Qualcuno ha proposto di parlare di co-pandemia nel caso di Covid-19, perché l’infezione è mortale soprattutto per anziani e malati cronici. Non solo: diventa più letale scendendo le scale dello status socioeconomico, e con un rischio maggiore per le etnie più svantaggiate. Nell’enumerare le cause aggravanti della malattia, i ricercatori si sono però dimenticati del lavoro. Parte da qui la riflessione di Alessandro Marinaccio, responsabile del laboratorio di epidemiologia dell’INAIL, che insieme a Sergio Iavicoli (INAIL e CTS) e Ranieri Guerra (OMS) hanno corretto il tiro in un recente commento su Lancet. Gli abbiamo fatto qualche domanda per approfondire il tema. Foto di Luke Jones su Unsplash
Covid-19 si avvantaggia delle nostre fragilità. Tanto che qualcuno ha proposto di chiamarla co-pandemia, essendo l’infezione da coronavirus mortale soprattutto per anziani e malati cronici in generale. Non solo: diventa man mano più letale scendendo le scale dello status socioeconomico, e con un rischio maggiore per le etnie più svantaggiate. Tutto giusto, ma nell’enumerare le cause aggravanti della malattia, i ricercatori si sono dimenticati del lavoro. Parte da qui la riflessione di Alessandro Marinaccio, Responsabile del laboratorio di epidemiologia dell’INAIL, che insieme a Sergio Iavicoli (INAIL e CTS) e Ranieri Guerra (OMS) hanno corretto il tiro in un recente commento su Lancet [1]. Ne abbiamo parlato con Alessandro Marinaccio.
Su quali dati poggiano le vostre argomentazioni?
Il dato più evidente è il numero delle denunce di infortunio INAIL che hanno come causa il Covid-19: a fine agosto sono 52.209, pari a un quinto dei casi positivi a quella data nella popolazione generale. Non mi sembra poco.
In che senso “infortunio”?
L’INAIL riceve le denunce di infortuni e malattie professionali, che rispetto ai primi hanno latenza e sviluppo più lento. Per la malattia da COVID-19, come per ogni altra malattia infettiva, la causa virulenta è equiparata a una causa violenta e i soggetti ammalati di Covid-19 a causa del lavoro sono trattati, per i profili assicurativi, come infortuni sul lavoro. Viceversa, una tipica malattia professionale, ad esempio, è il mesotelioma da amianto, che può manifestarsi fino a 40 anni dopo l’esposizione, e che ora in Italia si trova in una fase di plateau, pari a 1.500 morti all’anno, in un quadro internazionale che vede l’allentamento delle misure di prevenzione dell’esposizione ad amianto in Paesi importanti come Stati Uniti e Brasile.
Tornando a Covid-19, queste denunce indicano persone malate con sintomi o in generale positive?
Il datore di lavoro segnala i casi di sospetta infezione in ambiente di lavoro. Le denunce vanno ovviamente appurate sia dal lato della diagnosi che del nesso causale con il lavoro svolto ed è per questo che i dati devono essere valutate con cautela.
Quali sono le categorie più colpite?
Ovviamente il personale sanitario e dedicato all’assistenza (70%), seguito da chi svolge un lavoro a contatto con il pubblico, i servizi di pulizia, di vigilanza e sicurezza. L’età media è 47 anni, gli italiani l’84% e fra gli stranieri, in ordine di frequenza, rumeni, peruviani e albanesi. La pandemia ha colpito prevalentemente sanitari fra marzo e aprile, poi si è spostata, verso l’estate, anche su albergatori e professioni più a contatto con il pubblico.
Ricordo che all’apertura delle scuole i presidi non volevano prendersi la responsabilità di “infortuni” che non necessariamente derivano da loro inadempienze…
Qui è il caso di chiarire l’equivoco. La denuncia all’INAIL, fatta dal datore di lavoro, non comporta necessariamente una sua responsabilità, che dipende dal fatto che abbia o meno commesso un reato. La segnalazione all’INAIL costituisce una fondamentale forma di tutela tramite l’assicurazione pubblica per tutti i lavoratori in caso di infortunio e malattia, e non costituisce affatto una presunzione di colpevolezza del datore di lavoro.
