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Cinquant'anni senza malaria

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Sono passati cinquant'anni da quando l'Organizzazione mondiale della sanità ha dichiarato l'Italia libera dalla malaria: Gilberto Corbellini ripercorre la storia della lotta alla malattia nel nostro Paese, per spiegare cosa può insegnare ai piani di eradicazione mondiali.

Nell'immagine: segnatori all'opera durante la campagna antimalarica in Sardegna negli anni 1948-1950 (immagine di Wolf Suschitzky). La campagna antimalarica prevedeva due fasi: anzitutto le squadre di segnatori dovevano ispezionare il territorio per individuare i punti in cui si annidavano le zanzare; completata la mappatura, una seconda squadra aveva il compito di irrorare il DDT nelle zone segnalate.

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L’Italia fu ufficialmente dichiarata libera da malaria dall’OMS il 17 novembre 1970. Una malattia antica come l’uomo era stata sconfitta dalla ricerca, dalle misure sanitarie e dallo sviluppo economico e sociale in una regione dove circolava da circa 2500 anni.

La malaria in Italia: antefatti

La malaria era presente stabilmente in Italia almeno dal II secolo a. C. La sua storia naturale è stata condizionata per circa due millenni dalle fluttuazioni climatiche, dall’idrografia, dai disboscamenti, dal latifondo e dalle vicende belliche, che influenzavano la geografia ecologica e la densità dei vettori. In Italia, lo si era capito all’alba dell’età moderna, erano soprattutto le paludi retrodunali dei litorali del Veneto, del Centro e Sud Italia e delle Isole a sostenere la riproduzione dei vettori e, quindi, la trasmissione della malattia. La storia ecologico-sanitaria dell’infezione poté essere spiegata dopo la descrizione dei plasmodi e della loro biologia (1880-1900), la dimostrazione del meccanismo di trasmissione (1897-98) e la scoperta del complesso (maculipennis) di specie di zanzare gemelle allo stato adulto ma con diverse capacità vettrici (1926-1933).

La malaria in Italia era un “colosso coi piedi di argilla”, secondo lo zoologo e scopritore del meccanismo di trasmissione Battista Grassi, in quanto era stagionale, dipendeva da ecosistemi modificabili dall’intervento umano, come le paludi e le condizioni abitative, e dall’intervento medico, per cui era possibili sradicarla o vederla scomparire a seguito del progresso economico e sociale.

Circa ventimila decessi all’anno, con una stima due milioni di casi clinici, erano registrati con la prima statistica sanitaria del 1887, che fotografava un paese con oltre un terzo della sua superficie (2.000 Comuni su 8.632) flagellato con diverse intensità da tre parassiti malarici (vivax, falciparum e malariae). L’impatto epidemiologico scendeva in un decennio di sette volte. Non per merito della medicina, ma per i miglioramenti degli ecosistemi agricoli e per il crollo sul mercato olandese del prezzo della chinina, un trattamento di cui era nota l’efficacia terapeutica dai primi anni del Settecento.

All’alba del Novecento i malariologi italiani ottenevano dal Parlamento le leggi più avanzate al mondo, che rendevano obbligatoria la denuncia dell’infezione, la chinina disponibile e prezzo di costo e poi gratuitamente per chi abitava o lavorava in zone malariche, le bonifiche con aiuti di stato, eccetera. Inoltre, essi sperimentavano e confrontavano diverse misure per interrompere la trasmissione, per esempio la protezione meccanica delle persone (per impedire l’infezione dell’uomo o quella delle zanzare) e delle abitazioni contro le zanzare, le bonifiche grandi e piccole per eliminare i focolai larvali o usando di prodotti chimici per distruggere le forme alate o le larve, le misure rivolte contro i parassiti usando la chinina sia come trattamento sia come profilassi.

Su scala politico-economica si studiava l’efficacia di bonificare l’ambiente non solo sul piano idraulico e igienico ma anche agricolo, ciò che implicava la coltivazione dei terreni bonificati e la stabulazione degli animali per attirare le zanzare lontane dalle abitazioni umane (la soluzione ottimale era la bonifica integrale). Senza dimenticare l’attività educativa per diffondere nelle zone malariche, quasi del tutto non alfabetizzate, informazioni e conoscenze indispensabili per rendere fattibili le misure di lotta. I diversi metodi furono preferiti da diverse scuole di pensiero e l’Italia era già all’avanguardia anche per quanto riguardava acerrime divisioni e polemiche tra medici e scienziati su cosa fosse meglio fare.

