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Gli epidemiologi: ecco come prepararsi per l'autunno

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Un editoriale su Epidemiologia e Prevenzione a firma Vineis, Bisceglia, Forastiere, Salmaso e Scondotto affronta il tema di come essere preparati a Covid-19 nei prossimi mesi, analizzando anche l'efficacia delle misure prese durante le fasi 1 e 2 e indicando alcune necessarie e urgenti raccomandazioni per i prossimi mesi. 

Crediti immagine: Persone vettore creata da freepik - it.freepik.com

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In questa estate di incertezza sul futuro a breve termine in cui ci ha gettato l’arrivo del nuovo virus SARS-CoV-2, alcune cose sembrano piuttosto chiare e Giuseppe Ippolito, direttore scientifico dell’Istituto Spallanzani, le sintetizza così: «Non sappiamo che cosa succederà e la preparazione è l’unica arma disponibile». Del resto, come ha detto in questi giorni Margaret Harris dell’OMS, l’epidemia sembra non avere un andamento stagionale che va a ondate, ma comportarsi come un’unica grande onda che andrà un po’ su e un po’ giù a seconda anche delle misure che i Paesi prenderanno per rallentare il contagio.

L’editoriale pubblicato da poco sulla rivista Epidemiologia e Prevenzione affronta proprio il tema di come essere preparati a quello che potrebbe accadere nei prossimi mesi. I cinque autori che lo firmano sono Paolo Vineis, docente di epidemiologia ambientale all’Imperial College di Londra, Lucia Bisceglia della Aress (Agenzia regionale strategica per la salute e il sociale) della Puglia, Francesco Forastiere, direttore scientifico della rivista, Stefania Salmaso, ex direttrice del CNESPS (Centro Nazionale di Epidemiologia, Sorveglianza e Promozione della Salute), e Salvatore Scondotto, presidente dell’Associazione italiana di epidemiologia.

Il lockdown ha funzionato, ma la sorveglianza della fase 2 va perfezionata

Partiamo da un dato: il lockdown in Italia sarà anche costato molto, ma ha funzionato. Lo dimostra una ricerca condotta dall’Università di Pisa e coordinata da Dino Pedreschi, da cui emerge che l’entità dell’epidemia nelle diverse regioni è direttamente proporzionale al ritardo con cui è stata attuata la chiusura rispetto alla comparsa dell’epidemia. In sostanza, i dati sul contagio sono peggiori laddove si è chiuso in ritardo. Quindi, possiamo dire col senno di poi (anche guardando a quello che avviene in Paesi meno decisi nelle chiusure): nella fase 1 il lockdown è stata una misura corretta.

Poi però è cominciata una nuova fase, la fase 2. “Secondo le raccomandazioni internazionali – si legge nell’editoriale - il passaggio dalla fase epidemica alla fase 2 (graduali riaperture) implicava che le Regioni fossero in grado di diagnosticare, trattare e isolare i casi di Covid-19 e i loro contatti. Inoltre, dovevano essere rispettate norme di distanziamento fisico, evitate manifestazioni collettive e doveva essere prestata attenzione ai soggetti vulnerabili. L’igiene degli ambienti doveva essere radicalmente migliorata e bisognava prevedere modalità di protezione individuale e pulizia sistematica e routinaria degli spazi pubblici”.

Le Regioni hanno messo in pratica questi provvedimenti? Sì, scrivono gli autori dell’articolo, e questo può spiegare i numeri bassi di casi giornalieri di questo periodo. E tuttavia, la disparità tra le Regioni e le Province autonome è grande, così grande che rischia di mettere a repentaglio il futuro. A dimostrarlo ci sono i risultati di uno studio che accompagna l’editoriale. Si tratta di un’indagine promossa dall’Associazione Italiana di Epidemiologia su metodi e strumenti adottati dalle strutture di prevenzione delle Asl per interrompere le catene di contagio.

