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Pietro Greco: arte e scienza per una democrazia della conoscenza

Pietro Greco ci lascia un manifesto documentatissimo sulla società della conoscenza con uno dei suoi ultimi libri, «Homo. Arte e Scienza». In un unico scritto condensa l’intera storia dell’umanità alla luce del rapporto fra attività artistica e scientifica, dimostrando quanto esse siano molto più connesse di quanto immaginiamo, proprio perché fanno parte della stessa cultura. Quella umana.

Immagine: Kandisky, «Jaune, Rouge, Bleu»

Tempo di lettura: 12 mins

Tra gli ultimi libri che Pietro Greco ci ha lasciato in questo 2020 spicca sicuramente «Homo», con sottotitolo «Arte e scienza», edito da Di Renzo Editore. Probabilmente da considerare un (se no il) manifesto di tutta la sua ricca attività da comunicatore della scienza condensato in un unico scritto – dedicato alla memoria di entrambi i suoi genitori – dove si ripercorre la storia dell’umanità alla luce del rapporto tra arte e scienza, ma anche tra filosofia, comunicazione e politica.

In copertina, rossa, sono disegnate delle figure che ricordano le pitture rupestri, magari quelle in qualche grotta di origine carsica del Paleolitico superiore (come quelle di Altamira o di Lascaux); e, giustapposte, due formule, quella della gravitazione universale di Newton e quella della relatività generale di Einstein. Condensato in copertina il senso dell’intero libro, e cioè parlare, raccontare e dimostrare quanto arte e scienza siano intrinsecamente collegate e parte della stessa cultura, quella umana. Ogni tentativo di divisione di queste «due anime» risulta quindi innaturale, forzato, se non addirittura strumentale.

Restando alla copertina, o meglio al titolo, non è un caso che Pietro Greco abbia scelto «Homo» e non «Homo sapiens»: per quanto ne sappiamo oggi, infatti, l’arte preistorica non è stata solo prerogativa e caratteristica di noi sapiens, ma con ogni probabilità anche dei nostri «cugini» Neanderthal (Homo neanderthalensis), come scritto nei primi capitoli del libro. Pietro Greco spazza via fin da subito l’idea di centralità culturale incardinata sulla nostra specie - potremmo dire «sapiens-centrica» – allargando la visuale sulla base di quello che ci può dire la scienza.

Addirittura, Pietro Greco racconta come un qualche criterio estetico possa essersi sviluppato anche negli altri animali, prendendo a esempio l’esistenza della coda di pavone. Come è possibile che una coda così scomoda e ingombrante possa essere stata selezionata dall’evoluzione? Pare proprio che le femmine di pavone scelgano il maschio in base al «buon gusto», come direbbe Charles Darwin (andando in conflitto con il suo «amico di penna e coautore della teoria dell’evoluzione biologica» Alfred Russel Wallace), anche se questo potrebbe non corrispondere alla selezione dei «geni migliori». Per i non addetti ai lavori, quantomeno intrigante.

Arte e scienza: un’«osmosi» costante

La storia dei rapporti tra scienza e arte – o, in fin dei conti, dei rapporti tra l’umanità e la conoscenza – individua un gran numero di pietre miliari, dai Greci ai Romani, dal Medioevo al Rinascimento, e poi all’Illuminismo, al Romanticismo fino alla modernità. Quello che però differenzia la scienza e l’arte è forse la diversa «organizzazione» delle comunità di tutti gli scienziati e di tutti gli artisti. La seconda probabilmente caratterizzata da una meno visibile omogeneità, che invece si ritrova più facilmente nella comunità scientifica e che il sociologo Merton, come scrive Pietro Greco, individua nell’acronimo «CUDOS». Comunitarismo, universalismo, disinteresse, originalità, scetticismo sistematico.

Dopo aver ricordato l’origine ben più antica dell’arte, Pietro Greco ripercorre i punti salienti dell’origine della scienza che – come sostenuto sapientemente nei suoi volumi de «La Scienza e l’Europa» – nasce ad Alessandria d’Egitto nel IV secolo prima di Cristo; alcuni dei nomi noti sono Euclide, Archimede, fino a Ipazia che chiude il lungo periodo di circa settecento anni in cui la città dei Tolomei è di fatto stata la capitale della scienza ellenistica. Passando dagli Indiani, dai Cinesi e dagli Arabi, la scienza torna poi in Europa per la prima volta tra l’XI e il XIII secolo, con le prime Università e per cui spicca la figura del sovrano illuminato Federico II di Svevia, e, dopo la peste del Trecento che decimò almeno un terzo della popolazione europea, l’Europa riscopre la scienza per la seconda volta nel Seicento con le figure di Galileo e di Newton.