Il declino della malaria si accentuò dal 1904-1905, quando cominciarono a farsi sentire gli effetti delle leggi antimalariche. I decessi si ridussero nel 1914 a 60 per milione di abitanti, e il numero ufficiale di casi passò da 323.312 nel 1905 a circa un terzo nel 1914. La malattia continuava a essere maggiormente diffusa nel centro, nel sud e nelle isole. La divisione tra le “due” Italie malariche, paradossalmente, si accentuava con gli interventi effettuati dall’inizio del secolo. Nel nord, per esempio, enti e popolazioni erano più efficienti e responsabili nel distribuire e usare i preparati di chinina o nel pianificare le opera di bonifica.

La situazione tornò a peggiorare con la Prima Guerra Mondiale. La distruzione delle opere di risanamento idrico, la ridotta disponibilità di chinina e lo spostamento di masse di civili e militari conseguenti alle operazioni belliche causarono l'esplosione di violente epidemie che colpirono sia le truppe italiane sia la popolazione civile. La diffusione della malaria sarebbe tornata ai livelli dell’anteguerra solo nel 1932, riprendendo a diminuire, lentamente ma stabilmente, dal 1934.

In realtà, il Regime Fascista non forniva dati attendibili. A seguito della Legge Mussolini sulla bonifica integrale, che nel 1928 stanziava 7 miliardi in 14 anni, è logico immaginare che se da un lato le grandi bonifiche delle paludi pontine portarono a un netto miglioramento della situazione malarica, dall’altro la recrudescenza che si registrò nel quadriennio 1928-31 era dovuta all’afflusso di lavoratori non immuni nelle zone malariche per la bonifica integrale, al rientro dei lavoratori dalle zone malariche a quelle d’origine e all’entrata in servizio di nuovi acquedotti senza un adeguato smaltimento delle acque di esubero. Le bonifiche resero disponibili più di 80.000 ettari di terreno paludoso e zone prima inabitabili, l'Agro Pontino, che furono colonizzate da quasi 100.000 persone.

Per il risalto che assumeva in termini di immagine la bonifica anche fuori dall’Italia, il Regime verosimilmente distorse i dati sulla morbilità e la mortalità. Il sud del Paese fu trascurato e la malaria rimase segregata nel meridione, con la Sardegna che registrava un tasso di morbilità tre volte superiore a quello delle regioni più colpite dell’Italia continentale. Ma i dati ufficiali dicono che nel 1949 i casi erano stati 60.708 e i morti 618 (meno di sempre).

Un’arma sorprendente

La Seconda Guerra Mondiale, come si era verificato durante la Prima, determinò una grave ripresa della trasmissione in diverse zone del paese, a causa dell'interruzione degli interventi profilattici e, verso la fine della guerra, della distruzione sistematica delle opere di bonifica da parte dei tedeschi. I sabotaggi furono veri e proprio atti di guerra biologica, progettati da malariologi tedeschi chiamati appositamente dalla Germania alla fine del 1943 per ricreare, soprattutto nell’Agro Pontino e nell’Agro Romano, l’ambiente adatto allo sviluppo dei vettori malarici più pericolosi (An. labranchiae).

Epidemie di notevoli proporzioni colpirono le zone più predisposte, ma anche regioni in cui la malaria era scomparsa da anni o era ormai avviata ad una rapida estinzione, come la provincia di Frosinone. L’epidemia di Cassino e della valle del Liri fu la conseguenza delle devastazioni prodotte dal bombardamento nel febbraio del 1944, in particolare della formazione di crateri che, a seguito delle piogge, fornirono ambienti adatti alla riproduzione di zanzare. Nel 1944, il numero di casi a livello nazionale salì a 133.842, però con “soli” 421 decessi - meno dei due anni precedenti.

Durante la guerra emergeva una nuova idea di controllo antimalarico, basato sull'uso di insetticidi ad azione residua. Gli insetticidi a base di fiori di piretro erano già utilizzati, ma poco efficaci per un impiego diretto contro la zanzara alata, a causa della elevata quantità necessarie per raggiungere un effetto tossico e della scarsa persistenza dell'azione insetticida. Con l'inizio della Seconda Guerra Mondiale, le difficoltà di approvvigionamento del piretro, la cui produzione era controllata in gran parte dai giapponesi, avevano stimolato la ricerca di nuove sostanze.

