Ormai è certo: il lockdown dell’Italia ha prodotto importanti effetti sulla riduzione della trasmissione di COVID 19. Uno studio appena pubblicato su PNAS [1] quantifica questa riduzione intorno al 45% fino al 25 aprile, mentre i ricoveri evitati sarebbero circa 200.000. Ora però siamo nella “fase due”, le cose cambiano: qualcosa è più semplice, qualcosa più difficile. E’ il momento di fare qualche piccolo bilancio e qualche previsione. Ne abbiamo parlato con Gianni Rezza, direttore del dipartimento malattie infettive dell’Istituto Superiore di Sanità (ISS).
Partiamo dal rapporto ISTAT e ISS sulla mortalità per tutte le cause nel primo trimestre del 2020 appena pubblicato. Dal 20 febbraio al 31 marzo l'eccesso dei decessi riscontrato è di 25.354 unità, il 49,4% in più rispetto all’atteso. Tutta colpa di COVID 19?
I dati confermano un aumento di mortalità dovuta in gran parte all’effetto diretto del virus. Circa 14.000 sono i morti certificati COVID 19 dai sistemi di sorveglianza, quindi persone a cui era stato eseguito il tampone. Per gli altri oltre 11.000 decessi non è ancora stata fatta l’analisi per cause di morte, tuttavia si può ipotizzare: una mortalità direttamente correlata al virus che riguarda le persone morte per COVID, ma alle quali non era stato fatto il tampone e quindi la malattia non era stata diagnosticata, ad esempio gli anziani nelle RSA; una mortalità indiretta correlata al virus, causata da disfunzione di altri organi sempre in persone che non avevano fatto il tampone; infine una mortalità indiretta non attribuibile a COVID 19, ma probabilmente alla congestione delle strutture ospedaliere e alla paura di recarsi in ospedale nelle aree maggiormente affette, ad esempio persone che dovevano andare in terapia intensiva ma non hanno trovato posto.
Colpisce la divisione dell’Italia in tre zone nettamente distinte: il 91% dell’eccesso di mortalità si concentra nelle aree più colpite dall’epidemia.
E’ così. L’epidemia si è concentrata in alcune aree del nord, con una partenza casuale. Il virus è entrato là, anche se non sappiamo da dove. Il lockdown precoce per le aree del centro sud le ha salvaguardate dalla diffusione più grave. E la mortalità rispecchia questo fenomeno.
Ora siamo nella fase due e punti cruciali diventano la sorveglianza e l’individuazione precoce di nuovi casi. All’inizio della pandemia però questa strategia non ha funzionato, non ci si è accorti che il contagio era partito e questo ha significato molti casi tra il personale sanitario. Perché oggi le cose dovrebbero andare meglio?
All’inizio c’è stato un fattore confondente perché la sfortuna ha voluto che la pandemia di COVID 19 abbia coinciso con il picco dell’epidemia influenzale. L’Oms ha cominciato a parlare di controllo sulle persone che avevano avuto contatti con la Cina, ma a quel punto qualcuno, arrivato dalla Cina con febbre e tosse, aveva già dato il via alla catena di contagio in Italia. La prima diagnosi è del 20 febbraio, ma il virus circolava già a gennaio, quindi l’origine cinese si è persa e le persone che avevano la febbre ma non avevano viaggiato e non avevano avuto contatti con la Cina spesso sono state confuse con i casi di influenza o di polmonite comunitaria. Oggi qualsiasi febbre si sospetta sia provocata da SARS COV 2 e questo dovrebbe rendere tutto più semplice. Però c’è un punto critico: se da un lato le strutture ospedaliere sono state adeguate con la creazione degli ospedali COVID e l’aumento delle terapie intensive, dall’altro vanno ancora rafforzate le strutture territoriali. Nella fase due molto si gioca sul contact tracing: bisogna identificare i casi precocemente, testarli, rintracciare i loro contatti e possibilmente testare anche i contatti. Oggi noi chiediamo due tamponi negativi per uscire dall’isolamento, ma probabilmente a quel punto la persona è già meno contagiosa, mentre il massimo della contagiosità c’è quando compaiono i sintomi, quindi l’attenzione deve essere posta sulla fase iniziale dell’infezione. I medici di base, i dipartimenti di prevenzione sul territorio diventano allora fondamentali per identificare i focolai e contenerli, altrimenti l’epidemia riparte, magari in forme diverse ma comunque pericolose. Ci vuole personale nuovo e addestrato, so che i fondi già ci sono. Di positivo c’è anche che le regioni nel frattempo hanno imparato a creare le zone rosse che permettono di arginare la diffusione prima di arrivare a un nuovo lockdown che sarebbe davvero problematico.
