Se i nebbioni erano la tradizione invernale della Valpadana, quest’anno il record è stato ben più negativo perché la Valpadana ha visto più che altrove l’esplosione dell’epidemia da coronavirus Covid-19. E in queste giornate di ripresa delle attività, anche di quelle relative alla polemica politica, c’è chi ha voluto sostenere che la Regione Veneto sia stata molto più accorta ed efficace nel contenere la diffusione del contagio e chi ha accusato, anche in Parlamento, la Lombardia di non averlo sufficientemente contrastato. Non vogliamo assolutamente entrare nel merito della querelle né disquisire se l’approccio ospedaliero della sanità lombarda si sia dimostrato meno efficace dell’approccio più territoriale della sanità veneta; altri ne stanno discutendo e vedremo se arriveranno a conclusione con le loro analisi.
Noi vorremmo qui semplicemente analizzare i dati disponibili, quelli che la Protezione Civile comunica ogni sera, a partire dal 24 febbraio, e in particolare quelli delle notifiche dei nuovi casi di pazienti risultati positivi al test molecolare eseguito su prelievi orofaringei mediante tampone. Si è ben consapevoli delle criticità che questi dati possono presentare ma sono pur sempre l’unica fonte ufficiale e la stessa dei dati individuali che l’IstItuto Superiore di Sanità analizza, e infatti sia gli uni che gli altri hanno come origine comune il Ministero della Salute cui le Regioni fanno confluire ogni loro informazione.
L’inizio dell’epidemia
Quando il 23 gennaio atterrarono all’aeroporto della Malpensa i due turisti provenienti dalla provincia cinese di Hubei, nessuno pensava che il virus potesse già circolare in Lombardia. E quando il 31 gennaio i due turisti furono diagnosticati positivi allo Spallanzani di Roma si continuò a pensare che il contagio era lontano e bastasse interrompere i voli da e per la Cina, misura che peraltro suscitò molte critiche da parte dei partiti dì opposizione che accusavano il Governo di rovinare l’economia e la stagione turistica.
Ma potrebbe anche darsi che il virus già circolasse se, come suggeriscono alcuni ricercatori dell’Università di Milano che hanno analizzato campioni di sangue dei donatori volontari a partire dal 24 febbraio, un milanese su venti già mostrava nel pirmo periodo anticorpi contro il virus. E se in alcuni di loro il 24 febbraio le IgG erano presenti, il contagio doveva essere avvenuto almeno due o tre settimane prima. Se la prevalenza dei contagiati nel milanese era realmente questa, considerando la possibile sovrastima prodotta da una specificità del test sierologico attorno al 98% la si considerasse anche solo del 2%, si arriverebbe a stimare nell’hinterland milanese un numero di infetti di addirittura 60.000 soggetti su 3 milioni di abitanti. Prevedendo un rapporto di riproduzione pari a 3 e un tempo di generazione del contagio di 5 giorni, ci sarebbero voluti almeno 50 giorni dal primo contagio (come da tabella allegata), che sarebbe quindi avvenuto verso capodanno o ancor prima.
Tabella. Esempio di progressione del contagio ipotizzando un indice di riinfezione (R0) pari a 3 e un tempo di generazione di 5 giorni.
Anche alcuni eventi di dicembre che hanno fatto nascere il sospetto della presenza del virus già da allora, a una revisione sono però poi stati attribuiti a differenti agenti infettivi; ne è un esempio la notizia sul giornale di Piacenza, Libertà, che riportava la dichiarazione del dottor Andrea Vercelli che dal 22 al 29 dicembre aveva inaspettatamente ricoverato 35 pazienti con polmonite bisognosi di ossigenoterapia.
La prima cosa certa è che il 18 febbraio un cremonese si recò al Pronto Soccorso dell’ospedale di Codogno lamentando una forma influenzale con una polmonite non grave e venne rinviato a domicilio. Quando ritornò due giorni dopo con un evidente peggioramento insospettì i clinici (in particolare la dottoressa Annalisa Malara) e venne sottoposto a tampone, che diede esito positivo. Per molti giorni lo si ritenne il “paziente zero” e si pensò che i casi ad esso associati potessero essere controllati con l’istituzione, il 23 febbraio, di una zona rossa di undici comuni del lodigiano. Il 21 febbraio invece furono diagnosticati i primi due casi nel Veneto, a Vo, un piccolo comune di tremila e trecento abitanti e anche lì venne istituita la zona rossa.
