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Psichedelia dei quanti. Rovelli archeologo del sapere

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La vita è un’invenzione? Anche la realtà

La vita è un’invenzione piuttosto recente. Lo faceva notare Michel Foucault in un passaggio assai celebre de "Le parole e le cose. Un'archeologia delle scienze umane". Era il 1966, poco più di un secolo dalla pubblicazione dell’“Origine delle specie”, il testo in cui Darwin si prese la briga di spiegare al mondo che le specie, vale a dire quello che allora tutti consideravano entità permanenti, sono solo forme transitorie di una forza che tutte le attraversa e incessantemente le modifica: la vita. Per quanto possa suonare strano, fino alla metà dell’800 esistevano gli esseri viventi ma non esisteva la vita e la biologia, così come oggi la concepiamo, non aveva ragion d’essere per pura mancanza d’oggetto. La parola stessa “biologia” fu coniata da Lamarck e Treviranus (ciascuno per conto proprio) solo nel 1802. Fino a Darwin, gli studiosi dei viventi erano naturalisti e non avrebbero mai nemmeno sospettato di potersi definire biologi. 

Dopo aver letto “Helgoland” di Carlo Rovelli, di recente uscito pe Adelphi, si ha la sensazione che qualcosa del genere stia ora accadendo anche alla fisica. Come accadeva nell’800 ai concretissimi organismi viventi studiati dai naturalisti, oggi i solidi oggetti fisici che compongono il mondo sembrano svanire per diventare solo l’effetto secondario di una forza che tutti li attraversa e incessantemente li trasforma. I fisici continueranno pure a chiamarsi tali, ma la realtà sta di nuovo cambiando pelle. 

Gli oggetti diventano eventi (e la realtà svanisce)

In nome della teoria dei quanti, la “più efficace e potente teoria scientifica che l’umanità abbia mai prodotto”, Rovelli ci spiega che le cose così come ci appaiono non esistono, non esistono oggetti indipendenti e proprietà definite perché ogni cosa esiste solo in relazione a un’altra e le proprietà di ogni cosa ci appaiono solo nel momento in cui essa influenza o è influenzata da un’altra. Siamo di fronte a un mondo in cui al posto delle cose c’è l’interazione tra le cose, può sembrare poco ma cambia tutto. La materia descritta da massa e movimento è frutto di una “metafisica errata”, avverte Rovelli, il mondo va pensato in termini di processi, eventi e proprietà ineluttabilmente relative. “Ogni oggetto non è che un insieme di interazioni su altri oggetti. La realtà è questa rete di interazioni. Invece di vedere il mondo fisico come un insieme di oggetti con proprietà definite, la teoria dei quanti ci invita a vedere il mondo fisico come una rete di relazioni di cui gli oggetti sono i nodi”. 

Dopo decenni di ininterrotti successi sperimentali e dalle ricadute tecnologiche grandiose (i laser, i microscopi elettronici, la risonanza magnetica e gran parte delle tecnologie informatiche sono applicazioni della meccanica quantistica), la teoria dei quanti compie un’operazione dall’impatto molto simile a quello che la teoria dell’evoluzione per selezione naturale ebbe nei confronti della scienza del suo tempo, ridefinisce la cornice attraverso cui diventa possibile concettualizzare la realtà e lo fa in un modo tale da indurci a sospettare che della realtà non rimanga in fondo più un granché. Che ne è dell’ontologia delle specie agli occhi di un evoluzionista? Niente, e infatti Foucault nella sua archeologia delle scienze umane sottolinea che “Il naturalista è l’uomo del visibile strutturato e della denominazione caratteristica. Non della vita”, laddove per “visibile strutturato” si devono intendere proprio le forme organiche, gli animali e le loro specie così ben definite. Un simile stravolgimento è quello che la teoria dei quanti sollecita oggi nel cuore della fisica. 

Secondo Rovelli è arrivato il momento di estendere all’intera realtà quello che i pionieri dei quanti attribuivano ai soli sistemi microscopici isolati in laboratorio. È tempo cioè di riconoscere a tutte le cose quello che Erwin Shrodinger ebbe modo di concludere sullo stranissimo comportamento di una particella subatomica, e cioè che “è meglio non considerarla come un’entità permanente bensì come un evento istantaneo. A volte questi eventi formano catene che suscitano l’illusione di esseri permanenti, ma solo in particolare circostanze e solo per un periodo di tempo estremamente breve in ciascun caso singolo”. Quel che ci sembra permanente, le cose e le loro proprietà, sono un’illusione. L’autore di “Sette brevi lezioni di fisica” e “L’ordine del tempo” scrive a un certo punto che prendere sul serio la meccanica quantistica è un’esperienza “quasi psichedelica”. Avrebbe anche potuto fare a meno del “quasi”. 

