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Elezioni americane: l'accusa di frode e la crisi dei sondaggi

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'I voted' sticker

Credit: pxhere. Licenza: CC0.

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Biden ha vinto, ma Trump denuncia, senza averne alcuna prova, illegalità nel processo di voto. Nella sua ultima conferenza stampa alla Casa Bianca a Washington, ha affermato: «Se si contano i voti legittimi vinco facilmente», e ha ribadito che continuano i suoi sforzi per proteggere l'integrità di queste elezioni attraverso procedure legali intentate dagli avvocati della sua campagna negli stati chiave. Le maggiori emittenti televisive hanno interrotto il collegamento con la Casa Bianca comunicando ai propri spettatori che le accuse del presidente sono infondate.

Frode elettorale

Già nel discorso pronunciato a poche ore dalla chiusura dei seggi, nella notte tra martedì e mercoledì, Trump aveva messo in dubbio l'integrità del processo di voto, definendo le elezioni una frode e aveva assicurato che avrebbe fatto di tutto per vincere, appellandosi addirittura alla corte suprema.

 


La sfiducia nel processo di voto, in particolare del voto per posta, è al centro delle teorie cospirazioniste più diffuse negli ultimi mesi nel dibattito pubblico americano, soprattutto quello sui social media. La Election Integrity Platform, una coalizione di diversi istituti di ricerca americani, ha trovato che le teorie cospirazioniste sono alimentate da reti della destra americana che agiscono in gruppo sui social network, piuttosto che da entità straniere come era avvenuto nel 2016. Un esempio è la storia circolata alla fine di settembre di 1000 voti per posta abbandonati tra i rifiuti nella contea di Sonoma in California. La notizia era falsa, come dichiarato dalle autorità, visto che le schede per il voto per posta non erano ancora state inviate a quella data. Nonostante questo, oltre 25 000 utenti su Twitter la hanno condivisa in un singolo giorno, tra cui il figlio maggiore di Donald Trump con i suoi 5,7 milioni di followers.

Queste reti riescono ad attirare l'attenzione dei media tradizionali che le diffondono ulteriormente nel tentativo di smontarle. In un'intervista su Science Joan Donovan, direttrice dello Shorenstein Center on Media, Politics and Public Policy all'università di Harvard, ha dichiarato: "Quello che stiamo vedendo è che il modo in cui operano tradizionalmente i media si sta trasformando in una vulnerabilità".

In un altro studio condotto da un gruppo di ricercatori di Harvard, l'analisi di una grande quantità di notizie online, tweet e post su Facebook ha evidenziato che l'ampia diffusione delle storie sulle potenziali frodi connesse al voto per posta è riconducibile allo stesso presidente Trump, tramite il suo iperattivo account Twitter, conferenze stampa o interventi nelle trasmissioni della rete televisiva Fox News.

La teoria della frode elettorale non è una novità negli ambienti conservatori americani e non nasce sui social media. Se quest'anno sono stati presi di mira i quasi 65 milioni di preferenze inviate per posta**, nel 2016 fu il voto degli immigrati a essere chiamato in causa, sulla base di un articolo scientifico  pubblicato nel 2014 sulla rivista con peer-review Electoral Studies. Gli autori, tra cui Jesse Richman della Old Dominion University, concludevano che nelle elezioni del 2008 il numero di voti illegittimi da parte di immigrati senza cittadinanza americana (dagli stranieri residenti stabilmente negli USA e in possesso della cosiddetta green card fino agli studenti con visti di breve durata) poteva andare da un minimo di 38 000 a un massimo di 2,8 milioni. Una stima, quest'ultima, sufficiente a mettere in discussione la vittoria di Barack Obama in North Carolina contro John McCain che gli valse la Casa Bianca. Ma la comunità accademica ha messo in dubbio questi risultati, individuando dei problemi metodologici nell'analisi. 200 ricercatori hanno chiesto alla rivista su cui era stato pubblicato l'articolo di ritrattare, ma non sono stati ascoltati.

