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La pandemia è neodarwiniana, e i virus mancano di buon senso

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Crediti immagine: mohamed Hassan/Pixabay. Licenza: Pixabay License

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È un’inclinazione (bias) del cervello umano voler prevedere tutto, soprattutto quello che non è prevedibile. E siccome nel mondo prescientifico ci si azzeccava quasi solo per caso, la selezione naturale ci ha dotati di un’altra inclinazione compensativa, quella dell’”io però l’avevo detto” (hindsight bias). Di questi e altri errori cognitivi ne sono stati commessi a valanga durante la pandemia, da parte anche degli esperti. In particolare, è stata incontenibile l’ansia di predire quanti morti può causare o aver causato fare o non fare il lockdown, e se il coronavirus stia diventando meno aggressivo.

Il bisogno di fare previsioni può essere così forte che ci si dimentica di controllare come stanno i fatti in merito a questioni scientificamente ben studiate. A differenza delle storie sulle pandemie del passato, che hanno poco da insegnare, l’evoluzione concettuale e metodologica delle conoscenze scientifiche dovrebbe essere sotto controllo degli scienziati. I grandi scienziati del passato conoscevano la bibliografia storica di quello che studiavano come casa loro, perché sapevano che se non si è capito per intero lo sviluppo verso migliori teorie, metodi e spiegazioni di un processo di concettualizzazione di un determinato fenomeno o problema, si possono dire cose sbagliate. Anche se dotati di h-index eccellenti.

Una discussione in corso già da poche settimane dopo la diffusione pandemica di SARS-CoV-2 riguarda se e quando il parassita attenuerà la sua virulenza, con il prevalere dell’idea che sarebbe regola generale o calcolo funzionale per un parassita adattarsi all’ospite umano in modo da non ucciderlo più e quindi aumentare le proprie chances di sopravvivenza. Si è così andati da più parti alla ricerca di mutazioni indicative di tale adattamento o sono state interpretate le meno gravi forme cliniche via via prevalenti come indicative di un indebolimento dell’agente. Che la clinica vada migliorando è quasi un truismo, ma le spiegazioni possono essere di varia natura e comunque il tema di rilevanza scientifica più generale è se sia vero che le dinamiche dei rapporti parassita/ospite inclinano verso una convivenza vantaggiose per entrambi, e non magari solo per il parassita.

Il coronavirus e la teiera cinese

Non dirlo toccherebbe a me, che non sono virologo, ma la letteratura meglio controllata scientificamente e il punto di vista dei virologi mondiali più autorevoli è che non esistono al momento dati che consentano di dire qualcosa di scientificamente attendibile su come stia evolvendo SARS-CoV-2. Sono stati pubblicati studi, alcuni non controllati, per cui starebbe “mutando” in forme più infettive a parità di letalità, e studi per i quali si starebbe “indebolendo”. Dire che un virus muta, è come dire che la Terra gira intorno al Sole: un’ovvietà e non un problema. Le mutazioni avvengono a caso, cioè non con lo scopo di portare da qualche parte, e la selezione naturale avvantaggia le variazioni che aumentano il tasso di riproduzione. Per i virologi esiste ancora un solo ceppo del virus, e si osservano "isolati" virali, cioè variazioni che non consentono però di dire il virus si comporti in un modo completamente diverso. Diversi isolati sono stati trovati in uno stesso paziente, in sedi diverse, senza che mostrassero differenze significative.

Qualcuno, che difende la tesi che il virus si sarebbe indebolito o sarebbe in via di sparizione, aggiunge ermeticamente: “lo si vede chiaramente” o “i dati non lo contraddicono”. Costoro hanno qualche problema con la logica del metodo scientifico, perché argomentano come Vannoni ai tempi della sua pseudocura Stamina, o come nell’esempio di ragionamento pseudoscientifico illustrato agli inizi del secolo scorso da Bertrand Russell: vi dico che esiste una teiera cinese, invisibile ai telescopi, che orbita tra Marte e la Terra, e se non siete in grado di confutare la mia asserzione allora ho ragione.

