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Into the wild? Anche no...

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Negli ultimi vent’anni il settore turistico naturalistico è in piena espansione. Ma se da un lato la ricerca di un contatto con la natura aiuta la tutela degli ecosistemi, dall’altro può diventare nemico della conservazione. Il tutto sta nella ricerca di un equilibrio da non dare per scontato

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Cosa c’è di meglio di una boccata di aria pura in montagna, o di un tuffo in acque cristalline e incontaminate? Dopo i difficili mesi chiusi in casa per il lockdown, ecco che l’estate ai tempi di Covid-19 segna un boom di presenze in aree naturali, protette e non. Le vacanze a contatto con la natura sono in costante aumento negli ultimi venti anni in tutte le latitudini, e questa tendenza è in gran parte legata alla possibilità di vedere gli animali selvatici: come dimostra un recente report del World Travel and Tourism Council, il cosiddetto wildlife tourism è un settore turistico in piena espansione. Nel 2018 ha portato a un incasso di circa 120 miliardi, approssimativamente il 4,4% degli introiti complessivi del turismo globale, e ha generato 9,1 milioni di posti di lavoro. La maggior parte delle attività turistiche di questo tipo si svolge all’interno di aree protette.

Da un lato questa ricerca di un contatto con la natura e la fauna è molto positiva: per esempio, rappresenta un'importante risorsa per il contrasto al bracconaggio (basti pensare a rinoceronti, elefanti e gorilla in Africa, in cui il turismo rappresenta un interesse economico che rinforza le attività di tutela). Ma come spesso accade, l’equilibrio è sottile ed è facile passare da opportunità a minaccia.

La fiera delle vanità

Un tempo sconosciuti ai più, negli ultimi anni i bradipi sono protagonisti di loghi, meme, fumetti, illustrazioni e fotografie. Sarà per la loro apparente goffaggine e lentezza di movimenti, per il muso buffo… fatto sta che sono diventati animali famosissimi e, in un mondo dominato dai social e dall’immagine, questa crescente popolarità si è tradotta in una incredibile domanda di selfie. La ricerca di foto con i pacifici bradipi da condividere sui social è in breve diventata motore di un’economia basata sul traffico illegale di questi animali, catturati in natura da piccoli, verosimilmente dopo aver ucciso la madre. Secondo un report della ong World Animal Protection, in Brasile e centro America, il 70% delle foto di bradipi pubblicate su Instagram sono selfie in cui la persona tiene in braccio o tocca l’animale, spesso decorato con fiocchetti e cappellini per rendere lo scatto più divertente.

I bradipi hanno abitudini notturne, in cattività sono costretti a rimanere svegli per poter soddisfare le esigenze fotografiche dei turisti; in una giornata un singolo animale viene maneggiato da diverse persone e lo stress derivante è tale che l’aspettativa di vita è in media di circa sei mesi.

I bradipi non sono le sole vittime della caccia alla popolarità sui social. Secondo il già citato report di World Animal Protection, c’è stato un aumento del 292% del numero di selfie con animali selvatici postati sui social, e in più del 40% dei casi si tratta di fotografie che ritraggono un comportamento sbagliato, ovvero l’animale viene toccato, o si trova a una distanza molto ravvicinata rispetto alla persona. In Costarica, il fenomeno ha raggiunto dimensioni tali da portare a una campagna governativa, chiamata #stopanimalselfies, che denuncia il problema dei selfie con gli animali selvatici e fornisce linee guida per fare dei “selfie sostenibili”.

Il Costarica è infatti al settimo posto nel mondo per maltrattamenti agli animali legati ai selfie, ma è in “buona” compagnia. Uno studio del 2018 ha dimostrato che il 54% delle attività proposte su Trip Advisor in America Latina per l’osservazione della fauna proponevano la possibilità di toccare gli animali, nel 35% dei casi di dar loro da mangiare, e nell’11% dei casi di nuotare insieme a loro (anche con il rarissimo delfino rosa).