Il controverso studio è basato su un campione di dati particolarmente grande e pregiato raccolto dal Cooperative Congressional Election Study (CCES), coordinato dal professore di Harvard Stephen Ansolabehere. Il CCES intervista oltre 50 000 persone riguardo le loro caratteristiche demografiche, preferenze politiche e intenzioni di voto. Le interviste, che vengono realizzate online dalla società YouGov, si svolgono ogni anno dal 2006 e negli anni con elezioni presidenziali o di midterm sono ripetute prima e dopo il voto per cercare di misurare quante persone che si dichiarano intenzionate a votare poi votano effettivamente e se dicono la verità. Per raffinare ulteriormente questa misura, il CCES ha acquistato dalla società Catalyst i dati relativi alle registrazioni che gli elettori devono inviare ai propri collegi per poter votare e anche la storia elettorale di ciascuno. Richman e coautori trovano che tra gli intervistati che dichiarano di non essere in possesso della cittadinanza statunitense la percentuale che risulta aver votato secondo i dati di Catalyst è dell'1,5%, mentre quella che dichiara di aver votato ma per cui non c'è conferma nei dati di Catalyst è dell'11,3%. Correggendo queste due percentuali per la dimensione del campione, gli autori fanno due stime: una conservativa che dice che una percentuale tra lo 0,2% e il 2,8% di non cittadini ha preso parte alle elezioni e l'altra, meno conservativa, che colloca questa percentuale tra il 7,9% e il 14,9% (applicando queste frazioni ai 19,4 milioni di non-cittadini che si valuta risiedessero negli Stati Uniti in quel periodo, si arriva all'intervallo che abbiamo indicato all'inizio, tra i 38 000 e i 2,8 milioni di voti illegittimi).

Due i difetti metodologici identificati dalla comunità accademica. Il primo è che alcuni intervistati potrebbero essersi definiti non cittadini per errore oppure aver dichiarato di aver votato per errore. Anche se questi errori venissero commessi raramente, porterebbero a sovrastime importanti dal punto di vista percentuale, poiché il campione di non cittadini raggiunti dal sondaggio è piccolo - circa 340 persone nel 2008 e 490 nel 2010, e ancora più piccolo è il campione di non-cittadini che hanno dichiarato di aver votato o per cui esiste un voto registrato - 38 nel 2008 e 13 nel 2010.

Il secondo vizio metodologico è quello di estrapolare la percentuale di voti illegittimi dal campione alla popolazione generale. Se, infatti, i dati raccolti nei sondaggi del CCES potrebbero rappresentare correttamente la popolazione nel suo complesso, essi sono molto meno affidabili riguardo a gruppi minoritari, come quello dei residenti senza cittadinanza, che oltre a essere meno numerosi sono anche meno raggiungibili online (è ben noto che hanno una probabilità più bassa di avere accesso a internet rispetto alla media).

Nonostante la comunità accademica avesse criticato pubblicamente lo studio, Donald Trump lo utilizzò alla vigilia delle presidenziali del 2016 per sostenere che se Hillary Clinton avesse vinto sarebbe stato solo per i milioni di voti illegittimi degli immigrati clandestini. "Non avete letto di questo studio, vero? I vostri politici non ve lo dicono quando vi parlano di quanto siano legittime le elezioni. Non vogliono parlarvi di questo", disse Trump durante un comizio elettorale in Winsconsin nell'ottobre del 2016.

Il fallimento dei sondaggi

L'inaffidabilità dei sondaggi elettorali e dei modelli di previsione su di essi basati, sembra essere una delle poche certezze con cui usciamo da queste elezioni presidenziali.

La fame di dati e di previsioni quantitative non ha risparmiato questo settore, e il giornalismo politico si è concentrato molto sulle previsioni, soprattutto in questo periodo in cui la pandemia ha reso difficile andare sul campo e raccogliere testimonianze, sì aneddotiche ma utili se inquadrate in un contesto più ampio.

Five Thirty Eight di Nate Silver, TheUpshot con i giornalisti Nate Cohn e Josh Katz del New York Times e, da quest'anno, anche l'Economist con il contributo di Andrew Gelman and Merlin Heidemanns della Columbia University, si sono prodotti in una incredibile quantità di analisi e proiezioni del voto, nessuna delle quali è riuscita a prevedere come altamente probabile il risultato a cui ci troviamo davanti. I modellizzatori si giustificano dicendo che sono i risultati dei sondaggi a essere inaffidabili e i sondaggisti rispondono che i modelli non sono sufficientemente buoni.

Secondo Cathy O'Neil, matematica, attivista e autrice di Weapons of Math Destruction, il baco è nei sondaggi. Inutile complicare i modelli, usare metodi matematici e statistici più sofisticati se i dati raccolti dai sondaggisti non riescono a fotografare la realtà della situazione. Alcuni gruppi di elettori sono difficili da raggiungere, altri mentono. O'Neil vede una somiglianza con la crisi finanziaria del 2008, quando le previsioni prodotte dai modelli si dimostrarono terribilmente sbagliate. Il problema, anche in quel caso, erano i dati su cui erano basati. L'ossessione di molti americani per i sondaggi è sintomo di un rifiuto dell'incertezza, continua O'Neil, dell'impossibilità di conoscere l'opinione degli altri per poter formarsi delle aspettative.

