fbpx Modellistica dell’epidemia di Covid-19. Possiamo predire l’andamento dell’epidemia sulla base dei dati attuali? | Scienza in rete

Possiamo predire l’andamento dell’epidemia sulla base dei dati attuali?

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Al momento non disponiamo di un accurato tasso di letalità, né del numero esatto dei contagi, nè di una diagnosi certa per i decessi causati da COVID-19. Queste condizioni rendono arduo, se non impossibile, creare un modello predittivo dell'epidemia. Poter stimare con più precisione il numero dei positivi attraverso più test sembra una strategia percorribile, ma non priva di insidie e limiti. Perché sia efficace, l'allargamento del numero di tamponi a soggetti asintomatici dovrebbe essere applicato in modo epidemiologicamente rilevante sul territorio nazionale e dovrebbe prevedere il coinvolgimento di epidemiologi e modellisti in modo che possano raccogliere informazioni utili sull’andamento dell’epidemia.

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Ogni giorno seguiamo i numeri che ci fornisce la Protezione civile (nuove infezioni, nuove guarigioni, nuovi decessi) dopodiché dividiamo il numero dei deceduti per quello del numero totale delle infezioni e otteniamo un indice di letalità (Case fatality rate, CFR”) e lo compariamo a quello di altre nazioni. Per esempio, se lo facciamo oggi (sui dati di ieri) risulta che il CFR italiano è 2.978/35.713 = 0,083 (8,3%), mentre, per esempio, quello della Corea del Sud è 91/8565 = 0,010 (1%), molto più basso…giusto?

No, sbagliato! Sostiene John Edmunds, del Centro di Modelli Matematici delle Malattie Infettive della London School of Hygiene & Tropical Medicine. Nel calcolo di un modello predittivo accurato dovrebbero entrare parametri come la durata del periodo d’incubazione pre-clinico, la velocità di propagazione del virus da un individuo infettato nella comunità (tenendo conto della variable della densità di popolazione; per esempio è risultato che a Wuhan, dove è esploso il primo focolaio epidemico, l’infezione si sia diffusa soprattutto all’interno delle famiglie), fino, appunto al citato CFR. Edmunds considera questi dati – inclusi quelli diffusi il 4 marzo 2020 dal direttore generale dell’OMS e discussi in un articolo precedente – “Outbreaks analytics”, ma non vera modellistica. Il probabile, autentico CFR, sembra approssimare l’1%, secondo vari esperti al mondo, riporta Edmunds.

Avere un accurato CFR sarebbe molto importante per poter modellizzare accuratamente la pandemia e le epidemie locali (che potrebbero suggerire l’esistenza d’importanti variabili su base genetica o ambientale). Il ragionamento di Edmunds prosegue partendo dall’assunzione di un CFR di 1% e di un tempo medio dalla diagnosi alla morte di 15 giorni, per cui un nuovo decesso in un determinato giorno in una certa area geografica (per esempio in Italia) indicherebbe che mediamente vi sono altre 99 persone che si sono infettate 15 giorni prima. Tenendo conto del tempo di duplicazione del numero di casi, approssimato a 5 giorni – continua Edmunds citando proprio il caso dell’Italia – si arriva alla predizione che in 15 giorni si passerebbe a 800 casi d’infezione. Se queste assunzioni fossero corrette, ogni morte causata dall’infezione da SARS-CoV-2 indicherebbe un serbatoio di circa 800 infezioni per la maggior parte non diagnosticate e che solo in parte, circa 10-20%, arriveranno all’attenzione clinica.

I due “piedi di argilla” del gigante (la pandemia) in questo caso sono rappresentati dal numeratore e dal denominatore della semplice operazione citata all’inizio: il numero di decessi e il numero di persone infettate. Vediamo perché.

