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Green New Deal: se non ora quando?

La crisi da Covid-19 è gia stata paragonata alla crisi climatica, e il paragone è appropriato. La pandemia però deve anche far accelerare la tanto attesa transizione ecologica: un Green New Deal è ormai inevitabile e la riorganizzazione del paradigma economico dovrà essere pretesa, visto che, ancora una volta, ha esibito la sua inadeguatezza nel rispondere a non contemplati shock esterni.
Nell'immagine: la parlamentare statunitense Alexandria Ocasio-Cortez di fronte al Campidoglio degli Stati Uniti. Credti: Senate Democrats/Wikimedia Commons. Licenza: CC BY 2.0

Tempo di lettura: 10 mins

C’è chi ha già paragonato queste settimane di crisi da Covid-19 alla crisi climatica in atto: è un paragone appropriato. Il ruolo della scienza, della comunicazione e della politica sono pressocché analoghi, se non fosse per la scala dei tempi. La crisi climatica dovrà essere affrontata con la stessa volontà usata per la crisi da coronavirus, perché i poderosi effetti negativi si svilupperebbero su scala annuale e decennale (e non settimanale e mensile come per il virus) rendendo praticamente impossibile rimediare a danno avvenuto.

D’altra parte, tra le stesse conseguenze dei vari mutamenti climatici, ci sono anche il ritorno e la ricomparsa di svariate malattie infettive. Basti pensare al fenomeno dei migranti climatici: a causa di crisi idriche, alimentari e conseguente inasprimento di crisi sociali già esistenti, centinaia di milioni di persone migreranno, aprendo quindi vere e proprie autostrade per virus e batteri. Inoltre, l’innalzamento delle temperature provocherà e sta già provocando lo spostamento di alcune malattie verso latitudini nuove e, per questo, non attrezzate, come i casi di Zika, Chikungunya, Dengue, ecc. Infine, c’è anche il fattore permafrost, il cui scioglimento porrebbe altri potenziali rischi di aumento di vecchie e nuove malattie infettive a partire dall'ambiente circumpolare. [1] Altro che Covid-19, per dirla brutalmente.

Questa vicenda deve fare accelerare la tanto attesa transizione ecologica, sia a livello di consapevolezza sociale e politica, ma anche a livello di sistema economico. Un Green New Deal è ormai inevitabile e la riorganizzazione del sistema economico dovrà essere pretesa, visto che, ancora una volta, ha esibito la sua inadeguatezza nel rispondere a non contemplati shock esterni.

Processo già iniziato e inadeguatezza del modello attuale

Secondo Jeremy Rifkin, autore di “Un Green New Deal Globale” [2], sono tre gli elementi che contraddistinguono una rivoluzione industriale: un mezzo di comunicazione, una fonte di energia e un mezzo di locomozione. Tra la prima e la seconda rivoluzione industriale, infatti, si è passati dal telegrafo e dalla stampa a vapore, al telefono, alla radio e alla televisione; dal carbone al petrolio; dalle locomotive ai veicoli a combustione interna. Stiamo attraversando la terza rivoluzione industriale che vede la connessione, l’internet delle cose, come elemento portante: internet delle comunicazioni, internet delle energie rinnovabili e internet della mobilità, connesse da un’infrastruttura pubblica e intelligente.

Ci siamo in mezzo e non possiamo uscirne. I vari provvedimenti legislativi vincolanti e le varie forme di incentivo degli ultimi anni stanno rendendo i combustibili fossili degli stranded assets, ovvero dei beni che svalutano prematuramente rispetto al loro normale ciclo di vita. Secondo il recente rapporto di Nature Climate Change del 2018, se si mantenessero gli stessi livelli di investimento nei combustibili fossili nonostante il calo della domanda, si correrebbe il serio rischio di perdite dai 1000 ai 4000 miliardi di dollari. Bolla di carbonio, questa, che può e deve essere sgonfiata tramite una strutturata decarbonizzazione; anche per limitare la tentazione dei produttori di continuare ad estrarre petrolio, carbone e gas per svendere i loro assets (visti i prezzi sempre minori), estrazione che sarebbe ambientalmente insostenibile.

Oltre a questo, l’attuale modello di sviluppo soffre di due disturbi intrinseci che mettono in crisi il paradigma “bisogni-produzione-PIL”. Il primo è che il modello non considera significativi i cambiamenti dei bisogni delle persone, che modificano i loro consumi sempre di più. Il secondo problema riguarda i costi marginali, ovvero i costi di produzione di beni e servizi al netto dei costi fissi di produzione. Tali costi marginali sono, infatti, sempre più bassi (per esempio perché il sole irradia gratis la nostra atmosfera, così come il vento soffia gratis, ma anche perché la digitalizzazione dei servizi ne abbassa drasticamente i costi); e, se i costi marginali calano, il PIL non riesce a registrare una crescita di benessere o di lavoro.

Infine, lo stesso indicatore PIL, al di là delle contraddizioni intrinseche appena viste, non misura una serie di parametri che devono essere invece presi in considerazione per avere la percezione di cosa sia veramente il benessere: la distribuzione della ricchezza, gli impatti sociali dei sistemi di produzione e gli impatti ambientali dell’attività produttive.