L’iniziale sottostima della diffusione del contagio
Se probabilmente a Vo’ Euganeo il contagio non si era propagata fuori dal comune, la situazione deve essere stata molto diversa a Codogno, dove non era sorto neppure lì il primo caso, ma era stato solo il Comune dell’Ospedale dove era stato diagnosticato il primo contagio da Covid-19. La zona rossa di Codogno risolse abbastanza efficacemente il contagio al suo interno ma non evitò il propagarsi del contagio in Lombardia dove continuò a moltiplicarsi senza che ce ne fosse accortezza.
È del 25 febbraio il Dpcm con cui il Governo chiuse scuole, musei, uffici ma è poi del 4 marzo quello in cui si riconfermarono delle chiusure e si presero ulteriori provvedimenti. L’8 marzo, infine, vennero definite misure più restrittive per tutta la Lombardia e per altre 14 province del centro nord, tra cui Padova, Treviso e Venezia. Il provvedimento innescò la “fuga generale” la notte del 7 marzo, quando si seppe del decreto. L’11 marzo il decreto “Io resto a casa” estese le regole a tutto il territorio italiano, seguito il 21 e il 22 marzo da misure più drastiche di chiusura di molte delle attività produttive e dei servizi non essenziali.
Non si può però tacere che il 19 febbraio si permise che si disputasse a San Siro la partita di Champions League Atalanta-Valencia che fece sicuramente accelerare la diffusione del contagio, sia all’interno dello stadio sia sui mezzi di trasposto stipati all’inverosimile come ogni volta che i tifosi si recano allo stadio. E non si può nemmeno tacere che sotto la pressione delle parti sociali e soprattutto di molti oppositori del Governo il 27 febbraio vennero diffusi vari spot quale “L’italia riparte” o “Venite in Italia” che evidenziano lo stato di incertezza che regnava sul da farsi. E oltre ai proclami dell’opposizione anche il Sindaco di Milano Giuseppe Sala e il segretario del PD Nicola Zingaretti festeggiarono incautamente una “ripartenza” della normalità, comportamento di cui poi dovettero poi chiedere scusa.
La diffusione del contagio nei primi giorni di marzo
La Protezione Civile pubblica dati di incidenza di nuovi casi positivi al tampone del test molecolare anche con disaggregazione provinciale. Vi sono pochi casi in cui peraltro la provincia di residenza non è certa, ma questi casi non compromettono il quadro della situazione. Le frequenze giornaliere dei nuovi casi mostrano una ciclicità settimanale in quanto durante il sabato e la domenica l’esecuzione dei tamponi e lo sviluppo del test nei laboratori viene rallentato. Infatti, il lunedì e il martedì si osservano costantemente meno casi che poi vengono compensati da aumenti nei giorni successivi. Per questa ragione è opportuno trasformare la serie dei casi giornalieri con medie mobili a sette giorni centrate sulla giornata in esame.
Nel grafico seguente si riportano le frequenze stimate di tasso di incidenza per 100.000 abitanti delle province della Lombardia a del Veneto.
E’ molto evidente che sino al 15 di marzo i casi in Veneto erano molto pochi mentre vi era già una forte presenza nelle province di Lodi, Bergamo, Brescia, Cremona e Pavia. Sicuramente Lodi è stato di gran lunga il focolaio più intenso che non trova nulla di simile nel Veneto.
Grafico 1. Incidenza giornaliera nuovi casi positivi al 3, 8 15 marzo (per 100.000 abitanti su medie mobili a 7 elementi centrate).
Questa è la situazione in cui si è trovata la Lombardia all’inizio di marzo quando invece l’opinione pubblica, appoggiata anche da molti politici, chiedeva di togliere qualsiasi delle misure di contenimento che erano già state, seppur timidamente avviate. Questi dati avvalorano la stima prima riportata della prevalenza di soggetti già contagiati tra i donatori di sangue volontari.
Questa partenza massiccia sicuramente è frutto di una mancata capacità di intuire per tempo quanto stava succedendo, ma questo non può essere imputato a eventuali carenze del sistema sanitario lombardo. Certamente il “non aver capito” che alcuni casi di influenza erano probabilmente dovuti al coronavirus ha permesso forse una diffusione proprio nei luoghi della cura, ospedali e ambulatori, propagando cos ulteriormente il contagio.
I numeri di replicazione diagnostica di Lombardia e Veneto a confronto
Ma cosa hanno fatto poi le due Regioni per frenare la dinamica dell’epidemia? Un indice che abbiamo utilizzato per studiare questa dinamica è l’indice di Replicazione Diagnostica (RDt) che misura la proporzione di casi notificati dopo un certo numero di giorni dai precedenti. L’indice qui riprodotto utilizza un tempo di replicazione pari a cinque giorni (in gergo “a lag 5”) ed è un indice che stima con buona approssimazione l’indice Rt che serve per misurare l’intensità delle riproduzioni delle infezioni dopo un certo tempo medio di generazione del contagio.
