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Un dibattito tra esperti sull’epidemia

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Tempo di lettura: 19 mins

Antonio Guarino, presidente dell'Associazione degli scienziati italiani nel Regno Unito (AISUK), professore di economia, insieme ad Alessandro Allegra, segretario della associazione ed esperto di politiche per le scienze, hanno intervistato tre esperti: Paolo Vineis, professore di epidemiologia all’imperial College, di Londra e visiting professor all'Istituto italiano di tecnologia, vicepresidente del Consiglio superiore di sanità; Alberto Mantovani, professore di patologia alla Humanitas di Milano e tra gli scienziati italiani più citati al mondo; Maurizio Cecconi, presidente della Società europea di terapia intensiva (Esicm), professore di anestesia e cure intensive all'Università Humanitas di Milano e a capo del dipartimento di cure intensive dell’ospedale, in precedenza direttore delle terapie intensive del St George's Hospital di Londra. Ne è scaturito un dibattito su Covid-19 che si può seguire nella registrazione qui sopra. Qui sotto la trascrizione.

Capacità del sistema sanitario

Quando si è cominciato a sentire del nuovo virus in Cina, abbiamo sentito anche qualche minimizzare il rischio “è soltanto un influenza”. Maurizio, ci puoi spiegare perché non è semplicemente un influenza e perché genera così poi tanta pressione sui dipartimenti terapia intensiva come quello che tu dirigi.

Maurizio Cecconi: Non è stata una semplice influenza. Guardando i dati dell’Istituto superiore di sanità si vede che in una maggior parte dei soggetti che sono infetti COVID-19 non crea sintomi severi. C’è però una percentuale molto importante di soggetti che hanno sintomi e segni così importanti che hanno bisogno del ricovero in ospedale. Noi vediamo circa il 20 per cento, forse un po' di più, di infetti che hanno bisogno di venire in ospedale per delle cure di supporto che possono essere banalmente da un po' di ossigeno alle altre cure di supporto che possiamo dare nei nostri reparti. Ma fin da quando abbiamo scoperto il cluster lombardo che è partito a Codogno, abbiamo notato una percentuale veramente alta di malati che ha bisogno di ricovero in terapia intensiva, fondamentalmente per ventilazione meccanica invasiva. I dati cinesi, che noi monitoravamo, già facevano un po' paura perché dalla Cina ci aspettavamo circa il 5 per cento di ricovero intensivo -che non è banale- mentre in questo momento in Italia il 12 per cento dei ricoverati ha bisogno della terapia intensiva. In Lombardia abbiamo 20 mila casi confermati, lo stress sul sistema è stato molto grande: partivamo circa da 720 posti letto aperti in tutta la regione Lombardia per tutte le cure intensive, non solo COVID-19, e abbiamo in questo momento più di 1.100 malati ricoverati per COVID-19 in terapia intensiva. Per cui lo sforzo enorme che noi abbiamo fatto dalla prima settimana è stato quello di incrementare la nostra capacità ricettiva di terapia intensiva.

Come ti spieghi la percentuale più alta di ricoveri in terapia intensiva rispetto alla Cina?

Cecconi: In realtà da ultimi report si vede che anche in Cina i casi severi potevano essere anche fino al 10 per cento. Noi in Italia abbiamo circa 8/9 posti letto intensivi su 100.000 abitanti e questa è una percentuale diciamo che varia da paese a paese: il massimo è in Germania con circa 27/28 letti di terapia intensiva ogni 100.000 abitanti. Con percentuali di questo tipo, se l'epidemia è fuori controllo tutti i sistemi sanitari possono andare sotto stress per quanto riguarda i malati più gravi.

Quali mezzi può mettere in campo il sistema sanitario del Regno Unito per fronteggiare questa epidemia?

