A febbraio sono stati pubblicati i risultati di uno studio nel quale, grazie all'intelligenza artificiale, gli autori sono riusciti a individuare un nuovo antibiotico, potente ed efficace contro i batteri resistenti. È un risultato importante anche perché la produzione di nuovi antibiotici ha languito negli ultimi decenni, nonostante il problema della antibiotico-resistenza stia assumendo dimensioni preoccupanti. D'altra parte, gli antibiotici funzionano in maniera opposta al mercato, ossia se è usati per un periodo breve, finché l’infezione scompare, e va tanto meglio quanta meno gente lo usa. Quali sono le possibili soluzioni? Che lezione possiamo trarne anche per Covid-19? Crediti immagine: Karolina Grabowska/Pexels. Licenza: Pexels License
A febbraio 2020 la rivista Cell ha pubblicato i risultati di una ricerca particolarmente rilevante: un gruppo dell’MIT di Boston ha individuato un nuovo antibiotico molto potente e particolarmente efficace contro batteri resistenti usando l’intelligenza artificiale. I ricercatori hanno utilizzato un approccio non convenzionale: hanno addestrato l’algoritmo con 2500 molecole, con struttura e bioattività diverse alla ricerca delle caratteristiche che rendono queste molecole efficaci contro E. coli. Successivamente lo hanno testato su una libreria di circa 6.000 composti: il programma ha estratto una molecola che presentava una potenziale attività antibatterica molto forte, con una struttura chimica diversa da quella degli antibiotici noti. Con un approccio parallelo, è stato poi previsto che la molecola doveva presentare bassa tossicità per cellule umane. Il gruppo ha poi eseguito test in vitro e successivamente in vivo su due ceppi di topi: si è dimostrata in grado di uccidere moltissimi ceppi batterici, alcuni altamente resistenti, fra cui Acinetobacter baumannii, un batterio che ha infettato molti soldati americani in Iraq e Afghanistan, resistente a tutti gli antibiotici noti.
Antibiotici, una produzione anemica
La molecola, già oggetto di studio come potenziale farmaco antidiabete, è stata battezzata Halicin, da Hal, il computer di 2001: Odissea nello spazio. Dagli studi preliminari risulta che il farmaco agisce distruggendo il gradiente elettrochimico fra interno ed esterno del batterio, necessario per la sintesi di ATP, la fonte di energia per la cellula batterica. Trattandosi di una molecola che probabilmente si associa a componenti della membrana, è molto più difficile che una o due mutazioni possano modificarne la struttura e quindi sviluppare resistenza.
Il gruppo di ricerca, coordinato da James Collins e Regina Barzilay, sta usando lo stesso approccio per interrogare altre e più estese banche dati; ha già identificato altre molecole con potente attività antibatterica, e si propone di addestrare l’algoritmo a individuare modificazioni strutturali di antibiotici già noti che ne possano ridurre gli effetti nocivi, ad es. sulla flora batterica intestinale.
Al di là della loro rilevanza scientifica e al sostanziale cambio di paradigma nella ricerca di nuovi farmaci, questi risultati sono di estrema importanza per le prospettive applicative. La produzione di nuovi antibiotici ha languito molto negli ultimi decenni, e questo nonostante il problema della antibiotico-resistenza stia assumendo dimensioni preoccupanti con la previsione di 10 milioni di morti nei prossimi 30 anni. Ma i costi dello sviluppo di nuove molecole sono molto elevati, e in genere si punta a piccole varianti di farmaci già esistenti. “Siamo di fronte a una crescente crisi nel campo dell’antibiotico-resistenza, dovuta all’aumento dei patogeni resistenti agli antibiotici noti, e la linea di sviluppo di nuovi antibiotici da parte dell’industria farmaceutica è anemica” ha dichiarato Collins. I ricercatori si propongono ora di trovare un partner per lo sviluppo e la produzione dell’Halicin per uso umano: un'industria ma anche un’organizzazione non profit, come hanno dichiarato.
E qui arriva il problema grosso. Come riporta un articolo del New Yorker del 6 aprile, “…il mercato non è incoraggiato a sviluppare farmaci per le infezioni acute. I grossi investimenti sono stati per le malattie croniche, come l’AIDS e l’epatite B… Come ha dichiarato un ricercatore della John Hopkins, è uno di quei casi in cui l’economia di mercato tradizionale non funziona tanto bene”. Eh già, non funziona tanto bene.. in alcuni casi sembra funzioni addirittura male.
Mercato e antibiotici: direzioni opposte
Su questo nodo vale la pena di segnalare un articolo della versione online di Jacobin, rivista della sinistra radical USA. L’articolo descrive il processo che ha portato alla scoperta dell’Halicin e al suo impatto scientifico in maniera molto accurata (un esempio di come la tradizione anglosassone sappia conciliare giornalismo impegnato e competenza scientifica), e legge la notizia in un’ottica ottimistica: usando creativamente la scienza si possono ottenere risultati in grado di migliorare la qualità della nostra vita. Il nuovo approccio può contribuire a ridurre i costi dello sviluppo di nuovi e più efficaci antibiotici, ma il problema resta: gli antibiotici funzionano in maniera opposta a come funziona il mercato. In altre parole, l’antibiotico funziona se è usato per poche settimane o mesi, finché l’infezione scompare, e va tanto meglio quanta meno gente lo usa. Certo, ci sono piccole e medie aziende, in molti casi spin-off di laboratori pubblici, che cercano di riempire il vuoto, ma sovente non hanno i capitali per arrivare fino alla produzione. E se questo può migliorare la situazione, non è la soluzione. Inoltre, dopo la scoperta di un nuovo farmaco ci sono i trial clinici e altri costi molto pesanti. Secondo l’articolo, è lo stesso fallimento del mercato che si è verificato per lo sviluppo di farmaci per altre patologie non così “attraenti”, dalle malattie tropicali allo sviluppo di diagnostici per i Paesi in via di sviluppo.
Sono state avanzate varie proposte per affrontate questo fallimento, da maggiori sussidi alle imprese private, più fondi alla ricerca, fino all’idea di pagare un’assicurazione alle compagnie per sviluppare antibiotici necessari ma non profittevoli; si sono moltiplicate le iniziative internazionali che puntano a creare incentivi per la R&D e la produzione di antibiotici. L’articolo le considera utili ma non risolutive del problema alla radice. E allora la soluzione proposta è la nazionalizzazione dell’industria farmaceutica (in realtà, il titolo parla curiosamente di “socializzazione”, termine più aperto, ma anche più difficile da definire). Soluzioni intermedie, come la creazione di aziende pubbliche, si avvicinano alla soluzione, ma non toccano il potere e lo spazio occupato da Big Pharma.
Due osservazioni finali: l’ottica sostanzialmente socialdemocratica (in salsa USA, un po’ particolare) della rivista consente di non considerare una proposta del genere così estranea al dibattito presente in quel Paese, che vede larghe fasce di opinione pubblica favorevoli all’opzione Medicare for All, cioè un sistema sanitario pubblico universale e obbligatorio. E poi, come riportato di recente su Scienza in rete, un recente articolo della rivista dei Gesuiti avanza l’ipotesi di “nazionalizzazione delle imprese non sostenibili” in riferimento all'emergenza Covid-19. Certo nazionalizzare, o far prevalere in altre forme l'interesse pubblico nelle emergenze santarie, non è un gioco da ragazzi: ma è significativo che sulle due sponde dell’Atlantico, toccate da una crisi senza precedenti, la gente provi a pensarci.