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Mettiamo il coronavirus al Sole

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Una collaborazione multi-disciplinare ha permesso di valutare sperimentalmente gli effetti dei raggi UVC su Sars-CoV-2: secondo gli articoli, ancora in preprint, una dose di 3.7 mJ/cmè in grado di neutralizzare il virus.

Crediti immagine: Rich Smith/Unsplash. Licenza: Unsplash License

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L'utilizzo dei raggi ultravioletti per inattivare o neutralizzare i virus era già noto da tempo nell'ambito della ricerca scientifica e delle relative applicazioni tecnologiche. Ma ancora non era chiaro quanto fosse efficace questo metodo sul coronavirus Sars-CoV-2. Due studi, pubblicati in preprint su medRxiv (qui e qui), sono stati effettuati grazie a un gruppo di ricercatori di diverse competenze che hanno lavorato in perfetta sinergia. Hanno infatti collaborato l’Istituto nazionale di astrofisica (Inaf), l’Università statale di Milano, l’Istituto nazionale dei tumori di Milano (Int) e l’Irccs Fondazione Don Gnocchi.

La giusta lunghezza d'onda

«L'Inaf, insieme a tutte le università e gli altri enti di ricerca, aveva ricevuto indicazioni dal Ministro dell'Università e della Ricerca Gaetano Manfredi, per mettere a disposizione servizi e ricerche tecnologiche al fine di combattere la pandemia», spiega Giovanni Pareschi dell'Osservatorio Astronomico di Brera/Inaf, nominato in cabina di regia. Sebbene il metodo di irraggiamento da ultravioletto fosse già noto, ogni elemento patogeno ha bisogno di una certa dose di radiazione per poter essere neutralizzato. «Nel caso del coronavirus Sars-CoV-2 – afferma Pareschi - non erano ancora state fatte delle misure specifiche. Pertanto, dopo aver consultato i dati tabulati in letteratura, relativi a misure eseguite in passato su altri virus, abbiamo iniziato il nostro esperimento».

Lo spettro di emissione è una sequenza di frequenze che comprende tutti i colori visibili, ma anche quelli invisibili a occhio nudo, come l'ultravioletto (a energie maggiori e lunghezze d'onda minori della parte dello spettro visibile) e l'infrarosso (a energie minori e lunghezze d'onda maggiori). Nel caso dell'ultravioletto (UV), la lunghezza d'onda può variare all'incirca tra 400 e 100 miliardesimi di metro (nanometri) e in particolare, nel caso dell'ultravioletto germicida (UV-C), varia da 280 ai 100 nanometri. Questo esperimento consisteva nel verificare la dose di UV-C a determinate lunghezze d'onda da somministrare all'elemento patogeno, al fine di rompere i legami molecolari dell'RNA di cui il virus è costituito e attraverso il quale codifica le sue caratteristiche genetiche.

«Per ottenere la dose giusta di UV-C (3.7 mJ/cm2) in grado di neutralizzare il virus del 99,9% e rendendo il residuo incapace di replicarsi – spiega Pareschi - è stata sufficiente l'erogazione di una lampada al mercurio per un tempo di qualche secondo e a una distanza di qualche centimetro dal campione. È stata utilizzata luce alla lunghezza d’onda di 254 nm prodotta da una lampada al mercurio a bassa densità, che dalla teoria sappiamo essere vicina al picco con massima efficienza nella rottura dei legami molecolari dell'RNA.

Si ritiene che questa efficienza possa mantenersi fino a circa 280 nm; a lunghezze d'onda poi maggiori, cioè a energie minori dei quanti di luce, questa capacità di inattivazione si riduce». Al variare della frequenza dell'onda elettromagnetica (e quindi dell'energia dei fotoni a essa associata), infatti, il livello di interazione con gli atomi e le molecole su cui essa incide, cambia. Ogni molecola - incluse quelle dell’RNA di cui il virus è costituito - ha proprie frequenze di oscillazione legate ai legami chimici con cui sono collegati i vari atomi. Quanto più le frequenze della radiazione incidente si avvicinano a quelle dei moti di oscillazione delle molecole, tanto più l’accoppiamento fotochimico è maggiore ed è quindi più probabile rompere i legami chimici. Se le frequenze della radiazione e dei moti oscillatori delle molecole sono invece molto diverse tra loro, la probabilità di rottura è molto piccola, perché le molecole risultano essere quasi trasparenti alla radiazione (cioè la radiazione le attraversa senza quasi interagire con esse).

