Le ipotesi ai tempi del Coronavirus sono un capitolo affascinante e potrebbero dare origine a un’enciclopedia praticamente infinita. Danno conto di una grande vivacità intellettuale, del desiderio di molti di contribuire a trovare soluzioni per uscire dalla crisi e si alimentano su una circolazione vorticosa di informazioni. Le ipotesi emergono, vengono moltiplicate, talune rimangono sospese, altre discusse perché confermano convinzioni consolidate o le ribaltano a sorpresa, sollecitano reazioni o smuovono emozioni. E in questo periodo la necessità di attrarre l’attenzione è massima, perché si parla sempre e solo dell’emergenza in corso, e chi accede ai media tradizionali o ai social lo fa per avere notizie, capire gli andamenti, immaginare le prospettive. Lo testimonia l’enorme ascolto del bollettino quotidiano delle 18 della Protezione Civile, che ha fatto familiarizzare i più con materie quali l’epidemiologia, la virologia, la modellistica.
D’altra parte, i media, si sa, vanno alla ricerca di emozioni e sollecitano aspettative, e spesso aumentano la percezione del rischio, l’incertezza e la paura, come abbiamo scritto qui. I ricercatori sono sollecitati a dare risultati nuovi e le ipotesi si moltiplicano, si accumulano, si modificano con velocità straordinaria, soprattutto quando donne e uomini di scienza vengono interpellati come esperti, devono quindi rispondere su tanti aspetti diversi da quelli che hanno coltivato a fondo, e le loro idee vengono proiettate in diretta nell’agone delle decisioni politiche.
La scienza è presente nel dibattito, i cittadini e i portatori dei diversi interessi si affacciano e prendono la parola, e l’occasione va colta al volo per aprire ancora di più la scienza al dialogo con la società, sulle domande di ricerca, sulla genesi e l’uso delle ipotesi. La pandemia da SARS-COV-2 nella sua drammaticità offre un banco di prova formidabile per un salto nel futuro, assai poco prevedibile e quindi aperto ai miglioramenti che ciascuno riuscirà ad immaginare e apportare.
Scienziati o esperti
In soli due mesi si sono accumulati con progressione crescente migliaia di documenti di fonte scientifici, dagli articoli su riviste accreditate con peer-review, a editoriali, lettere, pre-print (senza peer-review) in tutte le discipline collegate al nuovo coronavirus SARS-CoV-2 e alla sua malattia respiratoria COVID-19. Studi sul virus, sui meccanismi di trasmissione, sul trattamento, la prevenzione del contagio, i sintomi, la comorbilità, i cofattori, il ruolo dell’esposizione a particolato atmosferico, producono un turbinio di conclusioni definite “risultati”, di cui è difficile capire le premesse, i metodi e l’ipotesi.
Per capire la rilevanza pubblica delle ipotesi è importante distinguere tra il ruolo dello scienziato e quello dell’esperto. Lo scienziato decide oggetto e domande d’indagine; l’esperto - colui che vanta un’esperienza di valore riconosciuto - è chiamato ad applicare conoscenze e capacità di giudizio a un quesito che altri gli pongono. Questo solleva una serie di problemi:
- la risposta al quesito spesso non è riconducibile a un campo disciplinare preciso. Il Covid-19 solleva contemporaneamente aspetti virologici, epidemiologi, di ordine pubblico, economici, sociali, di organizzazione dei servizi ospedalieri, e così via;
- occorre dare una risposta al quesito, in tempi stretti o comunque entro una scadenza precisa, quasi sempre non congrui per lo scienziato per concludere una ricerca che, oltretutto, spesso si conclude con un punto di domanda, che richiama una ulteriore fase di studio;
- la multidimensionalità del quesito fa inoltre sì che spesso l’esperto dia una risposta che trascende i confini di quanto, restando nel recinto della propria disciplina, sarebbe autorizzato a dire, scatenando conflitti e polemiche solo in parte riconducibili alle controversie scientifiche strettamente intese;
- oltre che il contenuto del quesito, conta - molto - chi lo pone. Per qualcuno è più importante fare in modo di minimizzare le apparenze erronee di fenomeni inesistenti (falsi positivi), il che in genere richiede di restringere il campo delle variabili sotto esame; per altri prevale l’interesse a minimizzare la mancata “cattura” di fenomeni reali (falsi negativi), che richiede invece in genere attenzione alle interazioni tra molte variabili. Tra i primi si collocano, da una parte i ricercatori (che non vogliono essere “sviati” da false evidenze) e dell’altra le industrie (che non vogliono fare spese sbagliate o inutili, per esempio dotandosi di misure di sicurezza ridondanti); tra i secondi gli utilizzatori di tecnologie e tutti coloro, tra cui i generici cittadini, che desiderano si tenga conto il più possibile della complessità del reale, evitando falsi negativi anche accettando più falsi positivi.