L'insetticida che avrebbe consentito di controllare le epidemie causate dalla Guerra, e poi di sconfiggere la malaria in Italia e in altre zone temperate del mondo, era il DDT (dicloro-difenil-tricloroetano), che arrivò insieme agli americani nel settembre del 1943, e fu utilizzato per la prima volta in polvere per spegnere un'epidemia di tifo esantematico (trasmesso dai pidocchi) a Napoli. Sintetizzato nel 1874, era stato ignorato fino al 1939, quando la sua efficacia fu scoperta dallo svizzero Paul Hermann Müller, alla ricerca di un prodotto da usare contro i pidocchi. Fu sperimentato negli Stati Uniti su diversi insetti, comprese le zanzare, nel 1942. Nel 1944, il DDT fu sperimentato per la prima volta in Italia, per il controllo della malaria a Castel Volturno (a nord di Napoli) dall’Unità Dimostrativa per il Controllo della Malaria della Rockefeller Foundation, guidata dal malariologo Patrick Russel e da Fred Soper. Spruzzato sulle pareti delle abitazioni e delle stalle, il prodotto si rivelò efficace nel ridurre la densità di zanzare e il livello di trasmissione della malattia. Nel luglio dello stesso anno furono trattate numerose abitazioni a Ostia, e nel giugno del 1945 la sperimentazione fu estesa al Delta del Tevere, alla zona sud-orientale delle paludi pontine e alla zona di Cassino. Il DDT fu utilizzato, nella prima fase di sperimentazione, anche per la lotta contro le larve, spruzzandolo a intervalli regolari sulle zone allagate per mezzo di aerei.

L’efficacia dimostrata dal DDT fece maturare tra gli esperti americani e italiani l’idea che si potesse tentare l’eradicazione sia della malattia sia del vettore. Furono concepiti, nel 1946, due piani, con obiettivi e metodi d’intervento diversi: uno volto all’eradicazione della malaria mediante lo spruzzamento intra domiciliare di DDT alla concentrazione di 2 mg per m2; e un progetto per l’eradicazione dei vettori malarici dalla Sardegna, sostenuto dall’United Nations Relief and Rehabilitation Administration (UNRRA) e dalla Rockefeller Foundation.

I piani di eradicazione

L’azione sanitaria che avrebbe portato all’eradicazione della malaria fu possibile grazie all’offerta dell’UNRRA, che nel 1946 stanziò 1.179.075.000 lire per un programma “Quinquennale” di lotta antimalarica volto a risolvere definitivamente il problema attraverso l’impiego “esclusivo” dei nuovi insetticidi a effetto residuo. Un Piano quinquennale per il risanamento dell’Italia fu presentato nel gennaio del 1946 da Alberto Missiroli, che suddivideva l’Italia in quattro zone, in rapporto alla specie vettrice prevalente e alla sua diffusione.

L’Alto Commissariato per l’Igiene e la Sanità (ACIS) ritenne di attuare il piano con criteri strategico-organizzativi diversi. I punti fondamentali erano: a) conduzione unitaria, ovvero centralizzata, della lotta antimalarica; b) riconoscimento dell’inutilità e impraticabilità di qualsiasi progetto che mirasse all’eradicazione di specie vettrici esistenti da tempi immemorabili nella Penisola (come si cercava di fare in Sardegna); c) disponibilità da parte dello Stato a farsi carico degli oneri finanziari necessari per raggiungere l’obiettivo dell’eradicazione, dato che i fondi UNRRA sarebbero stati insufficienti; d) la messa al bando di ogni esclusivismo dottrinario, come quello sostenuto dagli esperti dell’UNRRA che intendevano finanziare esclusivamente la lotta contro la zanzara alata mentre si dovevano identificare anche i portatori del parassita e sostenere lavori di piccola bonifica.

Il Piano per il Risanamento dell’Italia dalla Malaria iniziò nel 1947 e ebbe come basi operative i Comitati Provinciali Antimalarici esistenti dal 1933, che organizzarono corsi di aggiornamento per i tecnici e fornirono all’ACIS un resoconto continuo e capillare sull’andamento degli interventi antimalarici e sulla diffusione della malattia.

Dal Piano rimase esclusa, fino al 1951, la Sardegna, dove era stato istituito nel 1946 l’Ente Regionale per la Lotta Anti-Anofelica in Sardegna (ERLAAS), il cui obiettivo ufficiale era la eliminazione degli anofeli da tutto il territorio regionale. La nascita dell’ERLAAS e l’attuazione di quello che sarebbe diventato il Sardinian Project (Progetto Sardegna) fu abbastanza tormentata ed è stata oggetto di numerose analisi, poiché si trattò di un esperimento in corpore vili inteso a dimostrare la possibilità di eradicare la malattia eliminando direttamente il vettore della malaria, An. labranchiae. Il progetto non ottenne mai il cosiddetto “negativismo larvale” e alla fine del 1950 la Rockefeller Foundation lasciò la Sardegna dopo aver speso più di 12 milioni di dollari senza aver eradicato le zanzare.