Ed è proprio nel periodo di apparente assenza della scienza in Europa, nel Rinascimento, che si concentrano in una città, Firenze, le migliori menti in circolazione: Brunelleschi, Donatello, Masaccio, ma anche Leonardo, Michelangelo, Raffaello e non potremmo elencarli tutti. In questo periodo, dal Quattrocento, scrive Pietro Greco, «scienza e arte semplicemente si fondono, ancor più che nell’Antica Grecia, consentendo a un numero incredibilmente alto di geni di esprimersi» e creare «nuova conoscenza e nuova estetica». La scienza del periodo è quella che si chiama «scienza visuale» che quindi fonda nell’immagine e nella rappresentazione grafica (pittura, scultura, architettura, …) la sua essenza. Si pensi ai disegni di anatomia umana di Leon Battista Alberti, non possono essere di certo esclusivi né della scienza né dell’arte, ma a entrambe contemporaneamente; oppure all’uso quasi ossessivo della sezione aurea in gran parte delle opere artistiche e scientifiche come – giusto per fare uno tra i molteplici possibili esempi – nel celebre Uomo vitruviano di Leonardo.

Una delle possibili applicazioni della sezione aurea nell’Uomo vitruviano. Fonte: Repubblica.it.

A questo punto Greco si chiede come possa essere possibile che in un determinato periodo e in un determinato spazio geografico vi sia stata tale concentrazione di genio, tanto artistico quanto scientifico, riferendosi in particolare a Leonardo, Michelangelo e Raffaello. La risposta dell’autore è semplice ma non banale: «Probabilmente esiste una diffusa e potenziale genialità – un potenziale creativo enorme – in ogni tempo e in ogni luogo. Ma questo potenziale deve trovare le condizioni adatte per esprimersi». Un’affermazione che vale ancora oggi e che condanna probabilmente molti talenti a non potersi sviluppare adeguatamente. In generale, anche il tema delle disuguaglianze, e dell’importanza di ridurle il più possibile, non è lasciato inesplorato da Pietro Greco, che lo riprenderà nei capitoli finali.

Ma torniamo a noi, facendo un balzo indietro nel tempo fino al VI secolo prima di Cristo circa, con Pitagora. È con lui che probabilmente si tessono le prime relazioni tra scienza e arte, o meglio, precisa Pietro Greco, tra matematica e musica. La musica risulta quindi forse la prima arte ad essere esplorata con gli strumenti del pensiero razionale; Pitagora infatti studia i rapporti numerici che identificano gli intervalli (cioè le distanze) tra le sette note della scala, do, re, mi, fa, sol, la, si (anche se allora non si chiamavano così): la musica risponde a un criterio di armonia universale basata sul numero – al più razionale, fra l’altro.

Sarà proprio la volontà di scardinare questo assioma che animerà l’attività di due musicisti e scienziati del XVII secolo, Vincenzio Galilei e Galileo Galilei, padre e figlio. La loro opera ha riportato dopo un paio di millenni la musica sotto un punto di vista prettamente scientifico, e per la precisione sperimentale (superando, per altro quello che nel Trecento era stato l’approccio visuale, come già specificato). Senza entrare nei dettagli, anche per non fare torto alle altre arti, la questione interessante da porsi è se e come Galileo sia stato o meno influenzato dal padre nella sua successiva attività scientifica. Ecco come risponde Pietro Greco:

delle due l’una: o è il padre, Vincenzio, a fornire a Galileo l’imprinting epistemologico con cui il giovane si affermerà come pioniere della nuova scienza o è il figlio, che ormai ben conosce Archimede e il suo metodo, a fornire al padre l’epistemologia per realizzare una rivoluzione in musica. Per quel che vale, chi scrive propende per la seconda ipotesi. Ma non ci sono prove documentali.

A ulteriore riprova di questa continua osmosi tra i nutrienti della scienza e i nutrienti dell’arte, possiamo ricordare quello che Italo Calvino diceva di Galileo e che Pietro Greco ovviamente sottolinea; dice Calvino, in una lettera sul Corriere della Sera ad Anna Maria Ortese, parlando della Luna: «Il più grande scrittore della letteratura italiana di ogni secolo, Galileo, appena si mette a parlare della luna innalza la sua prosa ad un grado di precisione e di evidenza ed insieme di rarefazione lirica prodigiose». Così, in un inciso, Calvino afferma senza farsi problemi che Galileo è il più grande scrittore (di prosa, preciserà) italiano. Senza entrare nel merito delle parole di Calvino ci limitiamo a confermare che l’«osmosi» tra scienza e arte c’è, ed è costante.