Il problema della virulenza dal punto di vista darwiniano

Il problema di come cambia nel tempo la dannosità nei rapporti tra parassita e ospite fu sollevato sin dagli anni Settanta dell’Ottocento. L'idea che la virulenza non sia un tratto stabile ma evolva può essere fatta risalire a Louis Pasteur e Robert Koch. Pasteur, in particolare, nei suoi progetti di costruzione dei vaccini, dal 1879 al 1885, si faceva guidare dall’ipotesi che attraverso la coltivazione dei parassiti fosse possibile ottenere un’attenuazione della virulenza, così che disponendo di ceppi meno aggressivi si sarebbe ottenuta una malattia più lieve nell’animale con la vaccinazione, inducendo solo l’immunità, senza rischio di vita.

Nel frattempo, la trappola semantica creava l’inganno. La parola greca parasitos [da para "a fianco" e sitos "cibo"] significa commensale e si riferiva almeno dal IV secolo a.C. a figure attendenti i culti e invitate da un sacerdote a condividere i pasti. Infatti, l’influente zoologo e paleontologo belga Pierre-Joseph van Beneden scriveva nel 1875 che

il parassita fa di professione una vita a spese dei vicini e tutta la sua industria consiste nello sfruttarla con economia, senza metterne in pericolo la vita. È come una persona povera che ha bisogno di aiuto per sopravvivere, ma che comunque non uccide il suo pollo per avere le uova.

La stessa teoria darwiniana dell’evoluzione, nel frattempo, era intesa nel senso che la selezione naturale portava alla sopravvivenza del più adatto: se era il più adatto a sopravvivere, evolvere verso l’avirulenza era adattativo per il parassita, dato che il rischio della morte dell’ospite comprometterebbe anche la sua sopravvivenza.

Cinquant’anni di buon senso

Nel 1904 il parassitologo Theobald Smith scriveva che nella dispersione dei parassiti la selezione favorirà quelle

varietà sopravvissute che perderanno gradualmente le loro qualità invasive altamente virulente e si adatteranno più in particolare alle condizioni che circondano l'invasione e la fuga. Che un tale processo di selezione abbia avuto luogo in passato sembra la spiegazione più semplice della mortalità relativamente bassa delle malattie infettive.

Il sostegno alla teoria dell'avirulenza derivava dalle numerose osservazioni secondo cui le nuove associazioni ospite-parassita tenderebbero a essere più virulente. Vi era chi osservava che forse risultava così, in quanto è più probabile che vengano osservate le associazioni più dannose per l’ospite. Sia come sia, tre giganti, due dei quali premi Nobel, Charles Nicolle, Frank Macfarlane Burnet e René Dubos, difendevano l’ipotesi che vi fosse un vantaggio selettivo per una progressiva riduzione della virulenza e che le infezioni lievi fossero esempi di storie evolutive che avevano massimizzato le chance di sopravvivenza sia dell’ospite sia del parassita. Per Dubos, se si dà abbastanza tempo a un’associazione patologica tra ospite e parassita, questa diventerà una qualche forma di mutualismo.

Non tutti però la pensavano così. Nel 1919 il batteriologo britannico William Topley, che definì sperimentalmente anche il concetto di herd immunity, suggeriva che per le popolazioni ad alta densità e con migrazione frequente, i ceppi che si replicano più rapidamente hanno maggiori probabilità di essere trasmessi e che questi ceppi a replicazione rapida sarebbero anche i più virulenti. Le intuizioni di Topley erano incomplete in quanto non spiegavano il divario tra l'evoluzione della virulenza ad alta densità di popolazione e ciò che sarebbe accaduto ad altre densità. Ci sarebbero voluti diversi decenni prima che il problema fosse affrontato in modo teoricamente più organico. Nel 1943 lo zoologo George Ball pubblicava uno studio che descriveva numerose interazioni ospite-parassita, mostrando come molte fossero antiche, e comunque virulente. In mancanza di modelli pertinenti chiudeva l’articolo esaltando la varietà della natura e immaginando che “un parassita [possa] scegliere il corso del destino manifesto e trovare l'aggressività più attraente e più preziosa di un'esistenza di pace e simbiosi”.