Quei 52mila casi potrebbero essere sottostimati?
Sì, perché sfuggono i lavoratori non assicurati presso l’INAIL ed in generale i lavoratori non in regola dal punto di vista contrattuale. E’ molto difficile valutarlo con puntualità, ma è possibile che alcune categorie di lavoratori come per esempio gli addetti alla cura delle persone in ambito familiare, possano scontare questo fattore di sottostima. Per questo in generale è importante rafforzare un sistema di sorveglianza epidemiologica occupazionale, per migliorare la prevenzione e non dover solo constatare i danni.
Ma non esiste già una sorveglianza epidemiologica?
Sì, ma questa è di natura generale e ambientale, mentre nel caso di epidemie, come quella in corso, per le quali l’attività lavorativa giochi un ruolo determinante, è fondamentale sviluppare sistemi di sorveglianza occupazionale anche per identificare le categorie vulnerabili in vista della definizione delle priorità nelle politiche di vaccinazione. Qual era la domanda con cui esordiva il capostipite seicentesco della medicina del lavoro Bernardino Ramazzini quando si trovava davanti a un malato?
Qual era?
“Che lavoro fai?” Una sorveglianza occupazionale più forte potrebbe indagare attivamente le cause di malattia professionale (inclusa la malattia da Covid-19) e ne farebbe certamente emergere altre, contribuendo decisamente alla prevenzione dei rischi.
Malattie anche mentali?
Nei mesi caldi della pandemia l’INAIL ha svolto un ruolo importante nel sostegno psicologico delle categorie più colpite dallo stress. È stata una palestra incredibile che ci ha consentito di accertare livelli altissimi di stress correlato al lavoro di cura e assistenza, con casi anche di suicidio che sono stati documentati un po’ ovunque nel mondo.
Quando si è usciti dal lockdown il governo ha impostato un ritorno alla normalità secondo una categorizzazione dei lavori in base ai loro profili di rischio a cui ha collaborato anche INAIL. Quali sono dunque i lavori più a rischio?
I più a rischio sono i lavoratori della sanità, assistenza, pulizia e forze dell’ordine. Seguono chi lavora nella ristorazione e mense, i corrieri, addetti allo spettacolo, badanti. Via via seguono gli altri. Per arrivare a queste liste si è adottata una metodologia validata a livello internazionale che stima il livello di rischio in base a tre parametri: esposizione (probabilità di venire a contatto con fonti di contagio), prossimità (lavori che non consentono distanziamento, come la catena di montaggio), aggregazione (lavori a contatto con il pubblico).
Quanta gente ha continuato a lavorare durante il lockdown?
Secondo l’ISTAT circa 15 milioni di lavoratori, mentre circa 8 sono rimasti a casa. Nella realtà circa il 25% dei lavoratori ha continuato a lavorare in presenza. Con la riapertura il governo ha indicato la regola di tenere a casa in smart working circa il 50% dei lavoratori secondo valutazioni di vulnerabilità che tengano in considerazione età, fragilità, la necessità di usare mezzi pubblici e quant’altro.
Queste regole valgono per tutti o solo per i dipendenti pubblici?
Valgono per tutti. Nella pubblica amministrazione in particolare, recentemente con l’attuale ripresa dell’epidemia, il governo potrebbe disporre di passare a forme di lavoro a distanza per il 70% dei lavoratori.
Un’ultima domanda: se lavorare in certe condizioni in tempi pandemici può nuocere, perdere il lavoro può fare anche peggio. L’INAIL affronta anche questo aspetto?
L’INAIL garantisce la tutela assicurativa per i lavoratori che subiscono un infortunio o sono colpiti da una malattia di origine professionale, ma non è investita di compiti specifici per il dramma del lavoro perduto. Fra le sue attività ci sono anche la ricerca scientifica nel settore della salute e sicurezza occupazionale, e quella di contribuire al reinserimento lavorativo dei soggetti ammalati, dove ha raggiunto livelli di eccellenza nel settore della ingegneria delle protesi riabilitative.
Note
Marinaccio A, Iavicoli S, Ranieri Guerra Work a key determinant in Covid-19 risk. The Lancet Global Health. September 25 2020.