Uso pubblico della scienza
Molti anni fa l’epidemiologo Austin Bradford Hill (The environment and disease: association or causation?, 1965) sostenne che la quantità di prove sufficienti per esprimere un giudizio esperto è legata alla posta in gioco (sociale ed economica, ma potremmo aggiungere politica): al crescere della seconda si alza l’asticella della prima. Dunque i criteri disciplinari per il controllo delle ipotesi si adattano in certa misura al contesto. E quanto più la scienza assume rilievo nelle faccende umane (perché implicata in tecnologie sempre più pervasive nella vita individuale e collettiva e perché aumenta la pretesa di controllo sulla realtà), tanto più la linea divisoria tra scienziato ed esperto si fa sfumata. Tutto ciò ha importanti risvolti rispetto all’uso pubblico della scienza, e quindi delle ipotesi.
Da un lato l’esperto interpellato chiede affidamento. Dall’altro, quando le cose volgono al peggio, torna alla ribalta lo scienziato, che ricorda la natura imperfetta di ogni sapere scientifico (avvicinandosi a volte pericolosamente al senso comune: all’inizio dell’epidemia alcuni virologi hanno proclamato la sua scarsa rilevanza, per poi, di fronte al dramma, ribaltare il proprio giudizio). Questo “doppio binario” si applica tanto al rapporto con i cittadini, spesso rimproverati per una presunta richiesta di certezza (che è semmai richiesta di chiarezza sui limiti di ciò che si può dire), quanto al rapporto con i politici, dove si assiste a un caratteristico rimpallo di responsabilità (“noi diamo solo un parere per quanto di nostra competenza” vs. “noi ci basiamo su quello che dicono i tecnici”) che fa sì che la decisione finisca non di rado per apparire acefala.
Di ciò l’emergenza Covid-19 offre ampia documentazione, mostrando l’urgente necessità di affrontare il tema dell’uso pubblico della scienza in maniera rigorosa, chiarendo le condizioni di trasparenza comunicativa che fanno da presupposto alla condivisione della responsabilità tra scienziati, decisori e cittadini. Tra i vizi principali del dualismo scienziato-esperto e del suo uso/abuso colpiscono due elementi che riguardano la responsabilità: - a priori, la mancanza di trasparenza sui limiti del proprio sapere oltre che sui conflitti di interessi, - a posteriori, l’esplicitazione da parte dei decisori dell’uso di quanto detto dagli scienziati e dagli esperti. Non è raro infatti che lo scienziato si ripari nell’incertezza, che l’esperto oltrepassi con nonchalance la propria disciplina, che il decisore non chiarisca quanto le decisioni siano basate su dati scientifici ed extra-scientifici. Gli effetti non possono che essere negativi, in particolare perché aumenta il rumore di fondo e non si mettono le persone nelle condizioni di capire e valutare.
Ma cosa sono le ipotesi
“Ipotesi” deriva dal greco, hypo (sotto) e thesis (posizione), una supposizione che prelude un ragionamento, o – in altre parole - qualsiasi congettura lanciata in una forma in grado di essere testata e confutata. Nel metodo scientifico, dopo Galilei e Newton, la formulazione di un’ipotesi nasce dall’osservazione, e dovrà poi essere confermata o confutata con l’esperimento, aderendo a un approccio induttivo (conclusioni generali da osservazione di casi particolari). Aderendo all’approccio induttivo, si va avanti con metodo analitico basato sul fare esperimenti e/o osservazioni per trarre conclusioni generali, non ammettendo contro di esse delle obiezioni, a meno che non siano derivate da esperimenti o da altre fonti attendibili e verificabili. Il metodo a cui si fa riferimento (detto sintetico) non è certo nuovo: consiste nell’assumere come princípi le cause scoperte e provate e, mediante queste, spiegare i fenomeni che ne derivano e provare tali spiegazioni. (Isac Newton, Antologia, Paravia, Torino, 1963).
Con la celebre frase “hypotheses non fingo” (non invento ipotesi), Newton calava l’ipotesi nella realtà, in quanto prodotto dell’osservazione diretta dei fenomeni. L’ipotesi è dunque il perno della ricerca scientifica e ne ha in larga misura determinato il progresso, abituandoci ad accettare la natura “provvisoria” di ogni teoria scientifica, basata su un’ipotesi momentanea, della quale non possiamo stabilire con certezza la veridicità e che sappiamo, o dovremmo sapere, essere soggetta a cambiamenti.