Il 21% delle specie è minacciata di estinzione secondo la lista rossa dell’Unione internazionale della conservazione della natura (IUCN) e il 60% rientra nell’elenco della CITES, ovvero sono specie per il quale è vietato il commercio e il trasporto.

Si prega di non disturbare

Non necessariamente le esperienze turistiche che vanno a discapito della fauna comportano una cattura, un maltrattamento o un traffico illegale. Un’ analisi condotta dall’agenzia nazionale per i parchi in Canada ha mostrato che all’aumento costante di visitatori nelle aree protette corrisponde un significativo aumento delle violazioni dei regolamenti, incluso l’arrecare disturbo agli animali selvatici o il dar loro del cibo. Negli Stati Uniti, il National Park service ha lanciato la campagna #keep wildlife wild, letteralmente “mantieni la fauna selvatica”, in cui si invitano i turisti a mantenere la distanza dagli animali selvatici e a non dare loro da mangiare.

Nel nord America, le conseguenze di un selfie o una foto a distanza ravvicinata con un selvatico si traducono in un rischio per l’incolumità delle persone (per esempio, negli ultimi anni ci sono stati molti episodi di persone caricate dai bisonti perché si erano avvicinate troppo per scattare foto con il cellulare) e anche degli animali, perché in caso di aggressione spesso la risposta gestionale è la cattura o abbattimento dello stesso.

«Avvicinarsi a un animale selvatico può provocargli sicuramente un forte stress nell’immediato, ma può innescare anche delle reazioni negative sul lungo termine», spiega Daniela Gentile, naturalista e tecnica faunistica presso il Servizio scientifico del Parco Nazionale d’Abruzzo Lazio e Molise. Esiste una sempre più nutrita lista di studi che dimostrano come le attività umane, inclusa la fruizione turistica degli ambienti naturali, possano alterare i normali comportamenti degli animali. In termini tecnici si parla di “disturbo alla fauna” e l’effetto può essere transitorio (per così dire si esaurisce a uno spavento, anche se in realtà anche questo non va sottovalutato) o sfociare nel lungo periodo in stress cronico, problemi nel reperimento del cibo, utilizzo di aree non idonee per la sopravvivenza fino a impatti sulla riproduzione.

Nel lungo termine le attività ricreative all’aria aperta possono agire come vere e proprie barriere, invisibili ai nostri occhi ma ben percepibili dagli animali, e quindi influenzare l’abbondanza e la composizione delle specie che popolano un dato ambiente. Ma le conseguenze del disturbo possono avere anche risvolti più inaspettati: «Tentativi di avvicinamento ripetuti nei confronti di un animale intelligente e molto adattabile come l’orso possono indurre in esso un comportamento di tipo confidente, cioè la perdita della naturale diffidenza verso gli esseri umani. Questo ha dei risvolti negativi sotto molti punti di vista: per esempio, gli orsi confidenti possono avvicinarsi ai centri abitati, con tutto quello che ne consegue per la sicurezza degli animali e delle persone», prosegue Gentile.

Distanze di sicurezza

«Il flusso turistico nelle aree protette negli ultimi anni sta crescendo in modo ingente, ed è perciò fondamentale lavorare sulla comunicazione e l’educazione per aumentare la consapevolezza dei visitatori. Questo vale per le aree protette ma anche per quelle esterne a esse, soprattutto in un Paese come l’Italia, dove la natura e gli ambienti antropizzati sono senza soluzione di continuità», spiega Daniela Gentile.

