fbpx Colchicina e Ivermectina, nuove speranze anti SARS-CoV-2 | Scienza in rete

Colchicina e Ivermectina, nuove speranze anti SARS-CoV-2

Primary tabs

Tempo di lettura: 5 mins

A chi ama camminare in montagna sarà capitato di rammaricarsi nel veder far capolino nei pascoli quel fiorellino viola della famiglia delle liliacee che segnala l’imminente fine dell’estate e che, non a caso, si chiama Colchicum autumnale. È un fiore velenoso, come lo è il bucaneve (Galanthus nivalis), il narciso che gli fa quasi da contrappunto, preannunciando la primavera, e da cui si estrae la galantamina, il principio attivo che rallenta il deterioramento cognitivo del morbo di Alzheimer.

Il benefico veleno della colchicina

Il veleno del colchico autunnale è la colchicina, un alcaloide già noto fin nell’antica Grecia, ma la cui struttura chimica è stata definita solo nel 1955: il solo contatto con la pianta può causare danni alla pelle e l’ingestione provoca vomito, diarrea e perfino morte, che avviene tra le 7 e le 48 ore dopo un’intossicazione acuta; vi possono essere, a distanza di giorni, complicanze neurologiche o ematologiche. È capitato che gitanti sprovveduti abbiano scambiato il colchico per zafferano selvatico con conseguenze letali.

Ma, come diceva Totò, “ogni rovescio ha la sua medaglia”: la colchicina ha un effetto antimitotico sulla cellula, che, pur non potendo essere sfruttato in oncologia per via dell'elevata tossicità, funziona bene contro l’infiammazione, perché inibisce la motilità dei leucociti e ne blocca l'attività fagocitaria. Inoltre, la colchicina diminuisce la produzione di leucotrieni (un gruppo di molecole lipidiche implicate nei processi infiammatori e nei meccanismi immunitari a livello bronchiale) e, in particolare, del leucotriene B4, potente chemioattrattivo e attivatore leucocitario. 

L’azione farmacologica della colchicina è stata finora utilizzata per il trattamento della gotta e della febbre mediterranea familiare, malattia autoinfiammatoria ereditaria; dal 2017, poi, è autorizzata la nuova indicazione per il trattamento della pericardite acuta e della pericardite post infartuale di Dressler.

Ora, si pensa di usare la colchicina come arma contro il Sars-CoV-2, avvalendosi, nelle fasi precoci della malattia, della sua azione sia antivirale sia antinfiammatoria. 

Anche l'AIFA fa partire una sperimentazione

L’Agenzia Italiana del Farmaco (AIFA) ha espresso parere favorevole a uno studio sul protocollo terapeutico che prevede l’uso di colchicina nei pazienti affetti da COVID-19, che inizierà nei prossimi giorni e sarà coordinato dal gruppo della Reumatologia di Perugia, coadiuvato per la gestione tecnica dal Centro Studi della Società italiana di reumatologia (SIR) e dal Centro Ricerche dall’Associazione italiana pneumologi ospedalieri (AIPO); è coinvolta nello studio anche la Società italiana di malattie infettive e tropicali (SIMIT).

Le maggiori criticità della colchicina sono legate alle modalità di somministrazione e ai suoi effetti tossici: nelle indicazioni finora ammesse, essa va somministrata alla dose di 1 mg (un granulo) per bocca, ripetibile soltanto a distanza di 1 ora fino a un totale massimo di 2-3 mg al giorno e interrotta alla prima comparsa di nausea, vomito o diarrea. Il farmaco per via endovenosa (del cui uso, pure, esiste qualche segnalazione) non è in commercio in Italia e ha possibili effetti indesiderati gravi anche a dosi < ai 2mg. 

Gli effetti collaterali sono, per la maggior parte, gastrointestinali, ma sono possibili quelli ematologici, da depressione midollare, come anemie e piastrinopenie.

La dose tossica di colchicina si aggira attorno ai 10 mg, ma è inferiore in caso di età avanzata o di condizioni predisponenti come scompenso cardiaco, ipertensione non controllata, insufficienza renale, ulcera peptica, diatesi emorragica o terapia con anticoagulanti. 

Grande cautela va posta alla contemporanea assunzione di alcuni farmaci, quali antibiotici macrolidi, simvastatina, ciclosporina, verapamil e diltiazem, che sono in grado di ridurre l’eliminazione della colchicina, inibendo l'attività del citocromo P450 e del sistema di trasporto della P-glicoproteina, una proteina transmembrana dell’epatocita, responsabile del trasporto transcanalicolare di molte molecole idrofobiche. La colchicina viene eliminata soprattutto per via biliare e il suo metabolismo è mediato dal citocromo CYP3A: la famiglia del citocromo P450 è una superfamiglia di enzimi deputati a  detossificare l'organismo da molecole esogene (farmaci e tossine di origine esterna) ed endogene (prodotti di scarto dell'organismo). I singoli enzimi sono identificati attraverso la sigla comune CYP, seguita da un numero arabo indicante la famiglia e da una lettera in maiuscolo che definisce la sottofamiglia (talvolta, un secondo numero arabo specifica il singolo gene) (1). 

