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La misteriosa moria di elefanti in Africa

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In Botswana, negli ultimi due mesi sono state rinvenute le carcasse di oltre 350 elefanti, affetti da un misterioso male che pare agire a livello neurologico. Epidemia o causa umana?
Crediti immagine: Wolfgang_Hasselmann/Pixabay

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Il fiume Okavango non è un fiume comune: non solo perché è uno dei più grandi al mondo, ma soprattutto perché non sfocia in nessun mare. L’Okavango termina infatti la sua corsa nel bel mezzo del deserto del Kalahari, in Botswana, trasformandolo in una vasta palude dalla lussureggiante vegetazione. Il delta raggiunge la sua massima estensione nella stagione umida (fino a 15mila chilometri quadrati!) richiamando a sé animali di ogni specie e dimensione. Un unicum ecologico, fondamentale per la sopravvivenza di specie di flora e fauna minacciati di estinzione, il delta dell’Okavango è stato considerato patrimonio dell’umanità dall’Unesco nel 2014. Eppure, proprio in questo paradiso stanno inspiegabilmente morendo gli elefanti.

A marzo si trattava di una dozzina di carcasse, ritrovate nei pressi del villaggio di Seronga. A maggio le carcasse erano 169. A fine giugno se ne contano 356, secondo le stime dell’ONG Elephant Without Borders. La maggior parte dei cadaveri è prostrato sulle ginocchia, la fronte in terra, in prossimità degli specchi d’acqua.

Un male misterioso

Gli elefanti africani (Loxodonta africana) sono i più grandi mammiferi terrestri: un maschio adulto può raggiungere le sei tonnellate di peso e un’altezza alla spalla di 4 metri. Lenti negli spostamenti, possono compiere lunghe migrazioni alla ricerca di cibo; una di queste migrazioni, in Botswana, li conduce al delta dell’Okavango durante la stagione umida. Animali longevi e dalla complessa organizzazione sociale di tipo matriarcale, questi giganti sono minacciati dal bracconaggio, alla base di un commercio illegale e internazionale delle loro zanne, da cui si ricava il prezioso avorio. Non è purtroppo raro trovare carcasse di elefanti privati delle loro zanne dai bracconieri. Ma non è il caso di quelle ritrovate negli ultimi mesi in Botswana, che sono intatte e non presentano ferite da arma da fuoco.

Prima di accasciarsi a terra esanimi, gli elefanti appaiono confusi, scoordinati, si muovono senza sosta in cerchio, incapaci di riprendere la marcia malgrado gli incoraggiamenti degli altri membri del branco. Alcuni mostrano paralisi degli arti. Sono tutti sintomi che portano a pensare a un disturbo a livello neurologico.

Al momento i campioni di tessuto prelevati dai cadaveri sono stati inviati a diversi laboratori di analisi, in Canada, Stati Uniti, Zimbabwe e Sud Africa. Le autorità botswane sono in attesa dei primi risultati, ed è prevista una conferenza stampa nelle prossime settimane per l’annuncio dei primi risultati.

Un nuovo patogeno?

In Botswana nel 2019 sono stati trovati morti più di cento elefanti, uccisi dall’antrace, in seguito a un periodo di forte siccità. L’infezione è causata dalle spore del batterio Bacillus anthracis, che si trovano nel terreno e sono altamente tossiche in caso di inalazione. Ma per l’ipotesi antrace gli esperti sono ancora dubbiosi, e temono possa invece trattarsi di un agente patogeno finora sconosciuto.

Sebbene il numero degli elefanti in Botswana sia elevato, la moria in corso non è assolutamente da sottovalutare. Se si trattasse di un patogeno infettivo gli effetti potrebbero essere devastanti per la popolazione, perché potrebbe rapidamente diffondersi, perché gli elefanti sono sociali e creano legami interindividuali molto forti. Quando muore un animale del branco, gli altri possono passare ore, anche giorni, accanto al corpo, che toccano e ispezionano di continuo, con la proboscide e con le zampe. Se spostandosi trovano i resti di un altro elefante si fermano a esaminarlo.

Qualcuno ha romanticamente descritto tutto questo come una sorta di cerimonia funebre, e si dice che gli individui malati vadano in cerca di un posto dove morire, una sorta di grande cimitero degli elefanti. Di questo non c’è alcuna evidenza scientifica, mentre sulla necessità di toccare, annusare, ispezionare i cadaveri ci sono prove robuste. Dotati di un incredibile senso dell’olfatto e di una grande memoria olfattiva, forse l’esame delle carcasse potrebbe essere un modo per identificare il deceduto.

La mano dell’uomo

In Africa vivono circa quattrocentomila elefanti; un terzo di essi vive in Botswana (la popolazione stimata conta circa centotrentamila individui). Secondo la Red List dell’Unione internazionale della conservazione della natura (IUCN ), che classifica lo status di conservazione delle specie animali e vegetali, gli elefanti africani sono vulnerabili all’estinzione, e la causa principale è il bracconaggio per il commercio dell’avorio. A questo si somma la perdita di habitat idonei dovuta all’espansione delle aree urbanizzate o convertite all’agricoltura e alla deforestazione, i cambiamenti climatici che stanno portando a un aumento dei fenomeni siccitosi, e non ultimo le condizioni socioeconomiche e la presenza di guerre, come riporta un articolo pubblicato a maggio su Ecological Application.

