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Tecnologie pubbliche per non dover scegliere tra salute e privacy

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La pandemia ci ha mostrato come nel novero dei settori strategici sia necessario inserire quello delle nuove tecnologie e delle infrastrutture che le supportano. Ma ai cittadini non dovrebbe mai essere chiesto di scegliere tra salute e privacy, tra libertà e benessere: tali tecnologie non possono dunque essere nelle mani delle aziende private. È il settore pubblico che dovrebbe investire nei settori chiave della ricerca e muoversi veloce verso lo sviluppo di tecnologie il cui utilizzo sia garantito a tutta la popolazione, valorizzando e potenziando le competenze di università e centri di ricerca pubblici e avendo come faro la trasparenza.
Crediti immagine: Esther Carabasa/Pixabay. Licenza: Pixabay License

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È arrivato il momento di ribadire l’importanza che sia il pubblico a garantire i servizi primari ai cittadini e a gestire le strutture e gli strumenti necessari non solo per fronteggiare momenti straordinari come le emergenze, ma anche per sviluppare un benessere diffuso ed equamente distribuito tra la popolazione. Una cosa che la pandemia ci ha “svelato” è che già oggi nel novero dei settori strategici è necessario inserire quello delle nuove tecnologie, insieme alle infrastrutture che le supportano. Tecnologie che permettono di avvicinare le persone durante il distanziamento sociale, facilitare lo smart working o proseguire nell’insegnamento scolastico.

La Cina e la Corea del Sud sono riuscite ad arginare l’avanzata del virus anche grazie a strumenti digitali che hanno permesso di tracciare rapidamente i contagiati e limitarne il raggio di azione, a discapito però delle libertà individuali e della privacy. Se il controllo costante dei cittadini non è nulla di nuovo in un Paese come la Cina, dove ormai da tempo sono state avviate pratiche distopiche come il Social Credit System, la posizione di Seoul ha messo altre democrazie di fronte al dilemma di scegliere tra salute e privacy dei cittadini. In questi giorni, Paesi come la Germania, l’Inghilterra, l’Italia e l’Unione Europea nel suo insieme, stanno valutando l’opportunità di utilizzare applicazioni che possano aiutare nella riduzione del contagio grazie al monitoraggio attivo della popolazione.

Stabilire quale diritto abbia la priorità non è facile in generale, figuriamoci in una situazione come quella attuale dove le urgenze di ridurre il numero delle vittime e di evitare il collasso delle strutture sanitarie la fanno comprensibilmente da padrone. Ma come ha scritto di recente Yuval Noah Harari sul Financial Times, chiedere alla gente di scegliere tra salute e privacy è sbagliato in linea di principio. È la riproposizione in “salsa pandemica” del famoso trolley problem, tornato di moda con l’avvento (guarda caso) delle auto a guida artificiale. Un dilemma mal posto, poiché i cittadini non dovrebbero mai essere posti nella condizione di scegliere tra libertà e benessere: dovrebbero avere sempre garantiti entrambi.

Ma se ci allontaniamo un attimo dalla situazione emergenziale, possiamo chiederci come sia messa al giorno d’oggi la bilancia tra servizi e tutela della privacy. Il mercato del commercio elettronico, delle applicazioni e dei social network ha rastrellato una quantità pressoché infinita di dati in grado di tracciare dettagliatamente le abitudini, le preferenze e i profili psicologici degli utenti. Dati che, come ci insegna lo scandalo Cambridge Analytica, non vengono usati solo per venderci l’ulteriore prodotto della macchina consumistica. Non solo: in molti Paesi i governi hanno da tempo iniziato a cedere a società private la gestione di servizi di cruciale importanza sociale, e soprattutto ricchi di dati estremamente sensibili. Se fortunatamente per ora sembra bloccato il progetto di Google (attraverso il suo Sydewalks Lab) di offrire “gratuitamente” la trasformazione di un quartiere di Toronto in una scintillante smart city in cambio dell’accesso ad ogni dato su infrastrutture, trasporti e persone che risiedano o transitino in quell’area, già da qualche tempo negli Stati Uniti e in Inghilterra (ma non solo) colossi di Big Tech come Google e Amazon hanno accesso ai database del servizio sanitario nazionale, gratuitamente o con veri e propri contratti d’acquisto: in teoria questo dovrebbe aiutare nelle diagnosi e nella prevenzione, in pratica gli accordi si rivelano una miniera di dati per le aziende che possono usarli direttamente o venderli al miglior offerente.

Non è un caso, quindi, che proprio due aziende come Google e Apple siano in prima linea per lo sviluppo di quelle app che ora dovrebbero tracciare i contagi del coronavirus. Ma se servizi essenziali come sanità, istruzione o trasporti vengono trasferiti nelle mani delle grandi compagnie tecnologiche, il ruolo dell’amministrazione pubblica e della politica in generale viene meno: in una smart city del futuro, ottimizzata grazie agli algoritmi di Google, avrebbe ancora senso per i cittadini eleggere il proprio sindaco, o dovrebbero forse votare il CEO di una società della Silicon Valley?

Anche in questo caso sarebbe sbagliato chiedere alla gente di scegliere tra i vantaggi dello sviluppo tecnologico e il non voler diventare merce di scambio sul mercato dei Big Data. Lo Stato deve impegnarsi e investire per garantire entrambe le cose. Certo sarebbe assurdo (e potenzialmente più terrificante, Cina docet) sostituire il “Capitalismo della Sorveglianza” con uno stato di tipo orwelliano. Ma il vantaggio che hanno i sistemi democratici è che l’eventuale cessione di privacy in cambio di servizi migliori sarebbe non a favore di società private sulle quali le singole persone non hanno nessuna voce in capitolo, ma a favore di strutture e organi pubblici che ricadono all’interno di pratiche di partecipazione e controllo, soggette quindi al giudizio costante dei cittadini.

È arrivato il momento, non più procrastinabile, che il pubblico investa cospicuamente nei settori chiave della ricerca e si muova veloce verso lo sviluppo, in prima persona, di nuove tecnologie il cui utilizzo sia garantito a tutta la popolazione e i cui vantaggi economici contribuiscano alla redistribuzione della ricchezza e al sostegno di una “volontà generale” che non sia semplicemente la somma degli individui e dei loro interessi personali. Per farlo senza cadere in scenari orwelliani, è necessario che tali tecnologie vengano sviluppate valorizzando (e potenziando) le competenze presenti nelle università e nei centri di ricerca pubblici, ma soprattuto avendo come faro la trasparenza: sia nella programmazione, che nell’accesso e nell’utilizzo che lo Stato farà dei dati raccolti.

Come ci insegna la storia, e come conferma una recente indagine del CNR sulla fiducia nelle istituzioni in relazione al Coronavirus, gli Stati godono in momenti come questo di maggiore fiducia. Ma il vero banco di prova sarà quello della ricostruzione. Il pubblico non deve lasciarsi sfuggire l’opportunità di rilanciarsi in molti settori cruciali per l’economia e per il benessere dei cittadini. Per farlo dovrà superare con umiltà e senso critico i propri limiti e le proprie endemiche storture, ma anche guardando al futuro e intervenendo in quei settori che nei prossimi anni saranno l’ago della bilancia degli equilibri nazionali e internazionali.

 


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