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Il futuro della sostenibilità secondo l’Agenzia europea per l’ambiente

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La sostenibilità non è solo una questione ambientale, ma anche sociale, economica e istituzionale. Per pianificare il futuro bisogna tenere conto dell'impatto sulle risorse dell'invecchimento della popolazione, della comparsa di nuove tecnologie e di possibili strumenti economici.
L'Agenzia Europea per l'Ambiente ha pubblicato un rapporto su questi temi: abbiamo intervistato uno degli autori, Giovanni Marin.

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Il 24 giugno 2020, l’Agenzia Europea per l’Ambiente ha pubblicato un rapporto intitolato L'invecchiamento della popolazione, le tecnologie emergenti e la sostenibilità fiscale possono influenzare il percorso dell'UE verso un futuro sostenibile. Abbiamo contattato Giovanni Marin, uno degli autori, per porgli qualche domanda. Giovanni Marin è professore associato di Economia Applicata presso il Dipartimento di Economia, Società e Politica all'Università di Urbino, è affiliato di ricerca presso SEEDS (Sustainability Environmental Economics and Dynamics Studies) ed editore associato della rivista Environment, Development and Sustainability.

Il futuro della sostenibilità europea

Nel rapporto scrivete che la popolazione europea, almeno nei prossimi 30 anni, aumenterà di numero e invecchierà (con una forte crescita degli over 65). Come cambiano i consumi di una popolazione sempre più anziana? Qual è il contributo complessivo stimato di questa trasformazione demografica in termini di impronta di carbonio?

Persone con età diverse hanno una composizione e un livello di consumi differenti. In particolare, guardando ai soli consumi privati, la struttura di consumo dei cittadini europei nel 2011 differisce tra classi di età. In particolare, i nuclei familiari più anziani hanno un maggior consumo relativo (e quindi maggiore impronta di carbonio) di beni e servizi per la casa (acqua, elettricità, riscaldamento) rispetto alla media, mentre i nuclei familiari più giovani hanno una maggiore impronta relativa in termini di trasporto privato. In media, però, l’impronta media di ogni euro di consumo risulta essere inferiore per i nuclei familiari più anziani. Ci si attende quindi che il progressivo invecchiamento della popolazione porterà a una riduzione dell’impronta di carbonio per ogni euro speso in consumo privato. In aggiunta a tale effetto composizione, occorre considerare che le fasce più anziane della popolazione hanno anche un livello inferiore di consumo rispetto a quelle più giovani, contribuendo ulteriormente alla riduzione dell’impronta di carbonio. In definitiva, la somma di queste due componenti dovrebbe portare a una riduzione del 4% dell’impronta di carbonio tra il 2011 e il 2050.

Tale cambiamento ‘virtuoso’ dovuto all’invecchiamento della popolazione potrebbe però essere più che compensato dal seppur lento incremento demografico, sostenuto dai flussi migratori di giovani e giovani adulti più che dal saldo naturale nati/morti, già ora negativo in molti paesi europei.

Quindi con quali scenari?

A seconda dello scenario demografico di riferimento, l’effetto di ‘scala’ (cioè di dimensione della popolazione) contribuirà a una ulteriore riduzione dell’impronta di carbonio del 6% (nello scenario senza flussi migratori) o a un aumento fino al 9% (elevati flussi migratori). Lo scenario di base invece considera un aumento della popolazione e quindi dell’impronta di carbonio del 5% tra il 2011 e il 2050, solo in parte compensata dalla riduzione del 4% dovuta alla riduzione del consumo pro capite e al cambiamento della sua composizione. Queste stime dipendono ovviamente da una serie di assunzioni riguardanti la stabilità della composizione dei panieri di consumo (e quindi dei gusti e delle preferenze delle persone appartenenti a una certa classe di età) e l’immutabilità delle tecnologie di produzione dei diversi beni e servizi.

Occorre però sottolineare che le fasce anziane della popolazione ‘consumano’ una quota molto elevata di servizi pubblici, che non rientrano nelle stime discusse finora. Si pensi ad esempio ai servizi di cura e alla spesa sociale. Si tratta però, generalmente, di servizi con un’impronta di carbonio relativamente limitata se confrontati con altre voci di spesa quali consumo alimentare, trasporti e servizi domestici.