Cecconi: In Gran Bretagna hanno circa di 4/5 letti ogni 100.000 abitanti. Bisogna fare attenzione però perché quello che definisci come letto di partenza non è detto che sia quello a cui poi arrivare. Puoi cercando di aumentare la tua capacità lavorando su tutte le risorse. Il letto di terapia intensiva è un insieme di competenze mediche infermieristiche, di fisioterapia, di tecnologia. In GB, per esempio, i malati che vengono definiti di livello 3 hanno ventilazione meccanica invasiva: per questi letti di solito c'è un rapporto uno a uno infermiere/paziente, mentre in Italia - e in altri paesi - si ha un rapporto di 1 a 2. In emergenza questi rapporti saltano e si adattano: un numero di posti letto può sembrare basso, ma questo non indica la capacità massima del sistema. Anzi, aumentare questa capacità è una delle cose che abbiamo fatto noi in Lombardia da subito. Per cui io credo che l'NHS (il sistema sanitario britannico) abbia le risorse per aumentare di molto la capacità ricettiva. Io poi sono in contatto anche con colleghi del NHS: non appena ci siamo accorti di questa grande percentuale di ricoveri in terapia intensiva, abbiamo sentito il dovere di comunicarlo subito al resto dei paesi occidentali che forse non credevano tanto nei dati che venivano dalla Cina. Voglio dare anche un altro messaggio: con un cluster incontrollato non c'è sistema che può vincere da solo, per cui bisogna lavorare assieme e mettere in campo tutte le strategie - lockdown, mitigation, slow down - per controllare la trasmissione del virus. Se non controlli la trasmissione del virus non c'è sistema al mondo che può gestire un picco in cui tutta la popolazione del paese arriva ad ammalarsi nello stesso momento.

Alberto, tu cosa ne pensi della reazione britannica?

Alberto Mantovani: Io ho disapprovato pubblicamente da subito la scelta di far correre il virus, come era stata presentata inizialmente dal primo ministro. L'ho giudicata una scelta che non tiene conto delle lezioni. La lezione cinese, la lezione che viene dalla Lombardia. Confidare in una immunità del gregge - io detesto la parola gregge, non mi piace sentirmi una pecora, preferisco dire immunità di una comunità solidale che dal punto di vista immunologico si difende insieme - ecco l'idea di contare sulla herd immunity naturale chiaramente avrebbe avuto un costo indicibile, per cui sono stato contento che ci sia stato un cambiamento di rotta molto importante.

Armi contro il virus: vaccini e terapie

C'è una stagionalità anche in questo coronavirus? Possiamo sperare che il clima più caldo dei mesi estivi ci aiuterà?

Mantovani: Non lo sappiamo. Succede per l’influenza perché la gente va fuori e quindi c'è meno possibilità di contagio, perché si instaura una immunità nel senso che una quota della popolazione -ahimè troppo piccola- è vaccinata e poi tutti o molti di noi sono stati esposti alle ondate precedenti, per cui c'è un po' di immunizzazione. Per COVID-19 al momento non si può dire nulla. 

Quando - e se - si potrà avere un vaccino?

Mantovani: Questo virus è una bestia molto strana. L'unica lezione da cui possiamo imparare è quella di SARS, un altro coronavirus, perché si era arrivati fino ad avere un vaccino, con qualche problema: purtroppo abbiamo smesso di studiarlo. In questo momento ci sono circa 20 cavalli che corrono e almeno uno è un cavallo italiano, peraltro in una struttura vicino a Pomezia che ha già generato uno dei vaccini contro Ebola, quindi hanno dimostrato di sapere fare. Tutti utilizzano un approccio di reverse vaccinology, quindi dalla informazione genetica si identifica il bersaglio. Mi preoccupa il fatto che in qualche caso si stia saltando la sperimentazione (almeno in un caso si sta saltando la sperimentazione pre-clinica), perché anche se siamo in una situazione di urgenza, saltare le tappe è dannoso. Credo che non ci sia sostituto al rigore anche in una situazione di emergenza, perché non possiamo dimenticare che dobbiamo testare la sicurezza insieme all'efficacia. Io sono ottimista, ma avere un vaccino entro l'estate - come ha detto qualcuno - fa parte delle cose impossibili. Io penso che ci vogliano come minimo 18 mesi per avere un vaccino. Poi ci sarà il problema di produrlo: non è banale fabbricare vaccini.

Maurizio vuoi aggiungere qualcosa sulle terapie?