All’interno del territorio del Parco Nazionale d’Abruzzo Lazio e Molise vivono alcune specie animali di elevato valore naturalistico e grande popolarità, come l’orso bruno marsicano o il camoscio appenninico, entrambe sottospecie peculiari del nostro Appennino centrale e che la presenza di un’area protetta ormai quasi centenaria ha salvaguardato. «Nel Parco è relativamente facile avvistare animali selvatici di ogni tipo e questo rappresenta una grande attrattiva per gli appassionati, il che è un bene, perché l’emozione di vedere un animale selvatico può sicuramente avere un riscontro positivo per l’approccio delle persone alla conservazione. Però, alla luce del flusso in aumento di persone interessate a questa attività, è sicuramente necessario regolamentarla, perché è fondamentale assicurare una tranquillità agli animali. Vedere un animale a un chilometro di distanza con un cannocchiale è sicuramente diverso che guardarlo a una distanza di dieci metri, ma è importante far comprendere alle persone che mantenendo la distanza si osserva veramente l’animale nel suo ambiente naturale senza interferire in nessun modo con le sue attività», continua Gentile.

Il Parco Nazionale d’Abruzzo Lazio e Molise si è appena dotato di un nuovo disciplinare che regolamenta la fruizione turistica nel territorio. I tecnici del Parco hanno organizzato giornate rivolte alle guide escursionistiche in cui hanno illustrato le prove scientifiche sul disturbo alla fauna e le sue ripercussioni per la conservazione. «Questo serve a spiegare meglio le motivazioni alla base delle regolamentazioni come le chiusure di alcuni sentieri in determinati periodi dell’anno o la limitazione delle attività turistiche in ore critiche come quelle crepuscolari. L’intento è quello di fare acquisire alle guide stesse una maggiore consapevolezza, perché a loro volta possano essere in grado di trasmetterla ai clienti; il bacino di utenza è ampio e la gran parte delle persone è predisposta a recepire le indicazioni per evitare di avere un impatto sugli animali, che nella maggior parte dei casi non è dettato da una cattiva fede», spiega la naturalista.

Sostenibile fa rima con usufruibile

«L’ecoturismo per definizione deve basarsi sulla sostenibilità, cioè il fatto di usufruire di una risorsa - in questo caso la bellezza natura o l’osservazione di una specie animale - preservandola per le generazioni future, quindi non deve ammettere comportamenti che vanno a danneggiare la risorsa stessa», spiega Clara Tattoni, ricercatrice presso il Dipartimento di Scienze e Tecnologie Agrarie, Alimentari Ambientali e Forestali dell’ Università di Firenze e collaboratrice dell’Institute for sustainable tourism and sustainable economic development (ULPGC) a Las Palmas de Gran Canaria.

Un reale ecoturismo deve avere un risvolto positivo anche per le comunità locali, incentivando così la volontà di preservare la natura, perché l’ecosistema intatto assicura un benessere economico. «L’ideale è creare un circolo virtuoso in cui le persone che abitano in un luogo naturale ne diventino i custodi, anche perché è per loro conveniente: se una popolazione animale si estingue o viene deforestata un’area, viene infatti a mancare l’attrattiva del luogo e i conseguenti benefici per le comunità locali derivanti dalla fruizione ecoturistica. Esempi positivi vengono dal Nord America, in quelli chiamati first nation, dove le popolazioni native hanno ottenuto la tutela di loro territori, in cui fanno da guida per l’osservazione degli orsi», racconta Tattoni.

Il beneficio economico di un ambiente naturale sano e della presenza di fauna è tangibile. In uno studio pubblicato nel 2017 e di cui è prima autrice, Clara Tattoni e collaboratori hanno misurato quanto e come si parla dell’orso in Trentino sui canali televisivi nazionali. «Si è visto che in realtà se ne parla in modo positivo e i potenziali turisti che scelgono il Trentino spesso lo associano a un ambiente naturale incontaminato, unico territorio alpino dove vivono anche gli orsi. Quindi l’orso svolge una funzione di promotore territoriale: nei servizi sull’orso dei telegiornali nazionali vengono scelte delle immagini molto simili a quelle utilizzate dall’agenzia di promozione turistica del territorio trentino. Si tratta di una pubblicità indiretta al territorio e gratuita. Abbiamo misurato che in quattro anni la presenza dell’orso nei servizi televisivi è stato equivalente all’acquisto di circa un milione di euro in servizi di promozione televisiva del territorio». 