Una delle metafore più efficaci la dobbiamo a Einstein e Infeld, quando vedono lo scienziato che studia la natura come un curioso che guarda un orologio, lo può aprire e anche smontare, può arrivare a ipotizzare un meccanismo che spiega il movimento delle lancette e il ticchettio, ma non è in grado di stabilire se il suo modello ipotetico corrisponda o meno alla realtà (L’evoluzione della fisica, Bollati Boringhieri, 2011) L’ipotesi è dunque al contempo base e strumento per far progredire le conoscenza e gioca un ruolo chiave per le conseguenze, sul piano scientifico (persuasività dei risultati raggiunti o necessità di ulteriori studi), tecnologico, di comunicazione pubblica. Ma, proprio per queste caratteristiche, l’ipotesi è anche un “oggetto” delicato perché, una volta definita, è lei che “trascina” il ricercatore, che conduce e condiziona lo studio e che dunque influisce sulle conseguenze.
È innegabile che il ricercatore sia attratto dalla possibilità di pervenire rapidamente a una conclusione “universale”, ma siccome l’ipotesi non è un convincimento soggettivo né un preconcetto, ci sono almeno due elementi da non sottovalutare:
- l’ipotesi deve essere “robusta”, cioè basata su un razionale argomentato e ragionevole, sebbene nella ricerca devono trovare ampio spazio anche ipotesi meno solide e talvolta anche fantasiose, perché da queste possono emergere scoperte più innovative;
- non devono emergere dati in contrasto coi fenomeni osservati, e qualora dovessero emergere il tutto si complica maledettamente perché si dovrà definire una conclusione che si accordi con le eccezioni. Ecco quindi che è cruciale chiedersi come si forma l’ipotesi, un argomento niente affatto semplice e univoco, perché è immerso nella realtà e quindi si deve contestualizzare.
Scienza “normale” in situazione “post-normale”?
In situazione di crisi planetaria, come la pandemia da Covid-19, i rischi del riduzionismo implicito nella scienza “normale” - basata sulla semplificazione di fenomeni complessi, sull’osservazione in laboratorio, su ripetibilità e falsificabilità, orientata alla ricerca di verità anche se provvisorie - dovrebbero essere considerati alla luce dell’urgenza, dell’incertezza dei fatti, dei valori in discussione, degli interessi elevati e delle decisioni urgenti, con un paradigma come quello della scienza post-normale. (Futowicz S. e Ravetz J.R., Environmental problems, post-normal science, and extended peer communities, Etud. Rech. Syst. Agraires Dév. 30: 169-175, 1997).
Secondo la scienza post-normale, quando si verificano quattro condizioni - le decisioni sono urgenti, l’incertezza è massima, sono in discussione i valori delle persone e quelli sociali e ci sono forti interessi in campo – la scienza può trovare il suo spazio ampliando gli spazi di trasparenza, aprendosi alla discussione pubblica e alla condivisione in tutte le fasi della ricerca. Oggi la “scienza dei cittadini” e le esperienze di partecipazione sviluppate da alcune regioni italiane (leggi in Toscana, Emilia-Romagna e Puglia) potrebbero fornire strumenti potenti e agili per facilitare il dialogo.
I teorici della scienza post-normale affermano che oggi si sta verificando “un collasso generalizzato nel consenso epistemico necessario a far funzionare la scienza. Succede non solo in campi prevedibili – la psicologia comportamentale, la sociologia, l’etica – ma anche in virologia, genetica, epidemiologia. In altre parole, quando gli ‘scienziati applicati’ e i ‘consulenti professionali’ non si trovano più nella propria ‘zona di confort’ ma si trovano in un contesto post-normale” e così cambia significato sia la preparazione acquisita che i motivi per cui si opera. (Post-normal pandemics: why Covid-19 requires a new approach to science, Waltner-Toews et al., Post su Steps Centre, 25 marzo 2020).
In un contesto post-normale la scienza è esposta al massimo allo scrutinio da parte della società, che ne ha bisogno, ma la trasforma e la mette a nudo, continuando a porre domande sempre più scomode. I conflitti tra scienziati difficilmente possono essere tenuti nascosti, anche per la “disintermediazione” dei social media, e, come vediamo in questi giorni, possono avere effetti deflagranti.
In situazioni complesse come quella che stiamo vivendo l’identificazione di ipotesi da sottoporre a test è esposta a una forte tensione, perché da una parte non si può semplificare e dall’altra non ci si può disperdere in troppi rivoli e tentativi perché c’è l’urgenza di dare risultati alla società, e occorre trovare un equilibrio tra le due esigenze.
Al netto di evidenti fenomeni di autopromozione, quello che colpisce oggi è l’enorme quantità di ipotesi sul tappeto. Questo è senza dubbio sintomo di ricchezza e vitalità, e chiama in causa la capacità di definire priorità, un compito che riguarda la comunità scientifica, non isolata ma in relazione con la società. In una fase in cui si sprecano gli appelli alla multi e inter-disciplinarietà si tratta di affrontare, anche alla luce di COVID19, la ricerca delle connessioni possibili tra le diverse discipline (teoria dei sistemi) e di riflettere su qual è la responsabilità di chi formula le ipotesi, di chi le diffonde e per capire il loro utilizzo.