Secondo Heidegger è la parola che procura l’essere alle cose. Ma cosa accade quando sempre più cose ci appaiono attraverso uno schermo? L’implosione della socialità dettata dalla pandemia è il trionfo dell’infosfera. Nell'immagine, particolare di "Niente da vedere Niente da nascondere", di Alighiero Boetti, 1989.
“Dove non c’è linguaggio non c’è alcuna apertura dell’ente. Il linguaggio nominando l’ente per la prima volta lo fa accedere alla parola e all’apparire”. Se questo rigo e mezzo non vi ha indotto alla resa, conviene andare oltre e riconoscere a Martin Heidegger, probabilmente il più reazionario, antiscientista e influente tra i filosofi del ‘900, il merito di aver colto un aspetto della vita che può darci un grande aiuto a capire il nostro rapporto con la tecnologia. L’autore di Essere e tempo pensava al linguaggio dei poeti, alla potenza creatrice della poesia (“poesia” in tedesco è “creazione”, Dichtung è dichten), ma senza timore di lesa maestà possiamo oggi accostare al linguaggio poetico il linguaggio informatico, usare oltre (contro?) Heidegger l’intuizione di Heidegger e sostituire Alan Turing a Friedrich Hölderlin.
È la parola che procura l'essere
Alla ricerca del senso dell’essere, anzi dell’Essere con le E maiuscola, il filosofo tedesco trova nel linguaggio il suo avamposto nel mondo. Il modo in cui percepiamo fisicamente le cose, il modo in cui sogniamo e amiamo, quello in cui progettiamo il futuro o rievochiamo il passato, tutto accade nei limiti del linguaggio. Il “linguaggio è la casa dell’Essere” scrive Heidegger nella missiva più citata della filosofia occidentale, e l’uomo ne è il pastore. L’uomo cioè non possiede l’Essere ma ne è in qualche modo solo il custode, perché anche la più radicale volontà di potenza in tanto potrà esercitarsi sul mondo solo in quanto ogni cosa del mondo sarà stata dapprima riconosciuta, e tale riconoscimento avviene attraverso il linguaggio. Vedo le cose dopo averle nominate. “È la parola che procura l’essere alla cosa”, sintetizza magistralmente il filosofo.
Dove sei quando sei su Google Meet?
C’è da chiedersi quali siano oggi le parole che più di altre riescano a procurare l’essere alle cose, quale sia il linguaggio attraverso cui si accede al mondo. La risposta è sotto i nostri occhi. Se milioni di persone hanno potuto bypassare il lockdown e continuare a lavorare, istruirsi, procurarsi da mangiare, fare shopping e in qualche modo anche a socializzare pur rimanendo appartate (stare chiusi in “appartamenti” alla fine questo significa), è perché da tempo lì fuori qualcosa è cambiato. Le tecnologie hanno cablato la realtà in modo così capillare da trasformare il mondo in un ambiente abitabile da chiunque abbia uno smartphone. Agganciati alla rete, questi dispositivi sono come dei passaporti che invece di condurci in un altrove ci riconducono a noi stessi. Quando vedo mio figlio seguire una lezione insieme a tutti i suoi compagni di classe su Google Meet so che è nella sua stanza, lo vedo, ma so anche che è in un altro ambiente. Mi chiedo se in quel momento sia online o offline e mi rendo conto di non saper dare una risposta. Ma quel che è più interessante è il fatto che per lui, che fa la seconda elementare, molto probabilmente non avrebbe senso la domanda.