Il problema è che a volte vengono vendute come ecoturismo attività che non hanno nulla a che vedere con esso: «In Thailandia, gli elefanti, a lungo utilizzati per il disboscamento, sono stati in seguito riciclati dall’industria del turismo per farli esibire in spettacoli di intrattenimento per i turisti, come giocare a calcio o fare il bagno con le persone, o per trasportare sul dorso i visitatori in lunghe escursioni nella foresta, attività che però sono molto impattanti per questi animali», racconta Tattoni. In Thailandia meno della metà degli elefanti vive libero: sono infatti 3.500 i pachidermi selvatici, mentre 3.800 quelli ai servizi dell’uomo. «Però ci sono associazioni che stanno selezionando delle attività sostenibili per lo sfruttamento degli elefanti, come la creazione di riserve in cui l’interazione con i turisti è meno impattante e allo stesso tempo si crea un beneficio per le comunità locali».

Una fruizione consapevole della fauna

Il wildlife tourism è quindi un mercato globale in piena espansione, e può essere una risorsa, ma solo se associata a un utilizzo sostenibile. Molte delle esperienze che prevedono una interazione diretta con gli animali selvatici proliferano grazie alla inconsapevolezza sui problemi di conservazione da parte degli utenti. In uno studio del 2015 sono state analizzate le recensioni di esperienze di wildlife tourism lasciate dagli utenti sui principali siti web turistici: solo il 7% delle recensioni sono negative perché la persona ha percepito una incompatibilità dell’attività con la tutela degli animali.

In assenza della presenza di regolamenti internazionali, l’ago della bilancia si sposta in funzione dei guadagni dovuti alla fruizione turistica, ma non si può dare per scontata una consapevolezza da parte dei turisti rispetto all’eticità delle esperienze con gli animali, perché nella maggior parte dei casi non hanno gli strumenti tecnici.

In Alberta, Canada, le aree protette, in collaborazione delle università, hanno sviluppato un programma di interpretazione della natura basato sulla “teoria del comportamento pianificato”, secondo la quale le persone sono più propense a modificare un comportamento se convinte che questo porterà a conseguenze positive. Una volta spiegate e condivise le ragioni delle norme, le persone sono motivate ad assumere un comportamento più rispettoso verso la natura. 

«In esempi virtuosi di ecoturismo per l’avvistamento di mammiferi marini ci sono regole di fruizione ecoturistica molto ben definite. Si è visto che le persone erano attente al rispetto di queste norme e al termine della visita erano disposte a cambiare alcuni comportamenti a favore degli animali marini, per esempio stare più attenti all’utilizzo e riciclo della plastica, o evitare di visitare tratti di spiaggia per evitare di arrecare disturbo alle tartarughe” racconta Tattoni.

«Sicuramente le persone vanno educate ad adottare un comportamento corretto e rispettoso della fauna, ma diversi studi dimostrano che porsi in maniera troppo accademica o con il solo approccio normativo non è efficace. Si deve lavorare anche sul rapporto emotivo con la fauna; le persone che visitano un ambiente naturale o hanno già una propensione favorevole o comunque vanno in cerca di sensazioni positive. È importante trasmettere loro il concetto che mantenendo le distanze e rispettando gli animali l’emozione può diventare ancora più forte e bella perché vedi l’animale nel suo contesto naturale. Osservare gli animali in natura è sostenibile ma non è così semplice: è un qualcosa che richiede un grande esercizio di un equilibrio tra tutte le parti in gioco, tra chi lavora per la conservazione, chi è alla ricerca di un contatto con la natura e chi vive in quei posti».

 


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