Cecconi: Ha ragione Alberto. Noi medici che siamo in prima linea in questo momento abbiamo uno stress grandissimo per il grande volume di pazienti che sta arrivando: E lo stress può far venir voglia di prendere delle scorciatoie e provare dei farmaci che non hanno ancora prove a sostegno. Siamo di fronte a una delle più grandi emergenze che il mondo occidentale ha affrontato dopo la Seconda guerra mondiale - abbiamo l'obbligo morale e scientifico di non prendere queste scorciatoie, e a maggior ragione di usare tutto ciò che ha un'evidenza scientifica alle spalle. In questo momento abbiamo due strumenti con evidenze scientifiche. Anzitutto, le due grandi evidenze che abbiamo sono la terapia di supporto, e quindi cercare di dare quanta più terapia di supporto a questi malati, lasciando che sia l'ammalato stesso a combattere le infezioni con il proprio sistema immunitario: se diamo tempo ai malati che hanno riserva fisiologica, li vediamo migliorare. In secondo luogo, dobbiamo fidarci di quello che ci dicono gli esperti di epidemiologia per controllare la trasmissione del virus. Queste sono le due nostre grandissimi armi. Poi ci sono altre soluzioni: fra un quarto d'ora devo correre di nuovo in ospedale perché stiamo provando nel centro di simulazione come connettere due malati a un solo ventilatore, una tecnica in realtà descritta da anni, ma non avrei mai pensato di attuarla in un sistema come quello lombardo - che non è un sistema povero di sanità e di risorse. Spero che non ci arriveremo, e sono convinto che se le manovre di contenimento funzionano non ci arriveremo... però non ho più la certezza che non ci arriveremo. Noi dobbiamo veramente appellarci a chi sa fare il mestiere della Sanità pubblica e ai nostri cittadini perché accettino e siano responsabili nell'aiutarci a ridurre la trasmissione del virus.

Come sapete nel Regno Unito il primo l'approccio del governo è stato quello di punntare all'immunità di gregge (termine che non piace ad Alberto), perché così poi il problema si risolve. L'assunzione di fondo di questo questo tipo di policy è che se io prendo il virus mi ammalo, poi però divento immune rispetto a questa malattia: c'è una qualche chiarezza su questo?

Mantovani: E’ ragionevole che sia vero, già Tucidide si era accorto che chi non moriva di peste aveva la peste in forma attenuata o non l'aveva proprio. I dati della SARS ci suggeriscono che ci sia memoria per un tempo che non conosciamo, e non conosciamo la qualità della memoria immunologica. I dati suggeriscono che ci sia resistenza. Credo che ci sia solo un caso ben documentato di reinfezione ex novo. Ci sono anche altre questioni: c'era un fenomeno ben descritto per un'altra infezione virale, costituito dal fatto che l'anticorpo facilita l’entrata del virus stesso. Ecco, queste sono alcune delle grandi domande per cui abbiamo bisogno di ricerca rigorosa.

Politiche attuali e future per il contenimento dell’epidemia

Paolo, volevamo chiederti, quali sono i dati attuali circa il numero dei contagi e la crescita dei contagi in particolare guardando all'Italia e la Gran Bretagna; ma anche più in generale quali sono le criticità su questi dati. Abbiamo una buona conoscenza del fenomeno?

Paolo Vineis: La risposta non può che essere sfumata. Abbiamo sì una buona conoscenza del fenomeno grazie alle rilevazioni che vengono effettuate dall'Istituto superiore sanità e dalla Protezione civile, poi abbiamo i modelli. Credo che sia utile dire due parole sul significato dei modelli. I modelli sono fondamentali perché consentono di fare ipotesi e inferenze su dove stiamo andando, ma anche di valutare l'impatto delle diverse misure prese. Come sapete i modelli che hanno circolato maggiormente in questi ultimi giorni sono quelli dell'Imperial college e di Neil Ferguson del gruppo di Roy Anderson. Si sono basati fino a un certo punto sugli unici dati che avevamo, cioè quelli della Cina, via via cercando di incorporare invece le informazioni provenienti dall'Italia, vista la precocità dell'epidemia. Questi modelli incorporano molte assunzioni che riguardano per esempio il famoso il R0 (cioè quante persone può contagiare una persona contagiosa), incorporano assunzioni sulle letalità (CFR) e così via. Si cerca di ridurre man mano i margini di incertezza appunto sostituendo assunzioni con osservazioni approssimativamente. I modelli vanno interpretati con cautela nel senso che incorporano assunzioni che vanno verificate, inoltre devono essere monitorati con una certa frequenza per introdurre anche l'impatto delle misure che vengono prese. Misure che sono molteplici, nessuna singola misura è di per sé e efficace.