Fiumi carsici e tracimazioni

Pietro Greco si riferisce al rapporto arte e scienza come guidato da filoni conduttori generali, idee esplicative di fondo, come fiumi carsici che senza mai interrompere il loro percorso sotterraneo, di tanto in tanto affiorano. Gerald Holton, storico americano della fisica, chiama queste idee «themata» e, illustrandolo, Pietro Greco indica nell’esistenza dei «themata» la probabile causa degli avvenimenti, fra gli altri, di inizio Novecento. Fra tutti i protagonisti di inizio secolo ci sono Einstein e Picasso. Com’è possibile che entrambi, non si sa se venendo in contatto o meno, abbiamo quasi contemporaneamente rotto ogni certezza del mondo «classico», o concepito come «naturale», l’uno postulando il limite invalicabile della velocità della luce e l’altro superando la prospettiva comunemente intesa? È lo spirito dei tempi, sono i «themata» che, considerate certe «condizioni al contorno», riaffiorano. Le condizioni al contorno in questione possono riguardare, scrive Pietro Greco, «lo sviluppo delle nuove tecnologie [di metà Ottocento] – treni, radiotelegrafo, telefono – richiede un chiaro punto di riferimento temporale». Questo può aver innescato una serie di speculazioni mentali sulla natura della simultaneità che ha fatto concretizzare l’articolo di Einstein (a 26 anni) Zur Elektrodynamik bewegter Körper e Les demoiselles d’Avignon di Picasso (a 25 anni), rispettivamente nel 1905 e nel 1906.

Il Novecento è il secolo che inaugura la presenza del caos e la complessità come parte integrante della scienza quanto dell’arte, si pensi anche al principio di indeterminazione di Heisemberg, alla psicoanalisi di Freud, al fauvismo di Matisse o all’astrattismo di Kandinskij. Per non parlare poi degli stravolgimenti in campo musicale da Schönberg a Berg. E si potrebbe continuare, come Pietro Greco riesce a fare in relativamente poche pagine. Ecco una breve antica filastrocca riportata nel libro, sulla complessità, in particolare su quello che chiameremmo «effetto farfalla»:

Per colpa di un chiodo si è perduto lo zoccolo;

per colpa dello zoccolo si è perduto il cavallo;

per colpa del cavallo si è perduto il cavaliere;

per colpa del cavaliere si è perduta la battaglia;

per colpa della battaglia il re ha perduto il suo regno.

Ma il rapporto arte e scienza non è «solo» un andare «di pari passo», è anche una continua influenza reciproca: la scienza è stata ed è fonte di ispirazione per l’arte, e l’arte è stata ed è fonte di ispirazione per la scienza. Per non parlare poi degli impatti che il progresso tecnologico ha portato alla fotografia e poi al cinema, alla musica elettronica; oppure le indagini delle neuroscienze sul ruolo delle malattie nella mente degli artisti – malattie di ogni genere tra l’altro, quasi a suggerire che «un tocco di follia» sia un valore aggiunto. Pietro Greco pone giustamente anche il problema di come venga percepita l’arte dagli esperti e dai non esperti: secondo quanto ne sappiamo, diversamente, perché il cervello predispone certi canali culturali che vengono «rafforzati» dall’esperienza accumulata. E tanto altro si potrebbe dire su queste tracimazioni culturali, letteralmente di ogni genere.

Giacomo Leopardi è il poeta che maggiormente denuncia le derive del positivismo dei suoi contemporanei, individuando in anticipo il nemico dell’approccio scientifico alla complessità: il riduzionismo. Scrive Greco di Leopardi:

Con il suo riduzionismo, imperante nella prima parte dell’Ottocento, la scienza non coglie e anzi perde la complessità del mondo. Non coglie le circostanze che sono il tessuto dell’infinita varietà della natura. E con ciò uccide la varietà stessa della natura. Quanto alle leggi universali della natura, sono limitate ai pochi fatti che conosciamo. Tutto il resto la scienza lo perde. Le sfugge il bello, anzi lo dissolve.