Grafico 2. RDt provinciali a varie date a lag 5 (su medie mobili a 7 giorni centrate).
Il calcolo dell’RDt, a differenza dell’Rt, è molto semplice in quanto è il rapporto tra la media mobile dei casi stimata per un certo giorno e la media mobile riferita a cinque giorni prima. Come per l’Rt se il valore dell’indice è maggiore di 1 allora significa che l’epidemia sta espandendosi e se è minore di 1 l’epidemia si sta contraendo.
Si vede come il 15 marzo l’indice RDt era quasi in tutte le province maggiore di uno e addirittura raggiungeva il valore 3 a Sondrio e a Verona. A Lodi invece era già contenuto sul valore di 1 in quanto i casi, nonostante fossero ancora più frequenti che altrove, non avevano però avuto un ulteriore aumento.
Nei giorni successivi il valore dell’RDt in Lombardia non ha quasi mai superato l’unità, come invece è successo più volte nelle province del Veneto. In virtù di questa informazione non si può sostenere che la dinamica epidemica sia stata meno controllata in Lombardia che nel Veneto.
Questa analisi si prescinde da una valutazione sia della letalità sia dei tempi di guarigione, e non corregge neppure per i fattori di età e genere che potrebbero avere un loro ruolo, ma probabilmente la loro considerazione non farebbe invertire le tendenze osservate. Se prossimamente sarà possibile accedere ai dati individuali (oggi affidati all’ISS ma da questo ancora non rilasciati) sarà possibile sviluppare ulteriori analisi in tal senso.
Una visione generale delle dinamiche nelle due regioni
Il grafico che segue permette infine di confrontare le dinamiche dell’epidemia nelle due Regioni della Lombardia e del Veneto. Ogni cerchietto è una giornata a partire dal 3 marzo, dove la linea unisce i giorni successivi. In ascissa vi è il tasso giornaliero di incidenza di positivi per 100.000 abitanti e in ordinata l’indice RDt che misura l’accelerazione della dinamica, sia in fase di espansione che di contrazione.
Grafico 3. Andamento caratteristico dell'epidemia dal 3 marzo 2020.
Si vede come il 3 marzo vi fossero già molti più casi in Lombardia, mentre in Veneto nei primi giorni sembrava che la dinamica fosse molto lenta, arrivando poi a un valore di replicazione sino a 3 l’11 marzo quando in Lombardia valeva solo 2,3.
Anche il 16 marzo e il 23 marzo il valore dell’indice era superiore in Veneto rispetto alla Lombardia, nonostante in Lombardia vi fossero molti più casi dato il volume iniziale da cui il tutto era iniziato.
Il grafico insomma mostra come i contagiati siano stati molti di più in Lombardia, pur correggendo per il totale delle popolazioni, ma dopo la primissima fase la Lombardia sembra sia riuscita a ottenere una diminuzione più rapida dell’epidemia, seppur non di molto, rispetto a quella del Veneto.
Un invito alla cautela nelle classifiche fra regioni
Con queste analisi non si vuole arrivare a una conclusione, ma solo offrire spunti di riflessione. Sembra di poter affermare che in Lombardia si fossero accumulati molti casi prima che ci si fosse accorti della loro presenza, come peraltro sembrerebbe che sia successo proprio anche a Wuhan e in diverse altre città europee. Quando però il sistema sanitario ha iniziato a intervenire, il contenimento in Lombardia di sicuro non è stato inferiore a quello del Veneto. Ciò dovrebbe consigliare maggior prudenza in chi vuole affermare che il sistema veneto abbia funzionato meglio di quello lombardo. Può anche essere vero, ma i dati di frequenza e di sviluppo dei contagi non potrebbero certo essere utilizzati per sostenere questa ipotesi.
Ciò non toglie che sarebbe auspicabile che in Lombardia ci fosse un maggiore sviluppo dei servizi di prevenzione e dei presidi assistenziali territoriali. Forse l’epidemia ha avuto il ruolo ingrato di stress test che ha permesso di evidenziare meglio le criticità del sistema sanitario lombardo, come del sistema sanitari nazionale e di altri sistemi regionali o locali.
Confidiamo che i responsabili della sanità facciano tesoro di quanto si è reso evidente, e sappiano trovare soluzioni e risorse per migliorare la sanità e garantire quindi maggiore salute, non solo nel campo delle malattie infettive, ma anche in tutti gli altri settori che in questi mesi di epidemia sono stati trascurati.