Nel 1947, anno in cui iniziava il Piano per il Risanamento, si registrarono in Italia 13.979 casi e 93 decessi. L’anno successivo ci furono gli ultimi quattro decessi per malaria autoctona. Gli ultimi casi di terzana maligna, dovuta a P. falciparum, furono registrati in Sicilia e Sardegna nel 1952, mentre gli ultimi tre casi di terzana benigna dovuta a una sorgente autoctona furono registrati in Calabria e in Sicilia nel 1962. Nel 1965 avveniva l’ultimo caso di trasmissione di P. malariae da parte di una zanzara locale.

Le infezioni sono ecosistemi

Il DDT usato secondo il “metodo italiano” non uccideva le zanzare, ma esercitava un effetto irritante, per cui causava la loro fuoruscita dalle abitazioni, dove la temperatura consentiva lo sviluppo del parassita. Nelle regioni temperate, anche in estate, la stagione principale della trasmissione, la temperatura scende normalmente sotto i 19-18°C, cioè sotto il minimo necessario perché il plasmodio riesca a svilupparsi nel vettore. In pratica le zanzare infette morivano prima di diventare infettanti. L’eradicazione della malaria dall’Italia usando il DDT fu possibile perché, dato il contesto climatico ed ecologico, la trasmissione dipendeva dalla presenza dei vettori nelle abitazioni.

Nelle regioni tropicali, le temperature sono costanti giorno e notte e sempre favorevoli allo sviluppo del parassita, per cui la trasmissione è perenne e il DDT non esercitava alcun effetto di controllo in quei contesti ecologici di riproduzione del vettore, nei quali peraltro le attività agricole umane non contrastano la malaria, ma la favoriscono.

Ignorando questi fatti scientifici, la strategia militare mirata contro il vettore produsse agli inizi degli anni Cinquanta l’idea di un “programma mondiale” di eradicazione della malaria. Nel 1955, l’ottava World Health Assembly, riunitasi a Città del Messico, autorizzava l’Organizzazione Mondiale della Sanità a istruire un programma (limitato nel tempo), il cui obiettivo finale fosse l’eradicazione della malaria nel mondo. La giustificazione era il “pericolo rappresentato del potenziale sviluppo della resistenza da parte degli anofelini agli insetticidi”. Nel corso degli anni Sessanta iniziava, però, a emergere chiaramente l’impossibilità di conseguire l’obiettivo dell’eradicazione mondiale e le agenzie USA riducevano progressivamente i finanziamenti. Il programma di eradicazione della malaria venne formalmente abbandonato dall’OMS in occasione della World Health Assembly del 1969.

Nel settembre 2019, una Lancet Commission ha licenziato un rapporto che riconosceva come praticabile e necessaria l’eradicazione della malaria entro il 2050 . Lo studio era finanziato dalla Bill e Melinda Gates Foundation. Il report non è particolarmente sintonizzato sulle diverse ecologie che supportano la malaria grave soprattutto in Africa e assume in pratica che tutte le misure, di carattere politico-organizzativi e investimento finanziario, così come le nuove tecnologie diagnostiche, farmacologiche, di ingegnerizzazione dei vettori funzionino all’unisono.

La lezione italiana, in un contesto in cui la malattia dipendeva da un ecosistema instabile, mentre quello africano è molto stabile, mostra che servono comunque, innanzitutto, consapevolezza politico-scientifica del problema, know how locale e meno fatalismo o superstizione tra le persone minacciate dall’infezione.

 

Bibiografia
Amorosa LF, Corbellini G and Coluzzi M. Lessons learned from Malaria: Italy’s past and Sub- Sahara’s future. Health & Place 2005 11(1), pp.67–73
Pombi M, Modiano D and Corbellini G. Malaria eradication in Italy: the story of a first success. In: Ecology and evolution of infectious diseases: Pathogen control and public health management in low-income countries. Edited by Benjamin Roche, Hélène Broutin and Frédéric Simard: Oxford University Press, 2018; pp. 201-2017
Corbellini G e Merzagora L. La malaria tra passato e presente: storia e luoghi della malattia in Italia; Rome: Milligraf, 1998

 


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