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Ci vuole trasparenza sui dati per creare consenso

Adottare dei criteri il più oggettivi possibile per differenziare le misure di contenimento della pandemia ha senso. Tuttavia, tali criteri devono basarsi su dati accessibili, veritieri e aggiornati, altrimenti si rischia di creare confusione e sfiducia nei cittadini.

Immagine: Vector field, Wikipedia.

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Quello che sappiamo, in termini i dati, sulla pandemia di Covid-19 viene dai flussi informativi istituiti con ordinanza 640 della Protezione Civile dello scorso 27 Febbraio. Un flusso di dati quotidiano con i totali dei casi, dei tamponi, dei ricoveri e poco altro, che le Regioni e Province Autonome devono inviare in forma aggregata alla Protezione Civile e che vengono messi subito a disposizione con comunicati e bollettini giornalieri. I dettagli sulla data di insorgenza sintomi, l’età, le caratteristiche personali di ogni singolo caso vengono invece raccolte e comunicate per via elettronica ad un sistema gestito dall’Istituto Superiore di Sanità. Come è prevedibile, i due sistemi sono spesso disallineati con ritardi sistematici nella registrazione dei dati dei singoli casi rispetto ai totali che circolano. Non ci sono altri sistemi automatici di raccolta dati da pronto soccorsi o da farmacie o scuole o da altri punti di osservazione cruciali per monitorare la situazione e validare anche in modo indiretto con mezzi rapidi i dati sulla salute della popolazione.

Le Regioni e le Province autonome che alimentano il flusso di dati ISS possono consultare solo i propri e non hanno contezza della situazione altrove. I dati cumulativi della Protezione Civile sono pubblici e sono quelli su cui chiunque abbia familiarità con i numeri e funzioni matematiche (matematici, fisici e ingegneri, per citarne alcuni) si è concentrato cercando di leggere il fenomeno della pandemia e di prevederne gli sviluppi, solo in virtù delle relazioni matematiche, spesso semplici, tra diverse variabili.  Gli epidemiologi, abituati ai distinguo tra le varie componenti e alle distorsioni di osservazione, sono stati più cauti e spesso si sono trovati a dover commentare, ma raramente a produrre le interpretazioni di altri. In effetti i dati aggregati della Protezione Civile male si prestano a inferenze significative e non rendono conto di una serie di informazioni necessarie per descrivere in modo utile la pandemia. A esempio, è lecito chiedersi quanto sia effettivamente indicativa   della circolazione virale la proporzione di tamponi positivi che ci viene suggerita ogni giorno, dato che dipende dall’intensità locale delle attività di screening e rintraccio di contatti e che certamente ormai annovera tutte le persone che effettuano un test molecolare di conferma dopo avere avuto un test rapido positivo. Vorremmo sapere se il ricorso ai tamponi (e le conseguenti diagnosi) sono diversificate per età, per zona geografica e così via. Insomma, ci sono molti aspetti da sviscerare e certamente non mancano in Italia le competenze, né le menti in grado di farlo. Ma non si può fare, perché la gestione dei dati e rigorosamente controllata e monopolizzata a livello centrale dalla ordinanza 640, che nemmeno a chi alimenta i flussi informativi permette di vedere i dati generali.

In questo contesto è stato deciso di attuare un sistema di monitoraggio della pandemia a livello regionale e di provincia autonoma per valutare le contromisure che il Governo avrebbe dovuto prendere a seconda degli scenari prospettati. Un approccio razionale, assolutamente condivisibile sulla base di principi di oggettività e di algoritmi numerici. Il sistema si basa su 21 indicatori, ossia valori numerici, che le Regioni e Province Autonome calcolano in proprio, in base ai loro dati di sorveglianza, e che ogni settimana inviano alle autorità nazionali. Tutto il sistema di governo della salute in Italia si basa su indicatori riferiti dalle Regioni e Province Autonome. A esempio, i Livelli Essenziali di Assistenza e il Nuovo Sistema di Garanzia si basano su indicatori che vengono dalle Regioni, e su quelli vengono assegnati i fondi per la sanità, mica poco. Ognuno calcola i propri indicatori e li invia al Ministero. I confronti relativi non vengono effettuati e ogni dato viaggia serenamente tra le scrivanie di chi se ne deve occupare. Non esiste un sistema di certificazione o audit della qualità dei dati inviati.

In questo sistema di scatole chiuse e non trasparenti è stato collocato il sistema di monitoraggio della pandemia e l’assegnazione delle Regioni e Province Autonome ai diversi scenari di rischio, in teoria già concordati. Per la prima volta le Regioni e le Province autonome si sono viste l’un l’altro e si sono sentite inserite in una graduatoria di valore che ovviamente non ha trovato d’accordo nemmeno quelli che registrano migliaia di casi al giorno e dichiarano la situazione praticamente fuori controllo. E a questo punto si sospetta sulla qualità dei dati inviati, sulla discrezionalità dei criteri di lettura e utilizzo, e si invoca un intervento uguale per tutti in modo da evitare imbarazzanti classifiche.

Se i dati fossero stati condivisi tra tutti fin dall’inizio - come richiesto dall'Associazione Italiana di Epidemiologia e da molti attori della società civile - ci sarebbe stato un controllo incrociato tra le varie Regioni, in 24 settimane di monitoraggio sarebbero stati identificati e verificati i dati di qualità incerta e forse non si sarebbe creato tutto il clamore che lascia spiazzati i cittadini, a cui, come al solito, viene presentato il conto da pagare in proprio.

 

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