Il numero di decessi. Non è semplice diagnosticare con ragionevole accuratezza la causa mortis in pazienti spesso anziani o molto anziani e affetti da altre patologie rilevanti (in primis, patologie cardiovascolari e diabete). L’attribuzione o meno all’infezione da SARS-CoV-2 è responsabilità dell’Istituto superiore di sanità sulla base dei dati clinici precedenti al decesso. Tuttavia, non esiste un’unica definizione internazionale, per esempio europea, per conteggiare o meno il decesso in conto all’infezione, anche perché le altre nazioni europee stanno vivendo adesso le fasi epidemiche inizialmente viste in Italia, come sottolineato recentemente anche dalla nota virologa Ilaria Capua e da Danilo Staino sul Corriere della Sera. E’ quindi possibile che variazioni nel numero di decessi causati da (o associati a) COVID-19 siano influenzate da ciò, e abbiamo appena visto che l’accuratezza di questo parametro sarebbe molto importante per i modellisti matematici (oltre che per un’informazione corretta alla popolazione in generale).

Il numero di infezioni. L’italia, la regione Veneto in particolare, nella fase iniziale dell’epidemia ha eseguito molti tamponi diagnostici (per chiarezza: un tampone è una specie di lungo cotton fioc che viene passato nelle cavità interne della bocca e del naso per poi essere soggetto ad amplificazione molecolare via PCR con kit standardizzati) anche in persone asintomatiche venute a contatto con persone infettate. Questo ha avuto la conseguenza di aumentare parecchio il denominatore iniziale con la conseguenza di “diluire” il valore del rapporto del numeratore (numero di decessi). Da un certo momento in poi, anche per carenza di tamponi, è stato deciso di eseguire i tamponi diagnostici solo in pazienti ospedalizzati (quindi con patologia già severa), il che ha ristretto moltissimo il denominatore facendo lievitare, automaticamente, il valore del rapporto del numeratore come riportato di oggi (8,3%).

E’ di pochi giorni fa l’annuncio del governatore del Veneto di tornare ad una politica di aumento del numero di tamponi da eseguirsi anche in persone non ospedalizzate, grazie a un finanziamento privato, per meglio definire lo stato dell’infezione nella regione. Questa scelta è stata supportata entusiasticamente da un recente articolo del grande immunologo clinico Sergio Romagnani (il “padre” del ruolo dei Th1/Th2 nella patologia umana). Al riguardo desidero ricordare che il rilevamento del solo tampone permette di “fotografare” chi è infettato in un determinato momento, ma, pensando soprattutto agli operatori sanitari ad alto rischio, non c’informa sull’eventuale infezione nei giorni successivi, per cui li test andrebbe ripetuto almeno su base settimanale con grande sovraccarico dei laboratori di diagnostica, oltre ai costi specifici. Ciò che servirebbe veramente per ottenere una fotografia corretta dello stato dell’infezione è un saggio basato sulla presenza di anticorpi specifici anti-SARS-CoV2 che rileverebbero non solo chi è “tampone-positivo” (con valore di conferma diagnostica), ma soprattutto chi si è infettato magari in modo inapparente o con pochi sintomi, ma non è mai stato sottoposto a indagine diagnostica, e ha eliminato il virus (e risulterebbe quindi “tampone-negativo”) . Il fatto che tale saggio non esista (sebbene vi siano kit commerciali disponibili) potrebbe dipendere da problemi di cross-reattività con coronavirus “banali” come quelli che causano il comune raffreddore.

In ogni caso, auspico che l’eventuale allargamento del numero di tamponi a soggetti asintomatici sia applicato in modo epidemiologicamente rilevante sul territorio nazionale, per esempio campionando aree ad alta diffusione d’infezione rispetto ad altre in cui il numero di diagnosi è attualmente contenuto, tenendo anche conto della variabile geografica Nord-Sud. Gli esperti epidemiologi e modellisti ci sono anche in Italia; sarebbe saggio che venissero coinvolti adeguatamente per poter raccogliere informazioni utili sull’andamento dell’epidemia nel nostro paese.

 

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