A questo proposito, nel 2016 l’Italia ha introdotto indicatori di Benessere Equo e Sostenibile (BES) che dovranno essere integrati alla Legge di Bilancio e la cui implementazione, potenziamento e controllo dovranno essere esercitati dalla Cabina di regia Benessere Italia presso Palazzo Chigi;  iniziativa questa fortemente voluta, tra gli altri, da Enrico Giovannini, portavoce dell’Alleanza Italiana per lo Sviluppo Sostenibile, e abbracciata dal Presidente del Consiglio Giuseppe Conte. [3,4]

La transizione

Jeremy Rifkin ricorda come, visto l’inevitabile decorso degli stranded assets dei combustibili fossili, la Banca Mondiale abbia sollecitato i governi a diversificare le proprie economie per attutire i danni economici conseguenti. Questo apre al tema essenziale della transizione giusta, ovvero l’impegno da parte degli Stati di assicurare una transizione che non lasci indietro nessuno. Caso esemplare è l’impegno verso un’economia decarbonizzata della Germania che non riesce ancora a rinunciare al carbone, proprio perché non può rinunciare a tutelare il gran numero di lavoratori che tengono in piedi quell’industria.

Come ricorda Giovanni Marin, docente di Economia applicata all’Università di Urbino, è decisivo il ruolo della trasformazione delle competenze ai fini di una transizione ecologica che rispetti l’Accordo di Parigi. [5] Di particolare interesse è lo studio di come e quanto una certa competenza oggi impiegata nell’industria fossile debba essere modificata: più il grado di competenza è elevato più si stima un salario maggiore, ma anche un necessario maggior investimento in educazione.

L’Organizzazione Mondiale del Lavoro stima sui 30 milioni di posti di lavoro necessari per poter raggiungere gli obiettivi di Parigi: non solo intelligenza artificiale, dunque. Servirà infatti ottimizzare gli edifici per renderli attori attivi nella rete dell’energia, eliminare le vecchie centrali a carbone, petrolio e gas, installare impianti fotovoltaici ed eolici, bonificare aree naturali, efficientare agricoltura e allevamento, ristrutturare tutta l’infrastruttura globale per trasformarla e renderla distribuita, decentralizzata ed interconnessa.

Quando si parla di transizione c’è ancora chi tenta di voler impiegare il gas naturale come combustibile fossile di transizione. Niente di più sbagliato. Nonostante il gas sia, come sappiamo, il combustibile fossile che emette meno gas serra, è ormai obsoleto considerarlo come “ponte”; la ricetta vincente, come scrive Rifkin, è il giusto mix di fonti rinnovabili (solare ed eolico, ma non solo), la loro accumulazione in batterie e una generale ottimizzazione della rete elettrica, dall’efficientamento al risparmio energetico.

Costi e risorse

Jeremy Rifkin, nel suo libro, stima un costo totale per la transizione negli Stati Uniti d’America in dieci anni sulle migliaia di miliardi, ordine di grandezza analogo a quello annunciato dalla Presidente della Commissione Europea Ursula Von Der Leyen di oltre 1000 miliardi per l’Unione Europea. Molto meno in percentuale di ciò che impiegò Churchill per la Seconda Guerra Mondiale.

Il Green New Deal si caratterizza per una forte spinta sugli investimenti che, se impiegati su attività e progetti che tutelano l’ambiente, è ormai accertato diano un ritorno maggiore rispetto agli investimenti sui combustibili fossili. Interessanti sono i cosiddetti SRI, cioè gli investimenti socialmente responsabili che hanno come obiettivo principale il “fare soldi facendo del bene”. In generale, sarà decisivo il ruolo della finanza etica e sostenibile che nel suo manifesto afferma che “non ritiene legittimo l'arricchimento basato sul solo possesso e scambio di denaro”, ma si impegna ad operare per portare benefici a società e ambiente. [6] Molti grandi colossi finanziari, come BlackRock, hanno recentemente firmato un documento in cui si impegnano a considerare non solo il profitto come obiettivo ultimo. Di particolare interesse sono le Benefit Corporation, che si distinguono dal no-profit per mantenere uno scopo di lucro, ma che lo esercitano in modalità etiche e sostenibili.

Come si vede, siamo dentro alla transizione, non possiamo uscirne e dobbiamo accelerarne il corso. Infatti, secondo l’UNEP, allo stato attuale ci stiamo dirigendo verso un aumento di temperatura a fine secolo di 3.2°C, anziché di 1.5°C, per cui serve una riduzione delle emissioni annua del 7.6%. Non si può quindi aspettare il mercato, ma è necessario e vitale che gli Stati diano una direzione chiara e si assumano il rischio di aprire la strada ai mercati e agli investitori privati che, ad oggi, non si concentrano dove non vedono profitto. Per dirla con le parole di Mariana Mazzucato, serve che lo Stato si faccia “imprenditore” per dare obiettivi precisi e portare innovazione. L’esempio classico è il ruolo della ricerca di base, che, non esibendo a breve termine opportunità di profitto, non attrae gli investimenti privati. [7] Volendo portare un esempio contingente, è stato rilevato come ci siano picchi di pubblicazioni scientifiche subito dopo le maggiori epidemie (compresa l’attuale da SARS-CoV-2) che poi svaniscono a epidemia passata.