Cos’è la “stagnazione secolare” e come questo suggerisce un diverso utilizzo di risorse naturali e, conseguentemente, economiche?

Per ‘stagnazione secolare’ si intende, secondo la definizione di Eichengreen in un articolo del 2015 sull’American Economic Review Papers and Proceedings, “la tendenza al ribasso del tasso di interesse reale, che riflette un eccesso di risparmio rispetto alla domanda di investimento, avendo come conseguenza un lento e persistente tasso di crescita economica”. L’invecchiamento della popolazione è considerato uno dei fattori più importanti della stagnazione secolare, in quanto porta a una riduzione della popolazione in età lavorativa, una riduzione dei consumi e un eccesso di risparmio, con conseguenze negative sulla crescita del PIL. Le implicazioni in termini di politica ambientale e di utilizzo di risorse naturali sono contrastanti.
Da un lato, la minore crescita economica porta a una minore richiesta di sfruttamento ambientale, limitando il consumo delle risorse e l’inquinamento; allo stesso tempo, l’eccesso di risparmio consentirebbe di investire somme rilevanti per progetti di lungo periodo finalizzati alla preservazione dell’ambiente. Dall’altro lato, però, il rallentamento della crescita economica e la riduzione delle persone in età lavorativa ridurranno in maniera significativa le entrate fiscali dello stato, mentre le spese sanitarie in aumento a causa di una popolazione più anziana metteranno ulteriormente sotto pressione i bilanci dei governi.

La sfida quindi è duplice: convogliare i risparmi privati verso investimenti di rilevanza ambientale, attraverso – per esempio – fondi di investimento ‘verdi’, e identificare nuove fonti di finanziamento dei bilanci pubblici, quali tasse ambientali o tasse su rendite finanziarie, risparmi o ricchezza.

Nel rapporto parlate anche di un declino demografico tra il 2050 e il 2070. Questo a cosa è dovuto: a una sorta di riequilibrio dettato dalla disponibilità di risorse naturali o altro?

L’ipotesi di un declino demografico tra il 2050 e il 2070 in Europa è basata essenzialmente su stime riguardanti il tasso di fertilità (numero di figli per madre) e mortalità per i decenni a venire. Si tratta di stime proposte dalla Commissione Europea basate su scenari business as usual, cioè senza rilevanti cambiamenti economici, sociali, culturali, politici. In particolare, mentre è relativamente semplice sapere ad oggi quanti potenziali genitori ci saranno nel 2060 (anno in cui i nati nel 2020 avranno 40 anni), più difficile è comprendere quale sarà il tasso di fertilità di questi potenziali genitori, che dipende sia da considerazioni sociali, culturali ed economiche che sono alla base della scelta di avere figli (e quanti averne), sia da possibili cambiamenti nell’effettiva fertilità dei genitori del futuro. Inoltre, lo stesso tasso di mortalità è altamente incerto: un cambiamento delle condizioni ambientali quali la possibile riduzione dell’inquinamento locale grazie a politiche di contenimento efficaci o l’aumento di fenomeni meteorologici estremi causati dal cambiamento climatico possono rispettivamente ridurre e aumentare il tasso di mortalità per particolari fasce di età.

Quindi come impatteranno i “vincoli ambientali”?

Difficile prevedere quali potrebbero essere i veri ‘vincoli ambientali’ per i paesi dell’area europea, data la crescente attenzione da parte dei governi e della Commissione verso la tematica ambientale. Più facile invece, purtroppo, prevedere scenari più pessimisti per i paesi in via di sviluppo situati in aree più esposte ai cambiamenti climatici, in assenza di interventi radicali. La riduzione della disponibilità di risorse – in particolare il peggioramento della produttività agricola causato dal cambiamento climatico – avrà conseguenze demografiche rilevanti in aree tropicali e sub-tropicali di Africa, Asia e America. A una maggiore esposizione geografica ai cambiamenti climatici si aggiunge una cronica debolezza istituzionale che rischia di portare allo scoppio di nuovi conflitti per il controllo delle risorse, con rilevanti conseguenze in termini di flussi migratori in fuga dalle aree di conflitto.