Io intravedo all'incirca quattro modelli di intervento basati sull'esperienza precedente e sulla modellistica. L'esperienza precedente deriva in parte dall'epidemia di influenza H1N1 e anche dalla Spagnola. A quei tempi diverse città americane vennero chiuse, quindi si adottò un lockdown e c'è una esperienza in questo senso. Poi utilizziamo l'esperienza della SARS. Neil Ferguson e i rapporti dell'Imperial college presentano tre possibili scenari. Il primo che definisce di mitigazione è quello sostanzialmente adottato da Boris Johnson, cioè isolare i positivi, mettere in quarantena per 14 giorni i loro contatti e tenere a casa gli anziani. Questa strategia che si associava all'idea di favorire insorgenza di herd immunity aveva però un costo sociale enorme, stimato da Neil Ferguson in addirittura 260mila vittime in GB nel prossimo anno e mezzo. La seconda è quella della soppressione, che è fondamentalmente quello che stiamo mettendo in atto in Italia: distanziarsi dalle persone chiudendosi in casa. Questa strategia riduce la pressione sugli ospedali e sulle unità di terapia intensiva, che è uno dei primissimi obiettivi da porsi. Il problema è che deve durare abbastanza lungo e quindi ha delle implicazioni sociali ed economiche non da poco. Per questo Ferguson propone una terza strategia, intermedia se vogliamo, e cioè: una fase iniziale di soppressione basata su interventi radicali, come quelli che stiamo vedendo in Italia, seguita da una fase di mitigazione a cui segue di nuovo la soppressione. In sostanza lui propone, dopo una iniziale drastica soppressione, uno stop and go di 1 o 2 mesi per ciascuna delle fasi. Questo per consentire all'economia di riprendersi e alla società civile di riorganizzarsi.

Diciamo che lo stop and go è una sorta di modulazione degli interventi di sanità pubblica che consenta di ridurre la pressione sugli ospedali e sulle terapie intensive a un livello accettabile, perché in assenza della soppressione e con la sola mitigazione è stimato che l'Inghilterra ci vorrebbero almeno otto volte più terapie intensive di quelle che ci sono. C’è poi una quarta strategia che non è contenuta nel documento di Ferguson, che è quella sudcoreana, cioè il case finding e i contact tracing: identificare i casi, inclusi gli asintomatici, e rintracciare tutti i loro contatti. Questa è una strategia che richiede una grandissima organizzazione e tecnologie avanzate e non può essere messa in pratica durante la pandemia, ma solo nelle fasi iniziali o nelle fasi successive al primo picco per evitare un secondo picco.

Quindi la strategia che tu chiami sudcoreana, che oggi molti invocano, al momento non è un'opzione?

Vineis. Certo, specifico che parlo a titolo personale e non in quanto vicepresidente del Consiglio superiore di sanità. Ma credo che ci sia un certo consenso su questo: la strategia sudcoreana non va bene adesso nelle regioni dove la pandemia è nella sua piena espansione. Potrebbe andare bene forse nei focolai del sud. Mi sembra che in Italia oggi abbiamo tre fasi. Abbiamo le iniziali zone rosse -Codogno - dove è stata attuata una strategia molto rigorosa che effettivamente ha bloccato l'epidemia. Abbiamo tutto il nord Italia in cui la pandemia è in corso e poi abbiamo il sud in cui sta arrivando: ecco forse la strategia sudcoreana potrebbe servire al sud. Però richiede una grande organizzazione e il Sud Corea come sappiamo è piuttosto organizzato mentre l'Italia forse no.

Cecconi: Non esiste una ricetta uguale per tutti i paesi, perché la situazione è veramente dinamica. In questo momento in Lombardia in cui facciamo fatica a gestire il picco abbiamo bisogno di risorse che mantengano in qualche maniera l'ordine della società e che mantengano la strategia attuata. Non penso sarebbe fattibile in questo momento un contact tracing e il tampone a tutti, sarebbe uno spreco che toglierebbe le risorse da dove servono. In questo momento noi stiamo cercando di salvare vite dando terapia intensiva a tutti quelli che ne hanno bisogno. E' ovvio che nelle fasi iniziali - che poi è stato fatto sul focolaio di Codogno - si è dimostrato che facendo questo si riesce a controllare in qualche maniera il focolaio. Quello che noi non sappiamo dell'Italia è quanti focolai ci fossero all’inizio. Ricordiamoci che fino a quel momento tutti i passaggi di persone che arrivavano dalla Cina erano sempre stati rintracciati - pensate che sapevamo addirittura della coppia dei cinesi poi ricoverate allo Spallanzani. Il nostro dramma è stato trovare il paziente numero giovane, senza alcun fattore di rischio, ricoverato in terapia intensiva.

