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Plasmaterapia per Covid-19. Perché sì, perché no

Sono in fase di partenza studi nazionali e locali sull'impiego della plasmaterapia per i pazienti con Covid-19. Ma cosa sappiamo dell'efficacia di questa strategia?
Crediti immagine: Wikimedia Commons. Licenza: CC BY-SA 4.0

Tempo di lettura: 5 mins

Sono ai blocchi di partenza uno studio nazionale e diversi studi locali sul potenziale uso terapeutico della pratica clinica nota come “plasmaterapia”. Consiste nell’infondere ai pazienti il plasma, la parte priva di cellule del sangue, dei soggetto che sono guariti da Covid-19. Il plasma contiene anticorpi specifici contro il virus, almeno una frazione dei quali a potere neutralizzante, cioè in grado di prevenire l’infezione di nuove cellule nello stesso paziente (o dell’infezione nella popolazione se indotti da un vaccino).

La terapia di malattie infettive gravi o addirittura mortali con plasma di animali o di persone infettate, convalescenti o guarite, risale addirittura al 1893, quando fu impiegata per il trattamento della difterite (una malattia batterica anche mortale) e portò Emil Von Behring a essere insignito del primo Premio Nobel per la Medicina nel 1901, assieme al giapponese Shibasaburo Kitasato. Da allora, la terapia basata sull’infusione di plasma con anticorpi specifici per il patogeno in causa è puntualmente tornata alla ribalta contro l'influenza pandemica, il morbillo e, in anni più recenti, SARS e MERS (causate da coronavirus simili al SARS-CoV-2) ed Ebola. 

Per quanto riguarda il suo impiego per la terapia di Covid-19, il primo report scientifico dell’uso di questa antica pratica clinica è una preliminary communication a JAMA del 27 marzo 2020, nella quale si riporta di cinque pazienti cinesi molto gravi che sono stato trattati con possibile beneficio. In seguito, altri due report dalla Cina (6 a 15 aprile), per un totale di 16 pazienti gravi, hanno concluso che l’approccio sembra essere associato a un potenziale beneficio clinico e a non apparente tossicità, suggerendo che studi clinici debitamente controllati sarebbero stati giustificati e di potenziale importanza in assenza di una terapia validata per questa malattia virale. Recentemente, uno studio cinese condotto su sei pazienti molto gravi ha evidenziato un blocco della replicazione virale, ma non effetti terapeutici (5 dei 6 pazienti sono deceduti); ha tuttavia concluso che l’approccio potrebbe essere valido per pazienti meno gravi.

Questo approccio è perseguito, con clamore mediatico, anche in uno studio osservazionale condotto dall’IRCCS San Matteo di Pavia assieme all’Ospedale “Carlo Poma” di Mantova; al momento risulta che i risultati positivi su 58 pazienti siano sottomessi per pubblicazione a una rivista scientifica di rilievo.

Permangono molte perplessità scientifiche nel riproporre nel 2020 un approccio così empirico, che soffre di variabili difficili, se non impossibili, da controllare. Tra queste:

  1. la concentrazione di anticorpi totali e, soprattutto, di quelli neutralizzanti, che è variabile da donatore a donatore
  2. la logistica di prelievo, stoccaggio e distribuzione delle sacche (da un prelievo standard di 450 - 600 ml si ottengono mediamente due “dosi” per trasfusione)
  3. la dimostrata possibilità di eventi avversi (da una febbre moderata a reazioni allergiche fino al broncospasmo e altri danni del sistema cardio-respiratorio) nonché il rischio modesto, ma non trascurabile, di trasmissione di altre patologie infettive
  4. la preoccupazione di possibili effetti pro-coagulanti (effetto collaterale desiderato nel caso di Ebola, ma altamente negativo per COVID-19, sovente associata a patologie trombotiche e emboliche)
  5. Il problema della definizione di “donatore guarito” in considerazione della possibilità, riportata da più fonti, di falsi negativi, ovvero di persone infettate e non rilevate dal tampone diagnostico (il 4%, secondo uno studio recente su Nature Medicine

Uno dei pochi studi, randomizzati in doppio cieco, condotto in periodi recenti sui potenziali benefici della plasmaterapia è stato coordinato da Henry Clifford Lane (storico “braccio destro” di Anthony Fauci, Direttore dell’NIAID), NIAID, NIH di Bethesda, MD, USA (il più importante centro di ricerca pubblica degli USA e probabilmente del mondo). Lo studio ha riguardato 140 bambini e adulti con influenza, ai quali è stato somministrato plasma con alti livelli di anticorpi specifici e non ha dimostrato alcuna evidenza di miglioramento. Per questa ragione, relativamente a Covid-19, la plasmaterapia non sarà perseguita da questo team, che preferisce un approccio placebo-controlled basato sull’infusione di anticorpi concentrati che hanno il vantaggio di poter essere standardizzate per concentrazione e somministrati, a differenza del plasma, indipendentemente dal gruppo sanguigno.

Anche per Ebola, nel 2016 un team internazionale ha pubblicato i risultati negativi di uno studio su 84 pazienti africani che non hanno beneficiato della plasmaterapia in termini di sopravvivenza. Relativamente all’esigenza di verificare l’effettiva efficacia terapeutica della plasmaterapia mediante uno studio clinico controllato, oggi è possibile, oltre all’utilizzo di placebo e/o di plasma da donatori non infettati da Covid-19, utilizzare Remdesivir come standard of care emergenziale autorizzato recentemente dall’FDA americano (Scienza in rete ne ha parlato qui).

Nonostante queste considerazioni, da un recente editoriale del JAMA si apprende che, al 27 aprile 2020, negli USA 2.115 ospedali si sono registrati per poter infondere la plasmaterapia e abbiano arruolato quasi 6.000 pazienti, di cui 2.576 hanno già ricevuto plasma di pazienti convalescenti all’interno di quella policy definita “National Expanded Access Treatment Protocol” (EAP). Al riguardo, la FDA accetta la positività anticorpale come prova d'infezione precedente, sebbene non esista nessun test approvato a scopo terapeutico. I potenziali donatori, secondo l’FDA, devono essere asintomatici da 28 giorni o negativi per il tampone diagnostico da 14 per essere considerati tali, oltre ad avere le credenziali standard per essere donatori di sangue.

La Johns Hopkins University di Baltimora inoltre ha lanciato uno studio in triplo cieco su 150 adulti non ammalati, ma ad alto rischio di Covid-19, che riceveranno o plasma convalescente o plasma depletato degli anticorpi specifici entro 120 ore da un contatto ravvicinato con pazienti Covid-19. Infine, vanno anche considerati i costi associati all’intera procedura, sicuramente non trascurabili.

 


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