Dal Sole a noi (e ai virus)

Mentre la luce visibile giunge a noi senza quasi interagire con l'atmosfera, la radiazione ultravioletta interagisce con le molecole di ozono presenti nella stratosfera, tra 15 e 35 km dalla superficie terrestre. In particolare, questo filtro che circonda la Terra è in grado di bloccare circa il 77% dei raggi ultravioletti del sole, compresi gli UV-C e tutti quelli a più alte energie. Del rimanente 23% degli UV che giungono a noi, oltre il 95% è composto dai raggi UV-A (da 400 a 315 nanometri), cioè quelli a energie minori, e in piccola parte dagli UV-B (da 315 a 280 nanometri). Queste efficienze di trasmissione possono anche dipendere dalle condizioni atmosferiche, poiché le nubi (e anche il nanoparticolato causato dall’inquinamento) tendono ad assorbire maggiormente la radiazione ultravioletta proveniente dal Sole.

Indubbiamente, gli UV-B e in particolare gli UV-A sono meno dannosi per il nostro organismo rispetto agli UV-C, ma lo sono anche per i virus. Infatti, la probabilità di inattivare e inibire la riproduzione del Sars-CoV-2 cala rispettivamente di circa un fattore 100 e di un fattore di più di 1000 nei due casi.

Purtuttavia, come afferma Pareschi, «Lo spettro UV-B + UV-A che ci arriva dal Sole è comunque in grado di neutralizzare il virus: in ambienti aperti d’estate a mezzogiorno, il virus può essere inibito dopo circa 10 minuti di irraggiamento, mentre in inverno questo processo ha la durata di alcune ore». Ciò potrebbe spiegare, per esempio, l'indebolimento della capacità infettiva dei virus influenzali già nella tarda primavera, e anche il coronavirus potrebbe essere soggetto a un processo simile.

Infatti, grazie alla collaborazione di Mario Clerici, professore di patologia generale all’Università Statale di Milano, direttore scientifico dell’Irccs SM Nascente, Fondazione Don Gnocchi e membro del Gruppo 2003 per la ricerca scientifica, e del suo team, sono stati messi a disposizione i campioni di virus in laboratorio, non solo per verificare il corretto utilizzo degli UV artificiali e osservare il comportamento dell'elemento patogeno, ma anche per studiare le evoluzioni dell'epidemia nella stagione estiva in cui ci siamo addentrati. Invero, benché i raggi UV-A e UV-B dimostrino la loro aggressività contro il virus, i raggi UV-C risultano maggiormente efficaci per la sanificazione degli ambienti, anche se la loro elevata nocività li rende utilizzabili solo in assenza di persone.

L'uso di lampade UV

«L'utilizzo delle lampade a mercurio - commenta Pareschi - è piuttosto comune in determinati ambienti, perché economiche ed efficaci. Sono in grado di disinfettare superfici inerti, dell'aria e dell'acqua, somministrando la dose giusta di illuminazione da UV-C a una determinata distanza. Spesso vengono usati dei robot in grado di muoversi in un ambienti chiusi e di spegnersi automaticamente nel caso in siano presenti delle persone in prossimità». Talvolta, le luci a UV-C vengono installate negli ambienti ospedalieri o in altre strutture sanitarie, che vengono attivate in assenza di persone. Ma saranno presto utilizzate anche negli aeroporti, per illuminare, per esempio, i tunnel in cui vengono fatte scorrere le vaschette per i bagagli a mano.

È curioso come talora capiti di doversi guardare indietro e ripescare saperi remoti. Questo studio ne è un esempio. «Le ricerche sui virus con la radiazione ultravioletta – conclude Pareschi - ebbero in passato un periodo d'oro, grazie al premio Nobel per la medicina Salvatore Luria, che tra la fine degli anni '40 e gli inizi degli anni '50 studiò i comportamenti e le mutazioni dei virus sottoposti a radiazioni ultraviolette». Un metodo successivamente in parte dimenticato, nel momento in cui il discepolo James Watson e Francis Crick scoprirono la struttura molecolare del DNA e furono avviati metodi più diretti per affrontare i problemi di biologia molecolare.

 


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