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Viaggiare e migrare: diritti tra clima e lavoro

Mondo

L’uomo, da sempre, si sposta, viaggia, migra. Queste azioni, soprattutto laddove risultano forzate, si accompagnano sempre più a una minore presenza di diritti. Basti pensare ai lavoratori considerati essenziali durante il lockdown e agli attuali e futuri migranti climatici.

Immagine: mappamondo; licenza: Pixabay License.

Tempo di lettura: 5 mins

L’uomo, da sempre, si sposta, viaggia, migra. Queste azioni, soprattutto laddove risultano forzate, si accompagnano sempre più a una minore presenza di diritti. I lavoratori che durante le fasi più acute della pandemia sono stati considerati essenziali – verosimilmente responsabili della produzione e distribuzione di cibo – non hanno ricevuto gli stessi livelli di protezione sociale degli altri lavoratori. Dall’altro lato, chi migra e migrerà per rischi climatici – che siano siccità, aumento del livello dei mari, scarsità di cibo e acqua, ma anche malattie relative di vario genere – ancora non è tutelato da norme (anche sui diritti) chiare e strutturate.

“Essenziali” e in viaggio? Pochi diritti

Secondo un rapporto scritto per lo European Trade Union Institute (ETUI) a cura di Zane Rasnača, le difficoltà incontrate dai lavoratori che si spostano periodicamente tra un paese e l’altro (gli highly mobile workers), anche fuori Europa, sono principalmente relative a: chiusura dei confini, perdita del lavoro o di una prospettiva lavorativa, mancanza di prerequisiti per le misure di protezione sociale, condizioni di salute/sicurezza al lavoro, circostanze di vita in genere.

Per esempio, per quanto riguarda la perdita del posto di lavoro, nel documento si legge che circa 200mila lavoratori che si occupavano della raccolta di frutta e verdura da Marocco, Tunisia e Spagna non sono stati in grado di spostarsi in Francia, venendo quindi meno ai loro compiti. Oppure, nei Paesi Bassi, i "lavoratori migranti temporanei stavano per perdere sia il lavoro che la casa, dal momento che erano esclusi dai programmi di sostegno governativi."
Ancora, per quanto riguarda la sicurezza nel posto di lavoro – basti pensare ai focolai affiorati nei macelli di vari paesi – molti Stati europei hanno allentato i limiti massimi di ore lavorative giornaliere (compreso il tempo impiegato per guidare mezzi di trasporto) e accorciato, invece, il tempo dedicato al riposo. Stiamo parlando, secondo il rapporto, di Slovenia, Portogallo, Repubblica Ceca, Belgio, Spagna, Lettonia, Finlandia, Danimarca, Francia, Paesi Bassi, Ungheria, Grecia, Austria, Croazia, Norvegia, Slovacchia, Malta, Germania, Lussemburgo, Polonia, Irlanda, Bulgaria, Romania, Romania e Svezia.

Il rapporto conferma un dato ormai ovvio: il Covid19 ha esacerbato le disuguaglianze, di vario genere, già esistenti. La sola legislazione europea non è stata abbastanza forte per proteggere in particolare i lavoratori "altamente mobili". Su questo punto è interessante ricordare quanto sia stato più volte fatto notare, per esempio da Enrico Giovannini, come le istituzioni europee non siano state disegnate per rispondere a possibili (e ormai ineludibili) crisi. Sarebbe quindi un errore continuare a pensare che tali crisi – siano sanitarie, economiche o, a maggior ragione, climatiche – siano momenti fuori dall’ordinario. 

Nel rapporto si legge che un tema rilevante è anche la distinzione tra assistenza sociale e protezione sociale (social assistance and protection). Generalmente, infatti, la protezione sociale è coperta dalla legislazione europea, mentre l’assistenza non sempre. Questo crea situazioni per cui, "se il migrante non ha lo status di ‘lavoratore’ o ‘disoccupato’ ai sensi del diritto comunitario, allora potrebbe non avere diritto all'assistenza nel paese ospitante." Inoltre, si aggiungono purtroppo ulteriori difficoltà con le inevitabili "barriere linguistiche e la mancanza di accesso a informazioni adeguate su eventuale assistenza disponibile."