Siamo a un mese fa, il 20 febbraio. Addirittura viene forzato il protocollo perché è un malato con una polmonite atipica che non risponde al trattamento e non ha fattori di rischio: a un certo punto uno degli anestesisti insiste nel fare il tampone lo stesso, il tampone arriva positivo e noi ci svegliamo con l'incubo di avere una trasmissione secondaria in casa. Il giorno dopo ci sono 36 casi, nessuno riconducibile al paziente zero che poi noi non troviamo più. E' difficile capire quanti focolai avessimo in quel momento. E’ stato fatto un lavoro eccellente su Codogno: queste strategie possono funzionare. Non sappiamo bene se magari si poteva essere un po' più aggressivi sui focolai secondari di Bergamo, per esempio. Noi come rete terapie intensive su Bergamo e val Seriana quando abbiamo cominciato a vedere i primi casi avevamo chiesto con grande forza che ci fossero strategie un po più forti, e poi da lì è partito il picco da varie parti della Lombardia. Ormai non credo che quella strategia sia scalabile su tutto resto della Lombardia 

Mantovani: Volevo toccare il tema Corea, perché ha generato e continua a generare, a mio giudizio, notevole confusione e rischio di dispersione di risorse. Io voglio ricordare due cose. Uno, in Corea e Singapore ci sono meccanismi di coesione e di adesione sociale e di enforcement dell'adesione sociale che noi non abbiamo. Il secondo punto è il tema tecnologico, cioè la capacità di case finding: i nostri sistemi sono sovraccarichi dal punto di vista dei testi sul tampone. Voglio ricordare che noi all’Humanitas (ma lo stesso il Policlinico), abbiamo dovuto mettere in piedi una stanza nuova dedicata per fare i test, trasformando una sala riunione in un laboratorio in pressione negativa. Ho chiesto alle persone che fanno ricerca se ci fossero volontari e ho avuto avuto una fila di persone. In questo momento da noi ci sono sei persone che si alternano a fare il test. Non ci sono più tamponi... dovete avere idea di cosa succede. Maurizio ha ricordato il ventilatore per due persone, be’ da noi non ci sono più tamponi che inattivano il virus: quindi i ragazzi in laboratorio devono inattivare il virus; il test dura 24 ore ed è sofisticato. Ci sono molti falsi negativi nella popolazione asintomatica. Allora abbiamo dei forti limiti tecnologici. Dobbiamo dire che ieri la Food and drug administration ha approvato un test di una multinazionale italiana (DiaSorin) che dà il risultato in un'ora. Conoscendoli penso che siano estremamente affidabili, quindi questo aumenterà la nostra potenza di fuoco. Poi abbiamo bisogno di test anticorpali. Perché noi seguiamo la traccia che l'agente infettivo lascia sul sistema immunitario, non andiamo a cercare il virus. L’epidemiologia di moltissime malattie infettive è stata fatta cercando gli anticorpi. Ma in questo momento non abbiamo saggi anticorpali validati: molti gruppi ci stanno lavorando nel nostro paese, e sicuramente in UK e negli Stati Uniti. Arriveremo ad averlo. Senza correre dietro alle bufale: pensate che in internet viene venduto un test per misurare gli anticorpi come succedaneo di una diagnosi. Test che non vogliono dire un accidente. Per cui alcune di queste discussioni che abbiamo avuto in questo paese sul modello coreano erano: 1) fuori tempo massimo; 2) non tenevano conto della realtà sociale; 3) ignoravano completamente i fondamentali di un test diagnostico.

Vineis: Aggiungerei alcune cose sui test. E’ stato proposto un test rapido in Toscana. E' stata fatta una rapida validazione e ha una sensibilità estremamente bassa: vale a dire che ci sono tantissimi falsi negativi e questo è estremamente pericoloso perché vuol dire che non identifichiamo dei positivi che si sentono non contagiosi e possono invece contagiare altri. Bisogna mandare un messaggio molto preciso: qualunque test venga usato deve essere validato. Inoltre la priorità va data al personale sanitario e bisogna discutere della frequenza con cui va fatto, perché il test si negativizza dopo un certo periodo a partire dalla comparsa dei sintomi, oppure nelle persone asintomatiche (sto parlando del test di identificazione del virus, non dei test anticorpali). Infine bisognerebbe testare anche persone a stretto contatto con il pubblico come il personale dei supermercati. C’è da stabilire una sorta di gerarchia delle sottopopolazioni da sottoporre a test

Cecconi: Aggiungo che noi abbiamo avuto esperienza di tanti casi da noi definiti comunque sospetti, anche se il primo e il secondo tampone erano negativi. Molte volte con la clinica ci abbiamo azzeccato e abbiamo fatto test su aspirati più profondi che hanno rilevato la positività. Se invece si riuscisse ad arrivare al test anticorpale, a quel punto si saprebbe veramente se c'è stato o meno l'infezione, e questo potrebbe grandi benefici, compresa la possibilità di far ripartire il paese.