Insomma, come si sono organizzati i servizi per sorveglianza e contact tracing? Ognuno come poteva, potremmo dire, e il risultato è una grande eterogeneità di risposte, come dimostrano alcuni dati tratti dal resoconto dell’indagine: l‘intervista ai casi confermati è stata fatta con un questionario locale in 23 dipartimenti, mentre in sei ASL non è stato utilizzato uno strumento standardizzato. I dati raccolti sono stati registrati su una piattaforma regionale in 13 dipartimenti (in 8 regioni) mentre in 18 sono stati registrati solo a livello locale e in due non tutti i casi sono stati registrati. Solo 13 dipartimenti in 9 regioni (23%) hanno registrato i dati dei contatti su data base regionali, 10 hanno solo registrazioni su carta, mentre il 56% li ha registrati su data base locali. Ad aprile, solo otto Regioni sulle 14 partecipanti all’indagine avevano una piattaforma regionale per la registrazione e comunicazione dei dati più rilevanti. “L’eterogeneità della risposta all’epidemia – dicono gli autori - è evidente anche dal numero (da 30 a 140 a seconda delle Asl) e dalla natura degli operatori in essa impegnati”.

Un virus (probabilmente) a lungo termine

Ora il problema è che il virus è sempre qui con noi e continuerà a circolare probabilmente a lungo. Ricordano i ricercatori che hanno firmato l’editoriale che siamo molto lontani dall’immunità di gregge: tra il 90 e il 97% della popolazione italiana è ancora suscettibile a SARS-CoV-2. Inoltre, il virus non ha subito mutazioni tali da ridurne la pericolosità clinica. OMS e ECDC ritengono che in autunno si possa ripresentare un picco di contagi anche dovuti a una reimportazione di casi dai Paesi dell’emisfero sud. “Un completo spegnimento dell’epidemia è giudicato improbabile”, scrivono Vineis e gli altri.

Le loro previsioni sono confermate dai dati che arrivano da tutta Europa: mercoledì scorso in Spagna si sono contati 1.153 nuovi contagi, numeri che non si vedevano dal 2 maggio, mentre in Germania erano quasi 700. In Italia ci sono ancora 655 focolai attivi. Di fronte a queste informazioni, cosa bisogna fare? “Appare chiaro a tutti che arrivare impreparati al periodo autunnale con una eventuale seconda ondata importata da altri paesi non sarebbe ammissibile”, conclude l’editoriale.

Raccomandazioni urgenti per i prossimi mesi

Gli autori danno quindi una serie di raccomandazioni che qui riassumiamo, ma che chi vuole può trovare in forma dettagliata nell’articolo. Le raccomandazioni vanno dal mettere in atto rigorose procedure operative per la sorveglianza (in modo da uniformare la raccolta dati e la risposta all’epidemia) al garantire l’inter-operatività dei sistemi informativi regionali (che spesso oggi hanno difficoltà a parlare fra loro), dall’adeguamento alla nuova fase delle piattaforme di sorveglianza al potenziamento di una rete di sorveglianza dei sintomi influenzali su scala nazionale basata su una rete di medici di medicina generale, pediatri e accessi al pronto soccorso. Dal potenziamento dei dipartimenti di prevenzione alla messa a punto di una comunicazione rapida, chiara ed efficiente. Dall’esplorazione di metodi innovativi di identificazione precoce dei focolai al potenziamento delle capacità diagnostiche.

Per quanto riguarda l’organizzazione del lavoro, si propone il mantenimento di una struttura modulare e flessibile nelle Asl per una risposta veloce nel caso di nuova emergenza, il potenziamento di attività di formazione, la predisposizione di attività di sorveglianza e screening delle popolazioni ad alto rischio, l’accesso ai dati della sorveglianza nazionale alla comunità scientifica.

Infine, sul piano dei comportamenti, il mantenimento delle misure igieniche e comportamentali (dal distanziamento all’uso delle mascherine alla sanificazione degli ambienti) accompagnate da adeguare campagne informative e il monitoraggio della disponibilità dei dispositivi individuali di protezione.

L’editoriale è accompagnato anche da un altro articolo che è il resoconto di un gruppo di lavoro dell’AIE che ha identificato le aree di ricerca attualmente prioritarie in Italia su Covid-19. Insomma, una lista lunga di cose da controllare e da intraprendere ex novo per una preparedness cui ogni Paese è tenuto, come dice l’OMS, avendo ben presente che qui l’approccio del “modello unico per tutti” non funziona. 

Leggi il commento di Giuseppe Ippolito.

Leggi il commento di Alessandro Vespignani.

 


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