La tecnologia aumenta l’efficienza del sistema produttivo. Tuttavia, a livello termodinamico, non si può creare di più di quello che si ha in partenza.

I margini di aumento dell’efficienza in termini di minor uso di energia e materiali per unità di prodotto sono ovviamente limitati dalle leggi della termodinamica. In molti casi, i processi di produzione oggi ampiamente diffusi hanno già livelli di efficienza termodinamica molto elevati. Ci sono però ampi margini di miglioramento dell’efficienza in termini di riduzione dei tempi di produzione di beni e servizi, consentendo di soddisfare gli stessi bisogni con un minore impatto sull’ambiente. Si pensi ad esempio al passaggio dal possesso dell’auto al suo uso attraverso i servizi di car sharing: si riducono notevolmente gli impatti ambientali della produzione delle auto, anche a parità di tecnologia.

Oltre a questo, quali sono i principali ostacoli alla visione che, nel rapporto, chiamate “tecno-ottimista”?

La visione ‘tecno-ottimista’ però si scontra non solo con i limiti delle leggi della termodinamica, ma anche con rilevanti vincoli ambientali, economici, sociali. Per quanto riguarda i vincoli ambientali, le tecnologie per l’automazione e la digitalizzazione richiedono l’utilizzo di materiali rari la cui disponibilità è molto limitata. Inoltre, l’utilizzo di queste tecnologie è molto intensivo di energia che, ad oggi, è ancora in larga parte generata con fonti fossili tradizionali.
Dal punto di visto sociale, l’impatto dell’automazione sul lavoro rischia di determinare l’esclusione dal mercato del lavoro di una ampia fascia di lavoratori poco qualificati che faticheranno a trovare un nuovo impiego. Tale fenomeno è una delle principali cause di opposizione sociale alle nuove tecnologie.
Infine, dal punto di vista economico, l’automazione fa sì che una parte sempre più ampia della ricchezza prodotta sia attribuita a chi detiene i mezzi di produzione (il capitale), mentre una parte sempre minore sia distribuita ai lavoratori. Questo ha sia implicazioni in termini di aumento di disuguaglianze dei redditi che conseguenze dal punto di vista dell’equilibrio fiscale. Infatti, gli attuali sistemi fiscali nei paesi sviluppati sono caratterizzati da aliquote fiscali molto elevate sui redditi da lavoro e aliquote più basse sui redditi da capitale, in quanto i capitali possono spostarsi facilmente da un paese all’altro per evitare tasse elevate. L’automazione quindi rischia anche di essere una delle cause dell’aumento del deficit dei bilanci pubblici, riducendo quindi la possibilità per i governi di destinare risorse a progetti finalizzati alla sostenibilità ambientale.

Nel vostro documento si legge che la spesa pubblica per l’ambiente in Europa è di circa l’1.5% del PIL e non è cresciuta negli ultimi due decenni. Come varia – e come è variata negli anni – la quota di spesa pubblica ambientale tra i paesi europei rispetto ad altre voci (sociale, scuola, salute, …)?