Scagliandosi contro le tanto cantate «magnifiche sorti e progressive», Leopardi evoca anche un’anima ecologica, in particolare, scrive Pietro Greco:

Come è possibile prendere sul serio l’idea cosmica di ordine armonioso della natura proposta dalla scienza, si chiede in uno dei pensieri dello Zibaldone, se lo sterminio senza fine (e senza fini) di milioni di animali, di milioni di piante, di milioni di semi di animali e di piante la sporca di sangue e la sommerge di dolore ogni giorno, ogni movimento?

E a proposito di ecologia, Pietro Greco parla anche come la scienza dei cambiamenti climatici non sia rimasta chiusa in sé stessa ma, tracimando nell’arte, abbia contribuito a creare un vero e proprio genere letterario, la cli-fi, cioè la climate fiction.

Convivio: la società democratica della conoscenza

Potremmo dire che i primi undici capitoli sono un lunghissimo preambolo culturale che giustificano l’ultimo, il capitolo 12, «Il volo di Mercurio»: un vero e proprio manifesto – politico, perché no – sulla cittadinanza scientifica e sulla società della conoscenza, due perni fondamentali nel programma di comunicazione di Pietro Greco, dalla scienza alla didattica, dall’arte alla politica. 

Tornando alla climate fiction e, in generale, all’ecologia – altro tema caro all’autore di «Homo» – il libro affronta (pure con una lieve ironia) anche gli effetti del processo accelerato di modernizzazione della società, che si impenna proprio a partire da quel secolo particolarissimo di cui abbiamo già parlato, il Novecento.

I nostri figli, nati agi sgoccioli del XX secolo e in questo inizio del XXI, sono vissuti (e vivono tuttora) non solo in case ipertecnologizzate – televisioni con decine di canali, play station, iPod, iPad, iPhone, iQualsiasiCosa e soprattutto computer connessi con la grande rete globale – ma in un universo cognitivo completamente diverso [dalle generazioni precedenti]. Un bambino oggi è naturalmente in condizioni di fare operazioni diverse, forse anche cognitivamente più complesse, rispetto a quelle realizzate dal padre qualche decennio prima e dal padre del padre della generazione precedente. Nulla, dunque, più della scienza e dell’applicazione tecnologica della conoscenza scientifica, ha modificato il modo in cui le nuove generazioni si fanno un’idea del mondo.

Questo processo – che ha portato tanta ricchezza ma anche tanto degrado ecologico e sociale – legittima la sempre maggiore necessità di comunicazione della scienza. E basandosi su quanto argomentato nel resto del libro, Pietro Greco arriva a dire che «i comunicatori di scienza devono sentirsi artisti. E comportarsi come tali». Come abbiamo visto, Galileo ne è stato una prova. Ma Dante di più.

Già, Dante Alighieri, che, segnatamente con il suo Convivio, mette gli estremi per una società della conoscenza, in pieno Medioevo. Se con il precedente De vulgari eloquentia Dante descrive il volgare quale nuova lingua da utilizzare, con il Convivio passa ai contenuti e il Convivio stesso è scritto in volgare, risultando comprensibile, quindi, a tutti.

Lasciamo la parola a Pietro Greco:

Il Convivio è, infatti, il racconto di un banchetto. Festoso, come tutti i banchetti. Ma particolare. Perché al banchetto del Convivio non viene servito un cibo qualsiasi, ma il «pane degli angeli». Il pane cui tutti gli uomini – naturalmente, sottolinea Dante – aspirano: la conoscenza. Nel Convivio, il fiorentino parla di filosofia e di filosofia naturale, in maniera appunto conviviale. Ma non si sente un filosofo. Si sente un mediatore. Un poeta cui è concesso di accomodarsi ai piedi di coloro che, invece, siedono «a la beata mensa», i veri filosofi, e di cibarsi delle briciole che cadono dal tavolo della conoscenza. E a cui è concesso soprattutto di dispensarle, quelle briciole.

Nel Trecento Dante aveva già definito tanto la società democratica della conoscenza, quanto la comunicazione della scienza. Pietro Greco, con «Homo», ha «introdotto» il manifesto di Dante quanto il suo; per parlare di quanto arte e scienza siano unite e per dimostrare che non poteva che essere altrimenti – vivendo l’umanità sullo stesso pianeta e avendo ognuno di noi un cervello «sostanzialmente simile a quello di tutti gli altri».

Abbiamo capito che la scienza e l’arte sono parte della stessa cultura, e allora concludiamo con una citazione dall’ultimo capitolo del libro di Pietro Greco, che è allo stesso tempo tanto razionale quanto colma di pathos:

«Conoscere è un bisogno naturale dell’uomo. Come il cibo. Come l’amore.»

 


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