C’è chi ha detto che le scelte su come organizzare la fase 2 sono state basate sugli scenari più pessimistici ma proprio per questo meno realistici. Si poteva fare diversamente? Ad esempio si poteva pensare a una riapertura delle scuole, visto che i bambini sembrano meno soggetti ad ammalarsi?
Ogni cosa che riapri è un rischio in più. Il virus continua a circolare e le scuole sono un punto critico: con l’influenza lo sappiamo per certo che le scuole si comportano come luoghi amplificatori dell’epidemia. I bambini si ammalano meno di COVID 19, ma non è detto che trasmettano meno la malattia poiché la carica virale non sembra più bassa. Si potrebbe dire che non avendo sintomi come la tosse, siano meno contagiosi, ma è un azzardo scommettere su questa ipotesi. Forse i paesi che hanno una struttura familiare diversa dalla nostra possono pensare a riaprire le scuole, ma da noi i bambini spesso stanno con i nonni: se apri le scuole, allora dovresti segregare gli anziani. Insomma, in mancanza di evidenze forti, io penso sia meglio attenersi al principio di precauzione, c’è chi invece preferisce giocare d’azzardo. In ogni caso va ricordato che i tecnici dicono la loro, ma la scelta la fanno sempre i politici.
C’è anche chi dice che la fase 2 avrebbe potuto essere diversa da una regione all’altra…
Gli indicatori in questo caso sono diversi e spesso contrastanti tra loro. Qualcuno dice riapriamo nelle regioni che hanno meno casi, qualcuno dice invece riapriamo nelle regioni che hanno più capacità di risposta, qualcun altro dice nelle regioni più produttive. Io personalmente sono favorevole a provvedimenti su scala nazionale, in un secondo momento le singole regioni possono operare degli adattamenti delle regole generali e lo fanno. Poi magari qualcuno eccede.
Nei giorni scorsi si è parlato di un piano segreto pronto a gennaio sulla base del quale il governo avrebbe operato le scelte di chiusura. A parte le letture complottistiche, perché i rapporti su cui si basano le decisioni politiche non vengono resi pubblici? Non è importante che la gente sappia su quali basi si fanno determinate scelte?
Il piano di contingenza è stato fatto con la Fondazione Bruno Kessler che è il gruppo internazionale più produttivo su questi temi e proponeva diversi modelli. Quello che mi ha stupito è che giornalisti e colleghi abbiano preso di quel piano solo lo scenario peggiore che è quello al di sotto del quale tutto è possibile. Tra gli scenari proposti in realtà non si è scelto il peggiore per impostare le misure perché altrimenti avremmo dovuto decuplicare le terapie intensive non aumentarle del 50%. Per quanto riguarda la secretazione del piano non dipendeva da noi, anche perché i dati scientifici vengono poi pubblicati sulle riviste quindi non c’è nessun motivo di segretezza. Immagino che non divulgarlo facesse parte di regole della task force e che la preoccupazione potesse essere quella di spaventare la popolazione. Peraltro, il fatto di non averli resi pubblici ha anche dato l’idea che l’ISS non li avesse preparati, invece erano lì.
Dal 2003 l’OMS esorta a dotarsi di un piano di emergenza pandemico. Il nostro paese come si è attrezzato? E il piano si è rivelato utile in questo frangente?