Tutto ciò è ancora più preoccupante se consideriamo il fatto che molti dei lavoratori che oltrepassano varie volte le frontiere sono proprio coloro che, durante la pandemia, hanno continuato a produrre e trasportare cibo e materiale medico. Il rapporto scrive che dei lavoratori all’interno dell’Unione, più dell’8% lavora nel settore sanitario e sociale, più del 7% nei trasporti e più del 10% nell’industria alberghiera e alimentare.

Quello che dovrebbe servire, dice l’autore del documento, è per lo meno l’introduzione in legislazione di una base (un "pavimento") minima di diritti. Concetto che ci riporta alla metafora dell’"economia della ciambella" di Kate Raworth; ovvero un sistema produttivo, ma anche istituzionale e politico, che deve essere concepito all’interno di uno spazio delimitato dall’alto da un "tetto" ambientale (vedi i 9 confini planetari di Johan Rockström) e dal basso proprio da un "pavimento" sociale di diritti.
Nel medio periodo – continua il rapporto – è auspicabile che l’Autorità Europea del Lavoro (ELA, European Labour Authority) eserciti una maggiore influenza sulla definizione dei diritti dei lavoratori, soprattutto in materia di salute e sicurezza.

Clima: attuali e futuri migranti

Continuare a lavorare per garantire cibo e salute a chi è rimasto a casa, però, non è l’unico motivo per essere costretti a spostarsi. In generale, infatti, sappiamo che ogni anno milioni di persone sono costrette a migrare per trovare altrove condizioni migliori.

Secondo l’ONU, oggi sono 22 milioni le persone che vivono in un Paese diverso da quello in cui sono nate ed è una tendenza in crescita: più di tre volte il numero di 50 anni fa e comunque dal 2.3% al 3.5% rispetto alla popolazione totale. Per quanto riguarda poi, nello specifico, i rifugiati, l’UNHCR riporta un record del 2019 di quasi 80 milioni di persone. Su questo, l’Alto Commissario delle Nazioni Unite per i Rifugiati Filippo Grandi ha dichiarato che "lo sfollamento forzato oggi non solo è molto più diffuso, ma semplicemente non è più un fenomeno a breve termine e temporaneo".

Volendo parlare ancora di migranti e di fenomeni non più considerabili eccezionali, dobbiamo prestare attenzione sicuramente ai migranti climatici. Come ha riportato la Banca Mondiale, nel 2017, tra i circa 69 milioni che si sono spostati dalla propria casa, circa 23 milioni l’hanno fatto a causa di inondazioni, incendi, siccità ed eventi meteorologici. In generale, la World Bank stima che entro 2050 potranno esserci circa 143 milioni di migranti climatici.

Oltre alla doverosa decarbonizzazione (globalmente entro il 2050), servono inevitabilmente strumenti di adattamento agli effetti dei cambiamenti climatici, tra cui, appunto, una governance sulle migrazioni. Come ricorda Donato Speroni di ASviS, "l’adesione al Global compact for safe, orderly and regular migration da parte dell’Italia andrebbe urgentemente riconsiderata" e in generale "la questione dell’immigrazione in Italia va affrontata con coraggio", riferendosi ai presenti e futuri provvedimenti su questi temi in particolare delle Ministre Lamorgese e Bellanova. Purtroppo, anche in altri paesi il tema è scottante, ma non può essere questa una scusa per non affrontarlo.

 

Bibliografia
Rasnača Z., ETUI, Essential but unprotected: highly mobile workers in the EU during the Covid-19 pandemic, giugno 2020: https://www.etui.org/sites/default/files/2020-06/COVID%20Highly%20mobile%20workers%20Rasnaca%20Policy%20Brief%202020.09_0.pdf
Speroni D., ASviS, Sulle migrazioni manca una prospettiva globale, 26 giugno 2020: https://asvis.it/home/46-5876/questa-settimana-sulle-migrazioni-manca-una-prospettiva-global

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