L’occhio è tiranno

La fisica è una storia di paradossi e a pensarci bene non potrebbe essere altrimenti. La scienza fa passi in avanti solo se riesce a trasformare l’ovvio in problema e i paradossi sono strumenti eccezionali per mettere a nudo convinzioni altrimenti invisibili. Quando per esempio Einstein mette in discussione il carattere assoluto del tempo parte da una domanda folle, si chiede cosa vedrebbe un osservatore che si trovasse a guardare un raggio di luce stando al galoppo di un altro raggio di luce. In quella situazione la luce dovrebbe apparirgli ferma, con campi elettrici e magnetici “congelati”. Un’assurdità, è vero, ma un’assurdità assai feconda perché, come ricorda Einstein nella sua autobiografia, in quel paradosso c’era già il germe della teoria della relatività ristretta. Non sarebbe stato infatti possibile rispondere a quella folle domanda “finché l'assioma sul carattere assoluto del tempo, cioè della simultaneità, fosse rimasto ancorato nell'inconscio senza che noi ce ne accorgessimo”. 

Padre di alcuni tra i pensieri più estremi della storia della scienza, Einstein finisce tuttavia col tentennare su uno maturato nel campo della meccanica quantistica e per di più originato dalle sue stesse riflessioni sulla natura della luce. È infatti l’allora impiegato nell’Ufficio Brevetti di Berna nel mirabile 1905 a sostenere per primo la natura al tempo stesso ondulatoria e corpuscolare della luce, ma a distanza di tempo comincia a valutarne alcune preoccupanti conseguenze. Se è vero che la luce si comporta come un’onda, come fa l’energia distribuita su tutta la superfice dell’onda a manifestarsi in un solo istante nell’esatto punto di incontro rappresentato dal mio occhio o da un qualsiasi altro strumento di osservazione? Quando la osservo, la luce diventa una particella, quando non la osservo si comporta come un’onda. Assurdo. 

Il carattere soggettivo della fisica: Einstein vs Bohr 

A livello microscopico la natura sembra comportarsi come se per modificare la realtà fosse sufficiente il solo fatto di osservarla. Einstein non ci sta, anche per il killer della fisica classica e dell’ordine newtoniano sembra insinuarsi nella descrizione quantistica della realtà qualcosa di insopportabilmente disordinato, forse inelegante, senz’altro qualcosa di “inquietante”. Non solo le particelle vanno considerate come tanti eventi istantanei e non più come entità permanenti, ma lo stesso stato delle particelle finisce col dipendere da quello dell’osservatore. Nello studio della realtà fa qui il suo ingresso il carattere soggettivo dei fenomeni fisici, e proprio su questo aspetto al confine tra ontologia ed epistemologia, tra realtà e sue condizioni di conoscibilità, verrà imbastito da Einstein un annoso duello con Niels Bohr, padre spirituale delle temerarie tesi dei “giovani turchi”, come li chiama Rovelli, i ragazzi che a partire dagli anni ’20 avrebbero trasformato per sempre il modo di concepire la materia: Wolfang Pauli, Erwin Schrödinger, Max Born, Pascual Jordan e, naturalmente, Werner Heisenberg, l’autore dell’articolo da cui tutto ebbe inizio, scritto sull’isola tedesca di Helgoland a ventitrè anni in un giorno di giugno del 1925.  
Per il teorico della relatività “la fisica è un tentativo di afferrare concettualmente la realtà, quale la si concepisce indipendentemente dal fatto di essere osservata”. Per Bohr non è così, così non può essere, “per quanto prudente – scrive Bohr ad Einstein – la sua formulazione contiene un’ambiguità essenziale quando viene applicata ai problemi concreti”. Nel mondo microscopico emerge un inaggirabile elemento di individualità per cui ogni osservazione implica una relazione strutturale con l’osservatore. L’impossibilità di misurare contemporaneamente la velocità e la posizione di un fotone, secondo Bohr, non dipende, come sosterrà Einstein, dall’incompletezza della teoria dei quanti ma dalla natura stessa dei fenomeni quantistici. “Mentre nell’ambito della fisica classica le interazioni tra un oggetto e l’apparato di misura possono essere trascurate, nella fisica quantistica questa interazione è una parte inseparabile del fenomeno” afferma Bohr. La nuova fisica apre una finestra su un mondo un cui la solidità degli oggetti si incrina insieme all’assolutezza delle loro proprietà. 