Il Covid e la fine della società di prossimità
Peter Weibel ha di recente sostenuto in un articolo dal titolo Virus, Virality, Virtuality Or: The Corona Virus, the Leviathan of the Proxy-Society che la pandemia ha accelerato processi già in corso di digitalizzazione dell’esistenza. È vero, lo hanno detto in tanti, ma non per questo l’osservazione perde di significato. Già dagli anni ’80 il teorico dei media invitava a considerare il ‘900 come il secolo della tele-società. Basata sulla separazione tra messaggero e messaggio, la rivoluzione post-industriale avrebbe secondo lui potuto e dovuto progressivamente dispiegare tutto il suo potenziale per condurci in una società liberata dalla prossimità. L’implosione della mobilità innescata dalla pandemia potrebbe ora portare a compimento il processo e porre fine alle ambiguità che finora ci siamo trascinate tra i modi di vivere della società industriale e quelli della tele-società. “I rituali atavici della società di prossimità – spiega Weibel – hanno continuato a esistere anche nelle società evolute basate sulle telecomunicazioni. La mobilità materiale dei corpi e delle macchine è andata avanti in parallelo a quella immateriale dei segni e dei media e questo ci ha fatto apparire simili alle società dei primi anni del ‘900, quando il design delle automobili assomigliava a quello delle carrozze. I designer progettavano le auto ma avevano ancora in mente le carrozze trainate da cavalli”.
Se il flusso di cose diventa flusso di segni
Si usavano strumenti nuovi con teste vecchie, ed è più o meno quello che fino a ieri è successo anche a noi. Negli spettacoli televisivi, per esempio, nei concerti in prima serata e persino nelle partite di calcio, il pubblico locale ha più che altro una funzione scenica, serve ad arricchire lo spettacolo concepito per un pubblico virtuale decentrato davanti agli schermi. E in un certo senso è cosi anche in quegli uffici in cui la presenza fisica del lavoratore serve più a dare ristoro alla coscienza che non alla produttività. Secondo Weibel si tratta di una tendenza irreversibile che dalla società di prossimità conduce a una sorta di società del distanziamento. Con spirito di segno opposto, è quello che ha scritto anche Michel Houellebecq. “Da diversi anni l’insieme delle evoluzioni tecnologiche, sia quelle minori (il video on demand, il pagamento contactless), sia quelli più importanti (il telelavoro, gli acquisti via internet, i social network) hanno avuto come principale conseguenza (come principale obiettivo?) di diminuire i contatti materiali, e soprattutto umani. L’epidemia di coronavirus offre una meravigliosa ragion d’essere a questa tendenza pesante: una certa obsolescenza che sembra colpire le relazioni umane”. Al posto delle relazioni ci sono segni.
“Il flusso del traffico diventa un flusso di segni in un un’infosfera che finisce per avvolgere il globo”, conclude Weibel. Il mondo intero è irretito dal linguaggio. Al posto delle persone e delle cose si muovono segni, anzi si può arrivare a pensare che cose e persone diventino segni esse stesse.
Nascita dell'infosfera
Peter Weibel usa un termine importante, “infosfera”, un concetto portato meritoriamente alla ribalta di un pubblico non più di soli addetti ai lavori da Luciano Floridi, docente di Filosofia ed etica dell’informazione alla Oxford University nonché responsabile del Data Ethics Group dell’Alan Turing Institute. Ne La quarta rivoluzione. Come l’infosfera sta trasformando il mondo, pubblicato in Italia nel 2017, ci ha spiegato quello che era già evidente e oggi lo è ancora di più, e cioè che è difficile immaginare di poter disconnettere il mondo dalle tecnologie dell’informazione senza pensare di spegnerlo. Le nostre concezioni riguardo alla natura ultima della realtà, osserva Floridi sono ancora “newtoniane” nel senso che pensiamo ancora ad auto, edifici, arredamenti, abiti e oggetti di ogni sorta come cose mute, incapaci di interagire, rispondere, apprendere, memorizzare. Questo mondo sta tuttavia gradualmente dissolvendosi in un ambiente animato da processi informativi diffusi, distribuiti e operanti in ogni momento e in ogni luogo. Si vive “onlife”, come mio figlio sa meglio di me. Le tecnologie digitali modificano piano piano la nostra visione delle tecnologie meccaniche. “Al termine di questo passaggio – prefigura Floridi – l’infosfera non sarà più concepita come un modo di riferirsi allo spazio dell’informazione, ma come un sinonimo della realtà stessa”. Tutto ciò che è informazionale è reale e tutto ciò che è reale è informazionale, per parafrasare Hegel. Ma se tutto è informazione, se “it from bit” come avvertiva più di trenta anni fa Sir John Archibald Wheeler, se dell’infosfera siamo già inquilini, in che modo occorre ripensare il nostro rapporto con questa realtà fatta di bit?
