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Giorgio Metta: più fondi per la ricerca, e meglio spesi

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Dopo l'appello del fisico Ugo Amaldi e le recenti dichiarazioni del Ministro Manfredi sembra muoversi qualcosa sul finanziamento alla ricerca. L'importante, però, non è solo aumentare i fondi a disposizione, ma anche spenderli nel migliore dei modi.

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Qualcosa si muove in Italia: dopo l’appello promosso dal fisico Ugo Amaldi che chiede un raddoppio del finanziamento della ricerca pubblica, il ministro Gaetano Manfredi ha promesso 15 miliardi di euro (in cinque anni) per finanziare università e ricerca. Una buona notizia, che speriamo possa essere confermata in questa difficile stagione di ripresa epidemica. Al netto di un considerevole aumento di risorse per il motore scientifico del paese, resta da capire dove e come spendere questi soldi. Sappiamo che il prossimo bando PRIN metterà in palio 750 milioni di euro per i prossimi tre anni, a favore della ricerca di base. Ma il resto? Basta mettere più benzina o si deve pensare anche qualche modifica al motore? Ne abbiamo parlato con il direttore scientifico dell’Istituto Italiano di Tecnologia Giorgio Metta, testimone di una realtà abbastanza unica nel panorama italiano. IIT infatti è un grande centro di ricerca italiano di natura pubblica ma con regole che lo avvicinano alle realtà dei grandi centri di ricerca internazionali, sia nel reclutamento dei ricercatori, sia per altri aspetti. È lui quindi il primo intervistato a cui chiediamo di stare al «gioco» di immaginare dove andrebbe investita la dote che pare comincerà a vedersi nella prossima finanziaria.

«Premetto che ho aderito all’appello di Amaldi e che mi hanno fatto felice le dichiarazioni del ministro Manfredi. Io non posso che fare riferimento alla mia esperienza, che mi suggerisce prima di tutto di investire contemporaneamente sulle persone e nell’infrastruttura tecnologica. Alla nostra ricerca servono assolutamente laboratori avanzati, che hanno un costo e che abilitano a una ricerca competitiva. Nei nostri laboratori di computazione, di scienza dei materiali e di genomica abbiamo recentemente investito rispettivamente in computer, microscopi molto potenti e macchine per il sequenziamento di seconda generazione che rendono possibile sequenziale l’intero genoma di una persona a un costo sotto i 1000 dollari. Abbiamo così destinato una decina di milioni solo per queste attrezzature che sono il presupposto di una ricerca di punta».

Anche le persone sono importanti però.

Certo, sia nella quantità che nella qualità. Bisogna evitare infatti che questi laboratori, come è successo altrove, diventino splendide cattedrali nel deserto. Per questa ragione dico che bisogna investire contemporaneamente anche sulle persone. Bisogna attrarre talenti e questo lo possiamo fare solo se creiamo le condizioni per fare ricerca d’avanguardia. Il ricercatore «di valore» non è attratto tanto dallo stipendio quanto dalla possibilità di raggiungere i risultati che si prefigge con la propria ricerca. Questo non vuol dire che non li si debba pagare, ma che sia loro garantito uno stipendio che li possa convincere a restare in Italia (quello medio di un professore tedesco si aggira sui 80-100mila euro lordi all’anno), e al contempo dotarli di un budget con il quale possano organizzare il loro progetto di ricerca.

Quindi niente posto fisso?

Più che la stabilità è importante prospettare al ricercatore un programma chiaro, con una seria valutazione periodica, una progressione di carriera, la disponibilità di attrezzature adeguate e la garanzia di indipendenza anche economica nello svolgimento del proprio programma di ricerca. Stabilizzare a prescindere comporta il rischio di consolidare scelte che possono anche rivelarsi sbagliate. La mobilità nel mondo della ricerca è un valore importante. Senza un’esperienza internazionale c’è il serio rischio di rimanere troppo legati al solo modello locale.

Le risorse vanno anche trovate.