Fatta 100 la spesa pubblica dei paesi europei, a fronte di una sostanziale stabilità della quota destinata a fini ambientali si è osservato, tra il 2002 e il 2015, un significativo aumento della quota di spesa pubblica destinato alla protezione sociale (come conseguenza della crisi iniziata nel 2008, a sostegno delle fasce più deboli della popolazione), passata dal 38,4% al 40,6%, e della quota destinata alle spese per i servizi sanitari, passate dal 13,7% al 15,2%. Al contempo, si è osservata una sostanziale riduzione della quota di spese generali dei governi (-1,8%) e della quota delle spese per l’istruzione (-0,8%). Questi cambiamenti riflettono in maniera molto marcata le priorità politiche dei governi europei nelle ultime due decadi: sostegno delle fasce deboli della popolazione particolarmente colpite dalla concorrenza internazionale, dal cambiamento tecnologico e dalla crisi finanziaria del 2008 attraverso l’aumento delle spese per la protezione sociale; invecchiamento della popolazione che rende necessarie spese sanitarie e mediche che sono, per la gran parte dei paesi europei, totalmente o in parte a carico dei bilanci pubblici. Le problematiche ambientali devono quindi fare i conti con la concorrenza di altre priorità contingenti e, dato che i benefici degli investimenti e delle spese ambientali si realizzeranno solo nell’arco di molti decenni a venire, spesso i governi ritengono di poter ritardare questi interventi. Se da un lato questo comportamento può essere condivisibile, dall’altro occorre considerare che molte problematiche ambientali sono soggette a irreversibilità, per cui non agire ora implica l’impossibilità di risolvere i problemi in futuro.

Considerato questo contesto, quali strumenti usare oltre al classico “tasse e incentivi”?

Il mix di politiche ambientali europee è molto variegato. Include sia strumenti cosiddetti ‘di mercato’ – quali tasse ambientali, scambi di permessi a inquinare, sussidi – sia strumenti ‘non di mercato’ – quali standard obbligatori, strumenti di preservazione, ecc. A tal riguardo, consiglio la consultazione di un precedente report dell’Agenzia Europea dell’Ambiente del 2013 intitolato Towards a green economy in Europe - EU environmental policy targets and objectives 2010-2050. La complessità degli strumenti è dovuta principalmente alla necessità da un lato di considerare le interdipendenze tra la dimensione ambientale e quella socioeconomica, dall’altro per considerare le specificità dei problemi e dell’efficacia ed efficienza dei diversi strumenti.
Tasse e incentivi consentono un elevato grado di flessibilità nella ricerca di soluzioni ai problemi ambientali. Si tratta quindi di strumenti che funzionano bene nei casi in cui il problema ambientale non abbia conseguenze negative immediate e in cui si renda necessario un cambiamento più radicale ma, proprio per questo, più lento. Strumenti più rigidi quali gli obblighi di legge, invece, sono più adeguati quando ci sia il pericolo di superare soglie ambientali critiche, non potendo quindi correre il rischio che tasse e incentivi si dimostrino inefficaci, almeno nel breve periodo. Infine, gli strumenti di informazione di cittadini e imprese finalizzati a favorire approcci volontaristici basati sulla consapevolezza delle sfide ambientali hanno un’importanza cruciale per favorire cambiamenti più radicali negli stili di vita e di produzione. Si tratta però di strumenti la cui efficacia è di difficile valutazione.

Transizione ecologica, lavoro e innovazione. In tutto questo, quanto è importante l’interdisciplinarità in ambito accademico e istituzionale?

Risposta secca: importantissima! Il nostro rapporto sottolinea l’interdipendenza tra ambiente, economia, lavoro, tecnologia, società. Se da un lato è importante approfondire la conoscenza di ogni singola specifica dimensione, dall’altro è fondamentale avere comprensione degli effetti virtuosi o perversi che l’intervento su ogni singola dimensione ha sulle altre. In particolare, l’approccio interdisciplinare consente di rendere espliciti i contrasti tra obiettivi di sostenibilità ambientale, economica e sociale. La consapevolezza riguardo a tali contrasti è fondamentale per la ricerca di soluzione che possano essere efficaci dal punto di vista ambientale e che possano essere al tempo stesso supportati dalle comunità che sono chiamate a sopportarne i costi ‘privati’. L’approccio interdisciplinare ovviamente non è facile: ogni branca della scienza infatti è chiamata investire tempo e risorse per comprendere altri linguaggi e concetti, e le implicazioni che le conoscenze sviluppate da altre discipline hanno per la propria. Il tutto però senza rinunciare alla specializzazione e all’approfondimento della propria ‘parte del tutto’.

 

Bibliografia
EEA, Ageing population, emerging technologies and fiscal sustainability can influence EU’s path to sustainable future, 2020: https://www.eea.europa.eu/highlights/ageing-population-emerging-technologies-and
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