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Test antigenico per il coronavirus

Per una terapia precice e mirata di Covid-19 servirebbe un test diagnostico privo dei limiti della PCR attualmente impiegata, che richiede molto tempo, tecnologie specifiche e operatori preparati; allo stesso tempo, il test sierologico non è una risposta del tutto valida. Ora si accentua l'attenzione su una terza via, quella dei test antigenici, già impiegati per la diagnosi di altre patologie virali, che rilevano la frazione proteica della superficie virale riconosciuta dal sistema immunitario. Non tutti i ricercatori, però, sono convinti.
Crediti immagine: fernando zhiminaicela/Pixabay. Licenza: Pixabay License

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Un trattamento tempestivo nelle fasi iniziali di una malattia è essenziale per prevenirne le complicanze: l’ha dolorosamente insegnato Covid-19 in questi primi mesi del 2020. Sparare a qualsiasi cosa si muova, pur di non mancare il bersaglio, implica spreco di cartucce e danni collaterali da “fuoco amico” (chi aveva un’infezione non da SARS-CoV-2 ma da un più mansueto virus parainfluenzale, può ritrovarsi con una pericolosa aritmia innescata dal cocktail idrossiclorochina- azitromicina) ma, per converso, prescrivere solo vitamina C e tachipirina a un paziente con puntini rossi sulle mani, mal di gola e febbricola incostante, rischia di lasciarlo aggravare fino a doverlo ventilare meccanicamente.

Per una terapia precoce e mirata sarebbe dunque necessario un test diagnostico della fase acuta che non avesse i limiti, per ora difficilmente sormontabili, dell’attuale “tampone”. Il gold standard diagnostico di Covid-19, infatti, è il test PCR (polymerase chain reaction, reazione a catena della polimerasi) che funziona in questo modo: il materiale genetico del virus (RNA), raccolto infilando un tampone in fondo a una narice e/o alla gola del potenziale infettato, viene copiato milioni di volte (amplificato) fino a che può essere rilevato. Ciò richiede molto tempo (i risultati ci mettono giorni ad arrivare), tecnologie dedicate e personale addestrato; è difficile immaginare di poter aumentare il numero dei test eseguiti fino a coprire le necessità di lavoratori, studenti o, comunque, cittadini che devono riprendere a muoversi in un’intera nazione.

Neppure il test sierologico che ricerca gli anticorpi e, quindi, dimostra l’avvenuto contatto con il virus, è una risposta completamente valida, per l’ambiguità del rapporto tra la sensibilità del test e il suo potere predittivo positivo, come già spiegato in altri articoli di questo stesso portale.

È ora all’attenzione la possibilità che esista una terza via (cui ha accennato in un articolo su Scienza in rete anche Maria Capobianchi, direttrice del laboratorio di virologia dell’IRCCS Spallanzani) che passa per lo sviluppo di un test che ricerca la frazione proteica della superficie virale che funge da antigene, elicitando la risposta anticorpale dell’organismo. Un test del genere non sarebbe una novità: è già stato messo a punto per la diagnosi precoce di altre malattie virali, come la Dengue, che viene diagnosticata dal ritrovamento dell’antigene NS1 del virus prima che avvenga la sieroconversione (con la formazione degli anticorpi IgM), oppure come Ebola, in cui i marcatori virali sono le proteine virali strutturale NP e di membrana GP e VP40, oppure, ancora, come l’infezione da HIV, in cui si cerca l’antigene p24. Questi antigeni siti sulla superficie a spunzoni (i cosiddetti spike) del coronavirus sarebbero abbastanza grandi da poter essere studiati (e in un tempo molto breve) senza bisogno di amplificarli; ma per sapere quali proteine cercare, occorrono quelle conoscenze sulla biologia e sulla struttura del virus che solo ora i virologi stanno acquisendo.

Anche per il test antigenico (su cui stanno lavorando laboratori di tutto il mondo e, in particolare, degli Stati Uniti), il campione organico studiato viene raccolto nel paziente con tampone nasale e poi messo in una soluzione a contatto con strisce di carta che contengono anticorpi artificiali; il legame che si crea tra questi ultimi e gli antigeni del coronavirus è visibile con una risposta del tipo sì/no, per la cui lettura non occorre un addestramento particolare e che si ottiene in circa mezz’ora di tempo, a un costo inferiore a quello del test PCR.

L’entusiasmo per la prospettiva del test antigenico non ha, però, contagiato tutti i ricercatori: quelli dei laboratori clinici dell’Università di Pittsburgh, per esempio, dubitano che possa funzionare, proprio a causa del tropismo del virus. Il SARS-CoV-2 è un virus che si annida nell’apparato respiratorio e non in tutti i soggetti è reperibile sulle mucose delle vie aere più alte. Questa variabilità è già stata vista in altri virus respiratori: il test antigenico per l’influenza, per esempio, ha una sensibilità tra il 70 e l’80% se il tampone nasale è fatto ai bambini, ma solo del 50% se il tampone è fatto agli adulti. Con il test PCR, in cui il materiale genetico è amplificato, di solito si riesce a scovare il virus nel muco nasale (anche se esistono i falsi negativi); in assenza di amplificazione, la probabilità di intercettare il virus è ignota. In effetti, le aziende che lo studiano attribuiscono al test antigenico una sensibilità del 90%, solo in base a prove di laboratorio: manca ancora la validazione sui campioni provenienti da pazienti.

Se il test per la ricerca dell’antigene virale acquisirà questo lasciapassare, andrà non a sostituire il test PCR, ma ad affiancarlo, per aumentare la probabilità di indagare sull’epidemiologia dell’infezione nella popolazione generale. Negli Stati Uniti, la Food and Drug Administration ha deciso di collaborare rilasciando autorizzazioni d'emergenza, in modo che le aziende possano introdurre nuovi test che sia possibile eseguire in laboratori decentrati o, addirittura, al proprio domicilio.

 

Bibliografia 

 


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