La relazionalità del mondo 

Come ha fatto per l’osservazione di Schrödinger, secondo cui “una particella non va più considerata come un’entità permanente ma come un evento istantaneo”, Carlo Rovelli estende l’intuizione di Bohr dal mondo microscopico all’intera realtà. “Non ci sono fenomeni quantistici in laboratorio e fenomeni non quantistici altrove. Tutti i fenomeni sono in ultima analisi quantistici”, dice, e se questo è vero la tesi di Bohr va intesa così: “Mentre prima pensavamo che le proprietà di ogni oggetto fossero determinate anche se trascuriamo le interazioni in corso tra questo oggetto e gli altri, la fisica quantistica ci mostra che l’interazione è parte inseparabile dei fenomeni. La descrizione non ambigua di qualunque fenomeno richiede di includere tutti gli oggetti coinvolti nell’interazione in cui il fenomeno si manifesta”. Qui Rovelli va al cuore della cosiddetta interpretazione relazionale della fisica quantistica, introdotta per la prima volta in un suo articolo nella seconda metà degli anni ’90 e oggi senz’altro tra le più discusse nella comunità mondiale dei fisici (e non solo). Tra le conseguenze più radicali della meccanica quantistica relazionale c’è il venir meno di ogni possibile idea di realtà esterna “indipendente dal fatto di essere osservata”, ma è forte il sospetto che a venir meno sia la realtà esterna tout court così come oggi la concepiamo. 

L'entanglement è una danza a tre

Nonostante le oggettive complessità del caso, il ragionamento di Rovelli è a suo modo semplice: se la proprietà di ogni oggetto non è altro che la sua interazione con un altro oggetto, e se la misura di ogni oggetto non può considerarsi indipendente da un osservatore, perché non cominciare a considerare ogni oggetto come un possibile osservatore? Anche in questo caso si tratta di estendere al mondo macroscopico quello che si afferma per quello microscopico. Una particella va considerata come un evento istantaneo e non più come un’entità permanente? Bene, questo diventa vero per ogni oggetto. Non ci sono eventi quantistici definibili a prescindere dall’osservatore? Bene, questo diventa vero per tutti gli eventi, non solo quando ci riferisce al fatto che un fenomeno si manifesta a noi, quindi a speciali entità che osservano, ma a qualunque altro oggetto fisico. “La meccanica quantistica – scrive Rovelli – descrive la grammatica universale della realtà fisica, che soggiace non solo alle osservazioni di laboratorio ma a ogni interazione”. Le proprietà fisiche, il calore, la posizione, il colore, il movimento, tutte le proprietà che percepiamo quando abbiamo esperienza del mondo non sono cose che appartengono agli oggetti, e nemmeno può dirsi che siano negli oggetti, sono piuttosto “ponti tra oggetti” che appaiono nel momento della loro interazione. 

In questa prospettiva assume un nuovo significato anche il concetto di entanglement, tra le stranezze introdotte dalla teoria dei quanti forse quella più “magica”, l’idea cioè che due oggetti possano essere in uno stato di intreccio (entangled) così stretto da tenerli uniti anche a distanza di migliaia di chilometri e in modo che se una forza modifica lo stato dell’uno allora modificherà istantaneamente anche lo stato dell’altro. Verificato ampiamente in laboratorio, questo fenomeno mette in crisi il principio di località e il concetto stesso di spazio, perché se una forza può agire istantaneamente su due oggetti “correlati” separati da migliaia di chilometri, allora vuol dire che o la distanza tra i due oggetti è solo apparente (non esiste una forza che può superare la velocità della luce) o, peggio ancora, che si tratta dello stesso oggetto situato in due luoghi distinti. Rovelli invita a uscire dall’impasse ampliando il punto di vista a un terzo attore, vale a dire all’osservatore dei due oggetti correlati. Sostenere che due oggetti sono intrecciati al punto tale che, per fare un esempio, nel momento in cui osserviamo il colore del primo sappiamo che anche l’altro assumerà istantaneamente quello stesso colore, significa infatti dire qualcosa non solo rispetto a questi due oggetti ma anche rispetto a un terzo oggetto che interagisca con entrambi. La correlazione tra due oggetti è una proprietà dei due oggetti (il colore che unisce due oggetti) e, come tutte le proprietà, esiste solo in relazione a un ulteriore terzo oggetto che entri in relazione con essi. “L’entanglement – osserva con tono poetico Rovelli – non è una danza a due. È una danza a tre”. 

Un ponte tra mente e materia 

Se consideriamo la correlazione come la proprietà che unisce due oggetti rispetto a un terzo, e cioè l’osservatore, allora il fenomeno stesso dell’entanglement smette di essere una rarità per diventare qualunque ordinaria interazione tra cose rispetto a una prospettiva esterna.  “Tutta l’informazione che si può avere sullo stato del mondo, considerata dall’esterno, è in queste correlazioni. E siccome tutte le proprietà sono proprietà relative, tutte le cose del mondo non esistono che in questa rete di entanglement”. Se con un termometro misuro la temperatura di una torta, la temperatura esprime la correlazione tra il termometro e la torta e in questo senso si può dire che il termometro ha informazione sulla torta. L’informazione sul mondo, suggerisce Rovelli, nasce dall’entanglement tra le cose. 

