La metafora della mente come un computer, sia pure particolarmente complesso, ha dominato a lungo le scienze cognitive nel corso del Novecento. Ma la sua origine, risalendo indietro nel tempo, la possiamo trovare in un periodo della storia in cui di computer ancora nulla si sapeva, e cioè al XVII secolo. Fu allora che Cartesio scavò quel “fossato metafisico” tra il corpo (res extensa) e la mente (res cogitans). Una divisione che comporta una doppia riduzione: da un lato la riduzione del corpo a una macchina che ci dà sensazioni o produce movimento ma solo di tipo meccanico, dall’altra della mente al “cogito”, ovvero ciò che produce rappresentazioni mentali, o potremmo dire l’elaborazione lineare delle informazioni sensoriali che esita in un comportamento intelligente.
Insomma, secondo questa teoria la mente sarebbe una sorta di scatola nera che sta tra un input (le sensazioni) e un output (i movimenti volontari, il comportamento intelligente), ma di natura sostanzialmente diversa rispetto alla materia, ovvero al corpo, come – diceva Cartesio - il fontaniere è di natura diversa rispetto alla fontana che manovra.
Come si vede l’analogia tra la mente e il computer è già tutta qui. Oggi, tuttavia, questa metafora è messa in crisi dal cosiddetto “paradigma motorio”, ovvero un modello di come funziona il nostro apparato cognitivo che si è sviluppato negli ultimi anni e che è basato su una concezione della mente del tutto diversa: una mente non separata ma radicata nella corporeità e nelle capacità di movimento di un individuo. E, d’altro canto, un movimento che è azione e quindi conoscenza, sia pure a un livello “più basso”. Secondo questo paradigma, non ci sono una mente e un corpo separati tra loro, ma c’è qualcosa di unitario e integrato che potremmo chiamare “mentecorpo”. Di conseguenza, “l’analogia classica cervello-computer va letta al contrario: i cervelli non sono macchine sofisticate, semmai le macchine sono cervelli imperfetti”, imperfetti proprio perché non hanno gambe, braccia, testa, insomma un corpo.
Carmela Morabito, storica della psicologia e delle neuroscienze cognitive, nel suo nuovo libro “Il motore della mente” (editori Laterza, pp.164, euro 18,00), affronta proprio il tema del paradigma motorio e ci racconta come questa idea in realtà sia apparsa più volte nel corso della storia della riflessione sulla mente, come un fiume carsico che a volte viene in superficie per poi rituffarsi sotto terra e rimanere nascosto a lungo fino al momento in cui riemergerà.
Tanti i nomi che Morabito richiama, da Locke e Hartley fino a Bergson, Piaget e Lurija. Ma forse vale la pena soffermarsi su alcuni momenti di questa carrellata storica. Il primo coincide con l’opera di Alexander Bain, filosofo scozzese che nella seconda metà dell’Ottocento capisce quanto il movimento sia al centro dello studio della mente: “L’attività motoria – scrive – è una condizione necessaria dell’esistenza della coscienza”. I suoi studi si intrecciano con quelli della neurofisiologia del tempo che approfondisce le conoscenze sulle basi neurologiche del movimento. Secondo Bain, i movimenti casuali di esplorazione e le sensazioni piacevoli e spiacevoli sono i mattoni a partire dai quali si sviluppano la conoscenza, la volontà e addirittura la morale e i rapporti sociali.
Molti studiosi riprenderanno in vario modo le tesi di Bain, ma una dimostrazione scientifica di questa ipotesi ci sarà solo negli anni Novanta del secolo scorso quando all’università di Parma Giacomo Rizzolatti e i suoi collaboratori scoprono i neuroni specchio. La storia è nota, ma vale la pena ricordarla. Nel laboratorio di Rizzolatti c’è un macaco sotto osservazione. Ma il macaco a sua volta osserva i suoi osservatori e quando vede uno di loro sgranocchiare delle noccioline, alcuni neuroni nel suo cervello si attivano. Sono i neuroni che normalmente si attivano quando il macaco compie un’azione, per esempio sgranocchia le noccioline, ma in quel momento il macaco non sta compiendo nessuna azione, è solo spettatore di quella azione. È la scoperta dei neuroni specchio: neuroni dell’apparato motorio che si attivano sia quando si compie un movimento sia quando si vede compiere un movimento. È questo il mattone della nostra capacità di rappresentarci gli stati mentali dell’altro e prevederne i comportamenti. Ovvero è il mattone dell’empatia e della nostra socialità.
Il seguito di queste ricerche, racconta Morabito, ci porta ad affermare che “l’attivazione delle aree motorie è implicata in tutte le varie funzioni del sistema cognitivo, un sistema dinamico e integrato con la capacità di prevedere simulando il comportamento proprio e altrui”. Una simulazione “incarnata”, automatica e involontaria ma che è una forma di conoscenza, sia pure primordiale e corporea.
La terza tappa del percorso che vogliamo richiamare ci porta ai primi anni Duemila, quando, scrive Morabito, “è stata formulata l’idea di una vera e propria conoscenza motoria, espressione di una forma di ‘intelligenza subcorticale’ del movimento che non ha una rappresentazione esplicita e nemmeno simbolica, ma che partecipa all’emergenza di qualunque livello simbolico come condizione necessaria”. Cioè il corpo in movimento è la condizione di possibilità della nostra conoscenza più “alta”, compreso il linguaggio. Questo apre a sua volta la strada a una prospettiva evolutiva sulla coscienza: con l’evoluzione del cervello umano diventiamo capaci di prevedere il risultato dell’azione solo simulandola, senza avere bisogno della esperienza diretta. Ma l’origine rimane l’agire del nostro corpo. La mente quindi, potremmo dire con una formula, è cervello più corpo. E forse questo è quello che intendeva anche Wittgenstein quando scriveva “Il corpo umano è la migliore immagine dell’anima umana”.