Da dove trovare le risorse? Continuando ad attingere dal libro “Un Green New Deal Globale” di Jeremy Rifkin, egli fa notare come uno dei più grandi capitali investiti adesso negli Stati Uniti siano i fondi pensione. Le società di gestione dei fondi pensione potrebbero rivoluzionare l’economia se prendessero collettivamente coscienza del loro immenso volume. I governi dovranno incentivare i fondi pensione a disinvestire sui combustibili fossili per investire invece sulle rinnovabili.

Gli strumenti di cui dispone uno Stato sono: il sistema fiscale, che deve essere modulato in ottica redistributiva, anche per tutelare i più poveri dalle conseguenze nefaste dei cambiamenti climatici, e che deve essere costruito in modo mirato (come le varie forme di carbon tax), i tagli dei sussidi dannosi, i tagli alle spese inutili e il ruolo dei fondi pensione. Jeremy Rifkin ha effettivamente verificato la possibilità di tali misure per gli Stati Uniti: le risorse ci sono e dovranno essere impiegate nelle varie forme di incentivo, come i crediti di imposta per sollecitare gli investitori. Quello che può essere grossolanamente scambiato come un grezzo “bastone e carota” (tasse e incentivi), in realtà è necessario per agevolare la transizione e include ovviamente anche una seria responsabilizzazione e sensibilizzazione degli attori, che faccia in modo che si creino buone pratiche in cui il privato è al servizio del pubblico.

Come in questi giorni stiamo assistendo al dibattito sulle misure economiche da utilizzare per affrontare l’emergenza coronavirus, anche per il Green New Deal serve un dibattito analogo. Il Patto di Stabilità e Crescita europeo è stato sospeso per la prima volta e sarebbe auspicabile che non venga reintrodotto tale e quale a fine epidemia, così come sarebbe da modificare il principio del pareggio di Bilancio nella Costituzione Italiana. [8]

In tempi che vengono paragonati allo stato di guerra, anche eminenti economisti del calibro di Mario Draghi riconoscono la necessità di fare debito per assorbire meglio l’urto da crisi. Non c’è niente che faccia pensare che quella climatica non sia una crisi ben peggiore e che necessita di strumenti altrettanto coraggiosi. Non sono mancati infatti appelli di parlamentari ed economisti che invocano un repentino cambio di paradigma per rendere l’economia e la politica resilienti al cambiamento climatico e agli shock futuri.

Coinvolgimento e trasparenza

L’ultimo tassello riguarda il coinvolgimento attivo dei cittadini nella transizione. Non deve essere considerato un mero sondaggio, ma una completa presa di coscienza che il cambiamento avviene per e con i cittadini che devono diventare decisori non trascurabili. Questo serve anche per generare il giusto grado di fiducia nelle istituzioni ed eliminare il senso di smarrimento e isolamento che si rischia quando si devono trasformare gran parte dei settori lavorativi, ma anche per garantire l’adeguata trasparenza nei processi decisionali.

Un esempio calzante è rappresentato dal ruolo delle donne, soprattutto nei paesi poveri. Si è visto che fornendo alle donne educazione e potere (come la gestione del microcredito), cala il tasso di fertilità. Questo è estremamente importante nei paesi poveri, dove c’è un serio problema di sovrappopolamento che minaccia la tenuta delle risorse naturali ed energetiche mondiali. Nei prossimi decenni, infatti, l’ONU stima che la maggior parte della crescita demografica sarà concentrata in Africa e, se chi vive nel continente nero pretenderà giustamente più alti livelli di benessere, questo sarà un serio problema.

I tre principali attori politici del Green New Deal, secondo Jeremy Rifkin, sono l’Unione Europea, la Repubblica popolare cinese e gli Stati Uniti d’America. Risulta quindi chiaro un aspetto: se il Green New Deal vuole partire, bisognerà scegliere bene il prossimo presidente americano.

 
Bibliografia
1. Nicosia E, Il virus che minaccia i mammiferi marini dell’Artico, Le Scienze. 
2. Rifkin J, Un Green New Deal Globale, Mondadori (trad. Italiana).
3. Giovannini E, Criteri e indicatori per valutare la sostenibilità di un modello di sviluppo, ASviS Italia.
4. Le 12 dimensioni del benessere equo e sostenibile, Istat. Cabina di regia “Benessere Italia”, Governo Italiano.
5. Marin G, Le competenze “verdi” per un lavoro sostenibile, Greenreport
6. Finanza etica.
7. Mazzucato M., Governing Missions in the European Union, Commissione Europea:  
8. “Ue e Bce, non è così che si supera la crisi”. L’appello di 110 economisti, MicroMega
 
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