Da questo punto di vista bisogna anche dimensionare finanziamenti che raggiungano una massa critica. Mi spiego. Un finanziamento come quello di un ERC o di un’agenzia come l’EPSRC britannica, poniamo da un milione di euro, rappresenta soprattutto in certi filoni di ricerca l’ossigeno necessario per condurre programmi adeguati. Al contrario il finanziamento a pioggia di piccole cifre non crea eccellenza. Il tipico finanziamento di un PRIN da 150mila euro, ad esempio, distribuito peraltro su più ricercatori, porta a una eccessiva frammentazione. Serve invece concentrare le risorse sulle ricerche più promettenti sia perché strategiche, sia perché potrebbero rivoluzionare interi settori della conoscenza o della tecnica.

Di quali strutture avrebbe bisogno il nostro paese?

Immagino una sorta di Max Planck tedesco, con istituti focalizzati su filoni di ricerca su cui si ritiene strategico investire, con completa indipendenza di azione. Il Max Planck è proprio organizzato in questo modo, non tanto su base strettamente disciplinare ma per temi e programmi (a Tübingen hanno i sistemi intelligenti, a Lipsia l’antropologia evolutiva, e così via), e nulla vieta che quando questi programmi siano terminati si possano chiudere per aprirne altri, più in linea con le nuove priorità di ricerca. Per questo motivo vengono reclutati soprattutto ricercatori giovani, a tempo determinato, e con un forte ricambio. Questo tipo di organizzazione ovviamente richiede molte risorse, e un alto numero di ricercatori. Il Max Planck ha un budget complessivo di 2.4 miliardi di euro all’anno e conta uno staff di 23,000 persone.

È possibile questo in Italia?

In parte l’Italia ci sta già pensando, con progetti di questo genere come quello annunciato dal Governo nel campo dell’intelligenza artificiale. Abbiamo poi realtà già esistenti, come lo Human Technopole e l’IIT stesso. Sarebbe anche importante un istituto dedicato alla sostenibilità ambientale e un altro alla computazione quantistica per esempio. Si potrebbe partire dalle priorità tematiche individuate dal nuovo Piano Nazionale della Ricerca (salute, beni culturali, sicurezza, sostenibilità, energia) e creare degli istituti indipendenti ma uniti dallo stesso modello e da una regia anch’essa indipendente e di alto livello, esattamente come nel caso del Max Planck. Si devono evitare errori nella concezione della governance. L’IIT è un esempio da seguire. Ha dimostrato che ispirandosi ai modelli vincenti si possono raggiungere successi molto importanti.

Come ha mostrato anche il troppo presto dimenticato Piano Colao, serve in Italia anche un rafforzamento del rapporto fra ricerca e industria. Come si potrebbe affrontare questa sfida?

Il panorama italiano costituito prevalentemente da piccole industrie rende questo compito complesso. Per attrarre finanziamenti privati e incentivare un lavoro di ricerca comune pubblico-privato bisognerebbe ispirarsi a istituzioni come il Weizmann Institute of Science israeliano, che affianca la ricerca di base a una struttura orientata al mercato finalizzata al trasferimento tecnologico, al finanziamento di proof of concept, alla creazione di spin-off, e a tutte quelle attività che stimolano una ricaduta industriale della ricerca. Esistono anche strumenti, per ora deboli in Italia, come fondi di investimento rivolti alle start up. Anche in questo campo, sembra però che il sistema Paese si stia attrezzando per creare le condizioni necessarie per incrementare questi interventi. Credo che sia un segnale importante.

Qual è la ricezione della nostra politica a queste idee?

Mi fa piacere vedere che il ministro Manfredi è molto attento e responsivo a questi temi, sta veramente cercando di rendere la nostra ricerca più robusta e competitiva. L’eventuale iniezione di nuove risorse non farà vedere subito i suoi effetti, perché la ricerca impiega anni a dare nuovi frutti. Certo Covid e i tempi della politica non facilitano questo lavoro paziente e di lunga gittata, ma mi sembra che ci sia quanto meno la consapevolezza di cogliere questa occasione per rilanciare la ricerca nel nostro paese. Non dimentichiamo mai che è dimostrato che investimento in ricerca e risultati economici son uniti da un legame virtuoso

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