La ricerca dell’avorio è sempre stata una maledizione per gli elefanti: già in epoca coloniale venivano perseguitati per ricavare il prezioso materiale. Nel 1989 un divieto internazionale di commercio dell’avorio riuscì a risollevare in parte le sorti dei pachidermi. Ma dal 2007 il mercato asiatico ha iniziato a mostrare un crescente interesse per l’avorio. Come risultato, si è avuto un aumento esponenziale del bracconaggio: tra il 2007 e il 2015 la popolazione di elefanti della savana è diminuita del 30%, tra il 2010 e il 2012 sono stati uccisi centomila elefanti. La maggior parte dei report istituzionali riporta un picco di mortalità nel 2011 e una graduale attenuazione della caccia di frodo negli anni successivi. Ma secondo un articolo fresco di stampa su Nature - Scientific Reports, in realtà il bracconaggio non ha subito nessuna battuta d’arresto, fatta eccezione per i Paesi dell’Africa orientale, mentre nelle restanti regioni non c’è stato alcun cambiamento sostanziale dal 2011.

Nel Botswana nel 2014 era stato fatto un divieto di caccia agli elefanti, rendendo quindi impossibili i prelievi autorizzati nelle riserve. I crescenti conflitti sociali legati ai danni all’agricoltura, tuttavia, hanno fatto sì che il divieto venisse rimosso nel 2019. Inoltre, negli ultimi anni il Paese registra un aumento dei casi di bracconaggio: nel solo biennio 2017-2018 sono state ritrovate ben 385 carcasse.

Velenosi conflitti

Tra le ipotesi al vaglio per la moria degli elefanti c’è l’avvelenamento. Purtroppo l’utilizzo di veleni non sarebbe una novità per gli elefanti africani. Nel 2013, in Zimbabwe, erano stati ritrovati i resti di circa 200 elefanti avvelenati col cianuro, potente veleno che blocca il rilascio di ossigeno da parte dei globuli rossi, portando a danni cerebrali e morte per asfissia. Il cianuro è facile da reperire, poiché viene utilizzato largamente nei processi industriali e in particolare per estrarre l’oro dalle rocce nelle miniere. Per avvelenare gli elefanti, i bracconieri diluivano il cianuro nelle pozze d’acqua o utilizzavano frutti avvelenati.

I cadaveri degli elefanti in Botswana sono tutti in prossimità di pozze d’acqua e questo avvalorerebbe l’ipotesi dell’avvelenamento. Eppure, nessun'altra specie animale è stata ritrovata morta nella zona, il che porta a escludere una contaminazione dell’acqua. Inoltre, anche i saprofagi che si sono nutriti delle carcasse non parrebbero aver avuto effetti collaterali. Poiché nessuno degli animali rinvenuti morti è stato privato delle zanne, l’ipotesi del bracconaggio per il commercio di avorio sembra poco plausibile. Da non escludere è invece una ritorsione per i crescenti conflitti sociali dovuti agli ingenti danni alle colture arrecati dai pachidermi. La riduzione degli habitat naturali e la frammentazione di essi crea infatti delle densità di elefanti non naturali in determinate aree. Se a questo associamo l’aumento delle coltivazioni, che costituiscono fonti di cibo altamente energetico, e se pensiamo che un elefante adulto può ingerire in un giorno fino a 450 chili di cibo, si può capire la difficile soluzione di questi conflitti.

In realtà molti studi dimostrano che gli elefanti percepiscono la presenza dell’uomo come stressante, e in vicinanza di strutture antropiche hanno una elevata produzione di ormoni dello stress come il cortisolo, ma con la diminuzione degli habitat naturali idonei, con l’aumento delle temperature che provoca prolungati periodi di siccità, le zone antropizzate offrono importanti risorse come l’acqua e il cibo di cui gli elefanti hanno bisogno.

È fondamentale identificare al più presto la causa di questa nuova minaccia per gli elefanti, e agire tempestivamente per bloccarne le cause, qualsiasi esse siano. È altrettanto fondamentale non sottovalutare le prove scientifiche che dimostrano che non solo il fenomeno del bracconaggio non sta diminuendo, ma che in Paesi come il Botswana, dove si era avuta una contrazione, sia in nuovo aumento. La soluzione non è di sicuro facile e un'effettiva strategia di conservazione deve agire su diversi livelli. Un rafforzamento della lotta al bracconaggio che agisca con controlli più severi sui traffici internazionali di avorio, per esempio.

Inoltre, considerata l’espansione delle aree antropizzate, i conflitti uomo-elefante rischiano di diventare sempre più frequenti, soprattutto in annate o in stagioni in cui le risorse naturali scarseggiano. Pertanto la facilitazione della coesistenza diventa una necessità. Per far questo, le comunità locali affette dalla problematica devono essere incluse nella progettazione delle soluzioni, tecniche (metodi di prevenzione, progettazione della distribuzione delle colture in modo da rendere più difficilmente accessibili quelle appetibili per gli elefanti) e politiche, in modo da responsabilizzarle nella prevenzione dei danni che causano i conflitti stessi. Il turismo sostenibile è una strada da perseguire perché valorizza la presenza di questi animali carismatici e li trasforma in una opportunità da difendere. Per tutelare questi maestosi mammiferi serve un impegno coordinato su varie scale, dall’internazionale alla singola comunità locale, e la volontà politica di tutti di agire prima che sia troppo tardi.

 


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