Ivermectina, contro scabbia e malattie tropicali

Secondo gli infettivologi del dipartimento dell’Istituto di ricovero e cura a Carattere scientifico (IRCCS) per la Malattie infettive e tropicali di Negrar (VR), guidati da Zeno Bisoffi, potrebbe valere la pena di fare uno studio clinico per testare l’efficacia sul virus Sars-CoV-2 di un farmaco antiparassitario usato per curare la scabbia e anche gravi parassitosi tropicali come la strongiloidosi e l’oncocercosi che, in Italia, è registrato per uso veterinario e, nell’uomo, solo per via topica, in crema. Si tratta dell’ivermectina, la cui scoperta è valsa il premio Nobel per la Medicina del 2015 agli scienziati Satoshi Ōmura e a William Cecil Campbell. 

All’inizio di aprile, alcuni ricercatori australiani hanno pubblicato uno studio che dimostra, in vitro, che ivermectina è in grado di annientare il virus in 48 ore (2).

Va detto che, in vitro, il farmaco si era già dimostrato efficace contro altri virus a RNA come il West Nile e il virus DENV 1-4; purtroppo, l’unico trial clinico tailandese su malati di Dengue non ha avuto successo. D’altronde, il solo trial cinese pubblicato non è riuscito a dimostrare l’efficacia neppure dell’associazione di anti retrovirali lopinavir/ritonavir che, comunque, viene attualmente sperimentata in via compassionevole sui malati Covid-19. 

La spiegazione di questi fallimenti potrebbe essere cercata nella tempistica dei trattamenti, in corso di malattia avanzata: tutti i farmaci con potenzialità antivirali o antinfiammatorie sarebbero forse più utili nelle fasi precoci, quando la carica virale è bassa o, addirittura, nella profilassi dei soggetti molto esposti al contagio.

Un punto a favore di ivermectina è, se non altro, la sua tollerabilità: il farmaco è considerato dall’OMS molto sicuro e anche un recente trial pubblicato dai ricercatori di Negrar sulla cura della strongiloidosi, ha evidenziato solo effetti collaterali classificabili come modesti (3). 

 

Note
1 Rollot F. Acute colchicine intoxication during clarithromicyn administration. Ann Pharmacolth 2004; 38: 2074-77.
2 Caly L et al. The FDA-approved Drug Ivermectin inhibits the replication of SARS-CoV-2 in vitro. Antiviral Research https://doi.org/10.1016/j.antiviral.2020.104787.
3 Buonfrate D et al.  Multiple-dose versus single-dose ivermectin for Strongyloides stercoralis infection (Strong Treat 1 to 4): a multicentre, open-label, phase 3, randomised controlled superiority trial. Lancet Infectious Diseases 2019; 19: 1181.

 


Scienza in rete è un giornale senza pubblicità e aperto a tutti per garantire l’indipendenza dell’informazione e il diritto universale alla cittadinanza scientifica. Contribuisci a dar voce alla ricerca sostenendo Scienza in rete. In questo modo, potrai entrare a far parte della nostra comunità e condividere il nostro percorso. Clicca sul pulsante e scegli liberamente quanto donare! Anche una piccola somma è importante. Se vuoi fare una donazione ricorrente, ci consenti di programmare meglio il nostro lavoro e resti comunque libero di interromperla quando credi.


prossimo articolo

Discovered a New Carbon-Carbon Chemical Bond

A group of researchers from Hokkaido University has provided the first experimental evidence of the existence of a new type of chemical bond: the single-electron covalent bond, theorized by Linus Pauling in 1931 but never verified until now. Using derivatives of hexaarylethane (HPE), the scientists were able to stabilize this unusual bond between two carbon atoms and study it with spectroscopic techniques and X-ray diffraction. This discovery opens new perspectives in understanding bond chemistry and could lead to the development of new materials with innovative applications.

In the cover image: study of the sigma bond with X-ray diffraction. Credits: Yusuke Ishigaki

After nearly a year of review, on September 25, a study was published in Nature that has sparked a lot of discussion, especially among chemists. A group of researchers from Hokkaido University synthesized a molecule that experimentally demonstrated the existence of a new type of chemical bond, something that does not happen very often.