David Graham, giornalista di The Atlantic, sottolinea però l'importanza dei sondaggi di opinione pubblica, non tanto per ottenere previsioni dei risultati elettorali, ma piuttosto per continuare a rimanere in contatto con i propri concittadini. In un'America sempre più organizzata in bolle ideologiche, sempre più distanti geograficamente, professionalmente e nei media di riferimento, questo diventa un problema particolarmente rilevante. Senza contare il fatto che molte azioni politiche si basano sulle fotografie dell'opinione pubblica offerte dai sondaggi.

Ma le elezioni presidenziali 2020 sono solo l'ultimo episodio nella lunga storia dell'industria dei sondaggi elettorali che, nonostante tutto, è riuscita a sopravvivere quasi cento anni negli Stati Uniti. Negli ultimi tempi però le cose non stanno andando bene, a partire dalla vittoria repubblicana nelle elezioni di midterm del 2014, che furono il preludio della presidenza di Donald Trump, e che i sondaggi non furono in grado di prevedere.

In un articolo pubblicato sul New York Times nel 2015, Cliff Zukin, professore alla Rutgers University ed esperto nel campo della ricerca sociale e sull'opinione politica, individua due fattori responsabili di questa crisi. Il primo è la diffusione dei telefoni cellulari, che hanno sostanzialmente sostituito le linee fisse, il secondo è il tasso di risposta che è piombato dall'80% degli anni '80 all'8% del 2014.

L'abbandono dei telefoni fissi in favore di quelli mobili ha fatto crescere enormemente il costo dei sondaggi. Una legge del 1991 impedisce infatti di utilizzare compositori automatici per chiamare le linee mobili, come invece era d'abitudine per le società incaricate perché permetteva di passare la chiamata agli operatori solo se l'utente alzava la cornetta. Ora, invece, i numeri, generati casualmente - e non sempre attivi, devono essere composti manualmente dagli intervistatori (per raggiungere 1000 persone è necessario comporre 20 000 numeri).

La rapida diminuzione del tasso di risposta ha generato poi una perdita di rappresentatività dei campioni. Questo accade perché molte società hanno cominciato a contattare le persone via internet, nel tentativo di ridurre i costi crescenti delle interviste telefoniche con tassi di risposta così bassi. Ma i campioni di persone raggiunte via internet sono campioni cosiddetti 'non probabilistici', cioè campioni per cui non è nota la probabilità di ciascun individuo della popolazione che si vuole studiare di essere incluso. Al contrario, nei campioni probabilistici questa quantità è nota e permette di generalizzare appropriatamente i risultati del sondaggio per rispecchiare la popolazione generale. L'utilizzo dei sondaggi via internet è sempre più diffuso e non solo negli Stati Uniti, anche perché i media che li commissionano hanno visto ridurre i loro budget negli ultimi anni e sono quindi in cerca di prodotti più economici.

Se questi fattori colpiscono in generale tutti i tipi di sondaggi, i sondaggi elettorali soffrono di un problema ulteriore: gli intervistati sovrastimano la loro probabilità di andare a votare e i sondaggisti faticano a trovare dei metodi efficaci per prevederla. Qualcuno ci ha provato. In particolare, lo studio CCES, di cui abbiamo parlato all'inizio, ha tracciato un identikit di coloro che dichiarano di avere intenzione di votare ma poi non lo fanno. E questo grazie ai dati sulle registrazioni di voto e la storia elettorale acquistati dalla società privata Catalyst. Non sono molti a potersi permettere indagini del genere, che alcuni hanno stimato potrebbero essere costate 130 mila dollari. L'identikit tracciato dal CCES è stato una sorpresa: cittadini con alto grado di istruzione, alto reddito, partecipi della vita pubblica e fedeli praticanti. Sostanzialmente il tipo di persona che è sempre stato considerato più affidabile e con la più alta probabilità di partecipare alle elezioni. Di nuovo: possiamo fidarci di questo risultato?

Conclude Zukin: "Allora qual è la soluzione per i sondaggi elettorali? Non ce n'è una. Il nostro vecchio paradigma non funziona più e non abbiamo ancora capito come modificarlo. Di conseguenza, i sondaggi politici sono diventati meno accurati e non verranno aggiustati in tempo per il 2016". Possiamo dire che a quattro anni di distanza le cose non sembrano essere migliorate.

 

 

 

*Aggiornato alle 19:00 del 7 novembre.

*In una precedente versione di questo articolo si indicava erroneamente che i voti inviati per posta erano 100 milioni. In realtà sono 100 milioni i voti ricevuti prima del giorno delle elezioni, di cui circa 65 milioni inviati per posta e circa 35 milioni di persona. Fonte: The U.S. Elections Project, University of Florida, Michael P. McDonald.

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