Il piano pandemico venne fatto dal ministero prima del 2009, quando ci fu la pandemia influenzale causata dal virus H1N1. Le stime in quel caso erano sbagliate perché la pandemia si rivelò più lieve di quello che ci si attendeva. In generale, comunque, potremmo dire che i piani pandemici sono esercizi, ma se poi per anni e anni si trascura la sanità e si assiste a una diminuzione dei posti ospedalieri, un invecchiamento della popolazione dei medici, un depauperamento delle strutture di sanità pubblica, il piano rimane solo carta. E poi noi scontiamo vecchi vizi, ad esempio il controllo delle infezioni non è il nostro forte: lo vediamo con l’antibiotico resistenza che nel nostro paese è molto presente. Ma problemi importanti come le infezioni ospedaliere sono stati condivisi da altri paesi europei, il paese che si è dimostrato più organizzato mi pare la Germania. Lì ad esempio numero di posti in terapia intensiva è enorme, ma bisogna ricordare che la Germania spende in sanità molto più dell’Italia. Inoltre, ha dimostrato anche un ottimo controllo del territorio, ad esempio ha fatto molti tamponi in modo mirato non solo per la ricerca dei casi ma anche per il controllo dei contatti.
La Germania ha anche un tasso di letalità più basso di tutti gli altri paesi europei e quasi un terzo rispetto al nostro. Come si spiega?
Qualcuno ha ipotizzato che i tedeschi attribuissero i decessi a COVID 19 in maniera non del tutto conforme alla nostra, ma bisognerebbe verificarlo. La letalità minore probabilmente dipende dal fatto che nel rapporto tra decessi e contagiati il denominatore è più alto, ovvero sono state individuate più persone contagiate asintomatiche. Quindi il rapporto tra morti e contagiati che esprime la letalità della malattia è più basso. Forse hanno avuto anche meno focolai negli ospedali, mentre le RSA sono state un problema ovunque. Comunque, ci troviamo di fronte a un paese ricco, organizzato e con una struttura sociale diversa dalla nostra.
All’inizio della pandemia si è detto: se non possiamo diminuire il numero di casi, è meglio spalmarli nel tempo per poterli assistere tutti. Ora sappiamo che le misure di restrizione hanno funzionato, ma ci siamo limitati a spalmare i casi nel tempo o pensiamo di poter ridurre a zero il numero di persone contagiate?
Per azzerare il numero di contagi si dovrebbe fare il lockdown perpetuo, ma noi sappiamo che il Paese regge non più di 2-3 mesi di chiusura. Oggi il virus continua a circolare, si è bloccata soprattutto la trasmissione di comunità, ma per mandare a zero i contagi dovresti chiudere tutto a tempo indeterminato in tutti i paesi europei, come è stato fatto a Huan, mentre finora ogni paese è andato avanti per conto suo, solo recentemente sembra si sia raggiunta una qualche forma di collaborazione. Se anche si raggiungesse questo obiettivo, rimarrebbe la circolazione virale al di fuori dell’Europa. Insomma, pensare di raggiungere quota zero e fare il contenimento delle infezioni che arrivano da fuori è un po’ velleitario, sarebbe bello, ma probabilmente non è possibile. Allora teniamo duro fino a quando sarà disponibile il vaccino, perché non arriveremo all’immunità di popolazione. Già sarebbe un buon risultato tenere basso Rt per non congestionare gli ospedali.
Per bloccare le trasmissioni familiari qualcuno sostiene che si potrebbe isolare i contagiati evitando che trasmettano il virus a chi vive con loro, che ne pensa?
Si dovrebbe fare come in Cina, creando strutture dove chiudere tutti i contagiati e mettendo in quarantena i contatti. Ma in Europa non l’ha fatto nessuno, probabilmente perché questa soluzione si scontra non solo con problemi logistici, ma soprattutto con una concezione culturale europea che è diversa da quella cinese.
Note
1. Spread and dynamics of the COVID-19 epidemic in Italy: Effects of emergency containment measures, Marino Gatto, Enrico Bertuzzo, Lorenzo Mari, Stefano Miccoli, Luca Carraro,Renato Casagrandi, Andrea Rinaldo, Proceedings of the National Academy of Sciences Apr 2020, 202004978; DOI: 10.1073/pnas.2004978117.