Dai codici matematici ai linguaggi informatici
A questo interrogativo Floridi risponde nel suo ultimo libro, Pensare l’infosfera. La filosofia come design concettuale, pubblicato di recente anch’esso nella collana “Scienza e Idee” diretta da Giulio Giorello per Raffaello Cortina. Per molti versi si tratta di un libro di epistemologia, il problema non è tanto la digitalizzazione del mondo quanto il nostro modo di conoscerlo. Ed è qui che possiamo trovare lo spunto necessario per rinnovare il senso della frase di Heiddeger secondo cui “È la parola che procura l’essere alla cosa”.
Posto che non siamo scanner che riflettono passivamente quel che ci circonda, Floridi argomenta contro il dogma platonico del primato della contemplazione della realtà e in favore di un approccio “costruzionista” della conoscenza, per cui ciò che conta non è il corretto utilizzo di una cosa o di un’informazione ma la capacità di costruirla e riprodurla. Possiamo cioè dire di conoscere solo quel che sappiamo costruire o ricostruire, ed è questa in fondo la lezione della rivoluzione scientifica. Da Bacon a Vico, da Galileo a Hobbes, fino alla rivoluzione copernicana di Kant, abbiamo imparato che gli esperimenti con cui conosciamo il mondo non ambiscono svelarne l’essenza, ma a dargli una forma (lo informano) attraverso metodi controllabili. Il mondo che noi conosciamo è la sintesi della nostra capacità di negoziare con esso attraverso codici e linguaggi, codici e linguaggi che se da Cartesio e Galileo sono stati matematici, a partire da Turing cominciano a essere prevalentemente informatici.
L’umanità del Game
Sarebbe un grande errore pensare che qui sono in gioco solo dei modelli teorici, in gioco c’è la nostra vita. La matematica di Galileo è il linguaggio della fisica con cui Newton illustra la meccanica del mondo e pone la premessa delle rivoluzioni industriali. L’informatica di Alan Turing è il linguaggio del mondo digitalizzato che pone le basi dell’umanità del Game, come l’ha definita Alessandro Baricco. La matematica e la fisica hanno ispirato la civiltà delle macchine, l’informatica ispira la civiltà delle macchine intelligenti. “Grazie a Turing – scrive Floridi – il progetto di Bacon e Galileo di afferrare e manipolare l’alfabeto dell’universo ha iniziato a trovare realizzazione nella rivoluzione computazionale e informazionale, che sta condizionando così profondamente la nostra conoscenza della realtà, il modo in cui la rappresentiamo e concepiamo noi stessi al suo interno”. Il modo in cui interpretiamo e trasformiamo il mondo condiziona il modo in cui interpretiamo noi stessi. L’epistemologia è un’antropologia, il modo in cui conosciamo le cose ci dice più di noi che delle cose stesse. L’uomo al centro dell’universo conosciuto da Dante non è certo lo stesso uomo “rotolato verso una x” radiografato da Nietzsche, così come le schiere di operai dispiegati sulla catena di montaggio fordista non esprimono certo la stessa altra umanità degli operai che oggi lavorano al fianco di robot in ambienti 4.0.
Negli anni Cinquanta gli esseri umani camminavano nei computer perché i calcolatori erano grandi come stanze, poi abbiamo scoperto il pc, schermi touch, le icone, le app, congegni di ascolto, comandi vocali, Siri, Alexa, Google Maps, fino ad arrivare a camminare nuovamente nei computer ma in un senso completamente rinnovato. Interagiamo nell’infosfera insieme ad agenti cognitivi umani e non umani, le macchine che elaborano informazioni sono tra noi e, insieme a noi, iscrivono il mondo per farne una casa comune. È per questo che le tecnologie dell’informazione da strumento di conoscenza del mondo sono diventate il mondo. Esse sono i segni che procurano l’essere alle cose.