La scomparsa di Giulio Giorello priva il paese e la cultura, sia quella accademica sia quella pubblica, di un punto di riferimento intellettuale che negli ultimi trent’anni almeno è stato imprescindibile. Che si fosse d’accordo o in disaccordo con le sue posizioni. La vastità e profondità dei suoi interessi, mai banali nemmeno quando estraeva filosofia da Topolino, ne fanno uno dei migliori esempi di come si possa genuinamente andare oltre le cosiddette due culture. Per la comunità scientifica italiana, la morte di Giorello è una perdita anche più pesante, perché la sua visibilità e qualità mediatica, come filosofo della scienza, trasmetteva un’idea solida e dialogante della ricerca scientifica e del suo ruolo sociale. Di fronte a tutte le questioni controverse che hanno visto la scienza sotto attacco, dagli ogm ai vaccini alle mistificazioni pseudoscientifiche e pseudomediche, egli prendeva posizione dopo essersi documentato, se era il caso di farlo, e non saliva mai su qualche cattedra per fare il maestro, o il professore o l’esperto che irride il popolino ignorante o il sicofante di turno. I suoi interventi erano rivolti a rinforzare le ragioni per avere fiducia nei metodi usati dalla comunità scientifica per stabilire come stanno, sulla base di conoscenze provvisorie ma affidabili, i fatti.
Chi scrive ha incontrato per la prima volta Giorello leggendo, nel 1979 come testo per l’esame di universitario di filosofa della scienza, l’introduzione all’edizione italiana di Critica e crescita della conoscenza (Feltrinelli 1976), un volume spartiacque nella storia della filosofia della conoscenza scientifica. Del fatto che avevo studiato Giorello, quando lui era già un affermato professore mentre mi dovevo ancora laureare, e dei temi salienti del dibattito epistemologico di quegli anni – in particolare della sua passione per Feyerabend – abbiamo un paio di volte chiacchierato divertiti a cena. Quando ci si ritrovava nel contesto di discussioni pubbliche e di regola eravamo intellettualmente complici nel difendere i valori cognitivi e etici della scienza e della razionalità, in quanto fondamento culturale di quella libertà liberale che abbiamo entrambi imparato a declinare studiando Spinoza, Hume, John Stuart Mill, Darwin, Popper, etc.
Ho sempre pensato che Feyerabend, così come la difesa del relativismo nella stagione del papato Ratzinger, gli fossero serviti per navigare spazi filosofici più aperti di quelli che gli avrebbero consentito sia il materialismo dialettico (pur attualizzato) sia lo scolasticismo epistemologico delle tradizioni accademiche di filosofia della scienza. Ma non se ne è mai discusso, a parte alcuni aspetti del relativismo, dove il dissenso tra noi era completo. Lui soleva dire che il “contrario di relativismo è assolutismo” e da parte mia ho sempre argomentato che più fondato di entrambi, nonché più coerente con il liberalismo, è il “pluralismo”.
Giulio Giorello ha lasciato in eredità pagine illuminanti su questioni tra loro molto diverse, che vanno dalla filosofia della matematica e in modo particolare la teoria della probabilità nella geniale lettura di De Finetti, sullo scenario filosofico che ha prodotto un’acculturazione nel mondo accademico e presso la comunità scientifica nel corso del Novecento dei temi fondamentali dell’epistemologia, sulle radici psicologiche e le dimensioni filosofiche dei miti e in modo particolare sulle figure di Prometeo, Ulisse Gilgamesh (Cortina 2004), sulle idee letterarie rivoluzionarie e frutto di tempi politico-sociali speciali come nel caso di John Milton o di James Joyce. Oliver Cromwell era un suo eroe, come lo era Thomas Jefferson. Fu un militante intellettuale schierato con i movimenti indipendentisti, in particolare quello irlandese.
La cultura italiana e coloro che auspicano un superamento della dottrina delle due culture avranno verso Giorello un debito per l’influenza intelligente che ha esercitato attraverso non solo i libri che ha scritto e pubblicato, ma anche con quelli che ha fatto pubblicare. La collana “Scienza e Idee” presso Cortina è un catalogo formidabile di testi che hanno cambiato e innovato la cultura scientifica e filosofica nazionale, e contiene opere anche molto lontane dal sentire di Giorello, ma che egli riteneva importante leggere per costruire una cultura fondata sul dialogo e il rispetto.
Nello scenario generale delle discussioni sulle religioni, Giorello preferiva dichiararsi ateo, purché non si pensasse che trascorreva del tempo, come numerosi atei militanti, a cercare prove che Dio non esiste. Ateo significava coltivare “il diritto di vivere senza Dio” o anche contro i tanti dei ai quali i fondamentalisti vorrebbero vederci sottomessi. Coerentemente riteneva, pace Croce e i suoi amici, che non ci fosse bisogno né di una “religione civile” né di una “religione della libertà”. Religione e libertà si contraddicono tra loro, dato che la libertà è necessariamente anche possibilità di non avere alcuna religione. Giorello difendeva quindi un ateismo “metodologico”, cioè l’esercizio costante della libera scelta individuale, che praticamente coincide con la filosofia liberale.
Giulio Giorello era un uomo generoso, almeno per mia esperienza. L’ultimo incontro fu il 16 dicembre 2019 a Lodi, dove malgrado la serata fredda e umida, e i postumi di una sindrome da raffreddamento venne a presentare il mio libro a LodiLiberale. Fu l’ultima occasione per una discussione come sempre molto stimolante e in amicizia. Giulio tornò su un'altra tema che ci vedeva in disaccordo, cioè il metodo scientifico. Egli pensava, recuperando in questo Feyerabend, che il modello classico del metodo scientifico "osservare, ipotizzare, predire, controllare, analizzare e rivedere", non descriva il modo in cui avviene davvero la maggior parte delle scoperte scientifiche. Ovvero che i tentativi di stabilire una demarcazione tra scienza e non scienza non sono soddisfacenti e il criterio della falsificabilità è certamente il migliore che abbiamo, ma rimane imperfetto. Si dovrebbe parlare e promuovere, diceva Giulio, invece del metodo, l’”atteggiamento scientifico”, che consiste nella disponibilità a cambiare le nostre teorie alla luce di nuove prove. Non c’era tempo di approfondire, ma gli segnalai il libro di un filosofo della scienza statunitense Lee McIntyre, da poco pubblicato da MIT Press, che argomentava proprio in favore della sua posizione: The Scientific Attitude. Defending Science from Denial, Fraud, and Pseudoscience. Disse che l’avrebbe letto e, forse, fatto tradurre.
E’ triste e disorientante quando si perdono riferimenti solidi, con i quali è stato un piacere intellettuale unico misurarsi.