Il problema della virulenza dal punto di vista neodarwiniano

Gli anni Sessanta e Settanta videro lo sviluppo dell’ecologia evoluzionistica fondata da George C. Williams, John Maynard Smith, William D. Hamilton ed Edward O. Wilson, che sfidarono l'idea ancora diffusa che le specie cambiassero adattativamente per garantire la propria persistenza e che gli individui dovessero sacrificarsi per il beneficio della specie. Nel nuovo quadro teorico del neodarwinismo, il livello al quale opera la selezione è la popolazione e le variazioni creano repertori all’interno dei quali è il successo riproduttivo (non l’adattamento) a fare la differenza. Per il neodarwinismo le mutazioni e l’isolamento possono essere fattori di cambiamento evolutivo.

Era il passo necessario per rendersi conto che la riduzione di virulenza del parassita non è così inevitabile come la saggezza convenzionale vorrebbe. Negli anni '80 furono proposte una serie di ipotesi alternative. Nel 1982 Roy Anderson e Robert May mostrarono, nel famosissimo articolo dove definiscono matematicamente R0, che molti scenari coevolutivi sono possibili per ospiti e parassiti, ma che se la guarigione e la virulenza (al denominatore nell’equazione di R0) sono collegati, la virulenza intermedia ne risulterà favorita (teoria del compromesso). L’anno successivo Paul Ewald sosteneva che la virulenza potrebbe dipendere dal meccanismo di trasmissione, e che in presenza di vettori fisici o biologici (insetti) l’aumento della virulenza potrebbe favorire la trasmissione: le sue idee si basavano sullo studio della virulenza del vibrione colerico e del virus Dengue, oltre che su un parassita che non ha mai smesso di essere virulento grazie all’efficienza del vettore, Plasmodium falciparum.

Da quegli anni, l'idea che la trasmissione e la virulenza siano collegate è diventata la pietra angolare di nuovi sviluppi teorici. È stato largamente accettato che un ceppo parassitario che evolve una velocità di trasmissione più elevata debba pagare un costo in termini di durata dell'infezione. L'ipotesi del compromesso stimolò la ricerca nel decennio successivo e a seguire, ma le prove definitive non sono mai arrivate. Identificare la forma esatta delle curve di compromesso risulta difficile. Tra i vari motivi, uno è che di solito si presume che la trasmissione si traduca in virulenza, ma è probabile che anche la guarigione svolga un ruolo importante.

Ogni infezione, un caso a sé

L'ipotesi del compromesso tra virulenza e trasmissione proposta più di 30 anni fa si basa sul presupposto che la virulenza è un costo inevitabile e in aumento poiché il parassita utilizza le risorse dell’ospite per replicarsi. Questo costo associato alla replicazione provocherebbe una decelerazione della velocità di trasmissione perché l'aumento della replicazione all'interno dell'ospite aumenta la mortalità dell'ospite stesso. Test empirici di previsioni dell'ipotesi hanno dato supporto solo in parte, per cui se ne mette in dubbio la sua generalizzabilità.

Uno studio pubblicato nel 2018 su Nature Genetics analizzava una decina di infezioni virali umane e animali, ricostruendo la filogenesi dei determinanti molecolari della virulenza e mostrando che non è solo questa a influenzare la capacità del virus di adattarsi a un nuovo ospite, che non c’è una regola generale e che quando il parassita entra in una nuova specie si innescano una selezione positiva e una negativa che tendono a strutturare il fenotipo a vantaggio della sua diffusione. Ma, appunto, esempi di evoluzione della virulenza presi dal virus del Nilo occidentale, dal virus dell’influenza aviaria H5N1, dal virus della malattia di Marek, da HIV, dal virus di Ebola, dal virus Zika, dal virus della mixomatosi dimostrano diverse e locali strategie di modulazione dei fattori che aumentano l’adattamento del virus. Non certo che i virus col tempo diventano più buoni o più cattivi in generale.

Cosa significa tutto questo per SARS-CoV-2? Lo capiremo tra qualche anno o quando avremo modi di leggere pubblicazioni scientifiche controllate. È presto per fare previsioni, anche se non riusciamo a resistere all’impulso irrazionale. In ogni caso, discettando di evoluzione della pandemia nei salotti televisivi sarebbe auspicabile che gli scienziati fossero meglio informati sullo stato dell’arte, invece di rafforzare percezioni intuitive distorte dei processi evolutivi, facendo della disinformazione divulgativa che alimenta un pensiero più magico che scientifico.

 

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