, quando si sviluppavano i vaccini per SARS, poi per l’influenza suina H1N1, poi ancora per l’influenza aviaria H7N9, noi eravamo fra i pochi ad avere le tecnologie per produrre rapidamente questi vaccini. Ora, con la rivoluzione tecnologica, tutti li possono produrre rapidamente, almeno come prototipi di laboratorio. Il contributo che possiamo dare noi è invece quello di mettere a disposizione gli adiuvanti (che potenziano l’effetto del vaccino, ndr.) specifici per coronavirus, che invece richiedono molto tempo per essere messi a punto e registrati. Noi stiamo lavorando con diversi gruppi, in Cina, Australia e altrove, per collaborare alla messa a punto di diversi vaccini, contribuendo per la parte adiuvanti.

Quali altri contributi può dare oggi la ricerca per fermare l’epidemia?

Bisogna lavorare molto sulla parte diagnostica. Oggi ci vogliono sei ore per avere i risultati di un tampone ad esempio. Con la ricerca possiamo ridurre questo tempo a 15 minuti. Poi i farmaci, ovviamente, ma per ora non ne esistono di specifici. Quindi se riusciamo a prendere tempo con le misure di contenimento, fra un anno saremo preparati per affrontare questa infezione.

Cosa ne pensa dell’anticorpo monoclonale messo a punto da una compagnia olandese che i giornali di oggi hanno annunciato come la “cura di Covid-19”?

Hanno fatto molto rumore ma non sono convinto che sia la cura; hanno reimpiegato l’anticorpo contro la SARS, ma da quanto hanno pubblicato non mi sembra che sia un anticorpo ad alta affinità adatto alla terapia. Certamente però la via degli anticorpi monoclonali è da sviluppare, in quanto fungerebbe sia da prevenzione sia da terapia. Anche per Ebola è stato il primo farmaco utilizzato. Se ce ne fosse uno adatto anche per Covid potrebbe risparmiare a molta gente la terapia intensiva.

In attesa di farmaci o vaccini si rimedia con il distanziamento sociale. L’Italia chiude tutto, altri paesi europei si stanno disponendo a fare lo stesso. La Gran Bretagna sembra indicare una strada un po’ diversa, confidando anche su una immunità di comunità. Cosa ne pensa?

Non mi sembra una cosa ragionevole, sono d’accordo con Alberto Mantovani che dice che è una proposta irresponsabile. I cinesi hanno dimostrato che con misure severe si può contenere la diffusione del virus. Mi sembra quella la strada da seguire per cercare di diluire e possibilmente eliminare la circolazione del virus nel nostro paese.

Ma può questo virus che già circola nella comunità sviluppare immunità?

E’ troppo presto per dirlo perché conosciamo il virus solo da due mesi. Ci aspettiamo che questo virus, come gli altri, induca una immunità che riesca a ridurre ulteriori infezioni. Dai dati che abbiamo dalla SARS e dalla MERS, ci possiamo attendere che i vaccini funzionino bene, e che anche l’immunità naturale riesca a proteggere.

Visto che è tornato oggi dagli Stati Uniti che impressioni ha della risposta americana alla pandemia?

Penso che sia successa una cosa molto importante: mi riferisco alla diatriba fra la scienza e uno… non so come chiamarlo… come Trump. Il presidente aveva minimizzato tutto, dipingendo peraltro questo virus come “forestiero”, visto che veniva dalla Cina. Per un po’ aveva messo a tacere tutti quelli che non la pensavano come lui, inclusi scienziati come Anthony Fauci, direttore dell’Istituto delle malattie infettive dei National Institutes of Health e consigliere scientifico della Casa Bianca. Poi però Fauci, pressato dall'emergenza, ha rotto le consegne e ha parlato chiaro, convincendo anche Trump a cambiare rotta. Mi sembra un fatto molto importante che da noi forse è passato un po’ sotto silenzio, ma è la prima volta che uno scienziato tiene testa a Trump, e che la ricerca impone le sue ragioni alla politica. Peraltro Tony Fauci ha origini italiane, genovesi per la precisione.

Sa l’italiano?

Non lo so, quando ci vediamo parliamo sempre in inglese…

 


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