Prospettive future

Guardiamo al lungo periodo. Come si esce da una situazione epidemica e quali sono le strategie da adottare nel lungo termine?

Vineis: E’ fondamentale quella che si chiama preparedness: essere preparati a un'altra epidemia ma anche prevenire le epidemie. Vi consiglio di guardare un bellissimo video di Bill Gates, una Ted conference del 2015 in cui sostiene che siamo armati fino ai denti per prevenire la guerra o affrontare la guerra ma non ci stiamo preparando un epidemia che può fare più morte di una guerra. Lo diceva nel 2015 e non molto è successo da allora, perché non si sono sfruttate le esperienze di SARS e di MERS per studiare alla fonte l'origine di queste epidemie. Sappiamo che molte di queste provengono dalla Cina ma non solo della Cina, anche l'Africa è un potenziale grande serbatoio di nuovi virus. Molti derivano dai pipistrelli ma ci sono comunque diverse specie che possono dare origine a nuovi ceppi virali. La mia opinione è che adesso debba essere fatta molta ricerca su quello che succede da un lato con la deforestazione e con l’estensione dell'urbanizzazione (per esempio in Africa) ma anche in Cina. Deforestazione significa fondamentalmente che noi veniamo a contatto con nuove specie animali e ceppi virali in generale, con un mondo microbiologico che ci era finora estraneo. E' il tema del libro di David Quammen "Spillover". Ma non solo deforestazione, anche agricoltura e allevamento. Spesso i virus dell'influenza provengono dal pollame o dai maiali. Va fatto molto di più per studiare il salto di specie, ma anche per capire che cosa succede nei rapporti tra umanità e wilderness -le foreste- e nell'ambito di questi allevamenti intensivi che ci sono in Cina e in altri paesi, per affrontare il problema alla fonte. Vi ricordo che le ultime epidemia sono state molto ravvicinate nel tempo: SARS, MERS, zika, nipah e così via. Quindi credo che sia importante, una volta finita questa emergenza, investire in ricerca più alla radice. 

Mantovani: Condivido al 200 per cento. Io sono stato coinvolto in un iniziativa di salute globale chiama GAVI - Global Alliance for Vaccines and Immunization con l'obiettivo di ridurre lo scandalo del milione e mezzo di bambini che muoiono ogni anno perché non hanno accesso ai vaccini più elementari -prima erano due milioni e mezzo. Quel grido di allarme di Bill Gates è stato lanciato da molti nel settore: un grido di allarme inascoltato. Per quanto riguarda le strategie di breve e lungo termine, volevo fare due commenti che riguardano l'immunità. Dovremo a un certo punto avere una strategia di stop and go, perché non possiamo restare chiusi in casa per un anno e mezzo. Quindi avremo il problema di come programmare la fase di mitigation. Credo che se avessimo per quel tempo un test anticorpale in grado di individuare le persone con anticorpi di classe IgG, allora avremo uno strumento per incoraggiare le persone a tornare al lavoro. Questo, secondo me, è un passaggio molto importante. Il secondo punto è che questo si riferisce alla memoria immunologica. C'è una memoria immunologica classica, l’immunità specifica: ho fatto il vaccino contro l'epatite B, ricordo l’epatite B ma non l'epatite A. Ma c'è una prima linea di difesa che noi chiamiamo “immunità innata”, che è quella che gestisce il 95 per cento degli incontri con patogeni. Abbiamo un'osservazione che è estremamente intrigante: i bambini sono protetti. Qualcuno - e io mi metto fra i qualcuno - ha un'ipotesi che questo sia legato alla frequenza delle vaccinazioni. I vaccini sono una sorta di allenamento per quella prima linea di difesa e ci sono dati che mostrano che alcuni vaccini danno protezioni che vanno al di là del virus contro cui è diretto il vaccino. Allora se questa ipotesi fosse corretta, potremmo pensare a strategie di allenamento della prima linea di difesa. Se fosse così, potremmo pensare di allenare su vasta scala la popolazione nella fase di go. Ma prima dovremmo tornare a un tasso ragionevole di di normalità.

Antonio Guarino. Voglio dire soltanto che veniamo da un periodo in cui c'è stata quasi una caccia all’esperto. Qualcuno ha detto che degli esperti non sappiamo che farcene. E’ ora invece spero si capisca l'importanza degli esperti, l'importanza della ricerca scientifica.

 


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