Oltre a essere ambigua, però, la nozione di informazione è oggi anche molto inflazionata, per fortuna la cosa non sfugge a Rovelli, che al concetto di informazione dedica pagine assai dense di Helgoland. “Si può pensare la teoria dei quanti come una teoria sull’informazione che i sistemi hanno l’uno sull’altro”. Da qui il fisico muove un’ulteriore sfida, fa proprio il concetto di “informazione relativa” presente nella teoria dell’informazione di Claude Shannon e lo reinterpreta alla luce della biologia darwiniana, ne viene fuori una ipotesi sull’origine pienamente fisica della nozione “umana troppo umana” di significato, cioè di qualcosa che siamo abituati a considerare come proprietà esclusiva della coscienza e dell’universo mentale e di cui invece è possibile rinvenire traccia anche nel mondo puramente fisico e materiale. 

Un organismo vivente molto elementare come un batterio, spiega Rovelli, dispone lungo la sua parete di un meccanismo biochimico che gli permette di rilevare gradienti di glucosio essenziali per il suo nutrimento. Questo meccanismo esprime una correlazione, ovvero un’informazione relativa di un oggetto, il batterio, rispetto a un altro oggetto, il glucosio. Non solo, la correlazione è anche “rilevante” perché se si interrompe diminuiscono le probabilità di sopravvivenza del batterio. L’informazione sulla presenza di zucchero ha dunque significato per il batterio. Facendo sintesi tra Shannon e Darwin, tra informazione e significato, Rovelli traccia qui le base per la costruzione di un ponte non solo tra oggetti ma tra ontologie considerate distinte dal pensiero filosofico, scientifico e soprattutto dal pensiero comune: biologia e cultura. Il significato è ciò che correla qualcosa a qualcos’altro e si mostra sia come un vincolo fisico (la temperatura) sia come una caratteristica biologica rilevante per l’evoluzione (il meccanismo biochimico “cattura zuccheri" del batterio). “C’è continuità tra il mondo di significati della nostra vita mentale e il mondo fisico. L’uno e l’altro sono relazioni”. È dunque tempo di cominciare a ripensare il rapporto tra “io” e “materia”, continua Rovelli, e a sancirne l’urgenza è proprio la nuova nozione di materia descritta dalla meccanica quantistica, non più massa e movimento ma relazioni. “Se pensiamo in termini di processi, eventi, in termini di proprietà relative, di un mondo di relazioni, lo iato tra fenomeni fisici e fenomeni mentali è molto meno drammatico. Possiamo vederli entrambi come fenomeni naturali generati da complesse strutture di interazioni”.

L’isola sacra, dove tutto ebbe inizio 

Controintuitiva dalla nascita, la scienza moderna ci ha abituati a notevoli sforzi di immaginazione. Diciamocelo, l’eliocentrismo è un pugno allo stomaco dell’evidenza e anche il fatto che tutte, ma proprio tutte le forme di vita abbiano un progenitore comune è ancora terreno di considerevole irritazione. Non più continua ma granulare, non più popolata di oggetti ma di eventi, indeterminata, non più assoluta ma sottoposta al giogo di un ubiquo osservatore, la realtà descritta dai quanti richiede in questo senso uno sforzo notevole. Ci chiede di guardare dietro le cose sapendo di trovare non più di gusci vuoti, ci chiede di far saltare in aria il mondo. 

L'isola di Helgoland in una cartolina del 1930.

La detonazione ha un luogo e una data: isola di Helgoland (che in tedesco significa “Isola Sacra”), giugno del 1925. Lì Werner Heisenberg si era rifugiato per risolvere il fitto mistero che ruotava intorno al cosiddetto modello atomico elaborato da Niels Bohr una decina d’anni prima. Il maestro di Copenaghen aveva elaborato formule in grado di prevedere le proprietà degli elementi chimici prima ancora di misurarle, un risultato straordinario, solo che queste formule assumevano cose apparentemente assurde, per esempio che gli elettroni saltassero letteralmente come pulci da un’orbita all’altra. I calcoli funzionavano ma a prezzo di non capire come e perché. In cerca di una soluzione, Bohr chiama nell’autunno del 1924 a Copenaghen un giovanissimo studioso segnalato da Wolfang Pauli, un certo Heisenberg. Ne seguì un inverno di studi, discussioni, ripensamenti e soprattutto insuccessi. Il giugno successivo quel ragazzo pieno di talento e frustrazione decide di ritirarsi a Helgoland sia per resettare e ripartire con nuovi calcoli, sia per tenere a bada la sua allergia (Helgoland non ha praticamente alberi). In quelle giornate di solitudine sopraggiunge il pensiero radicale, Rovelli lo riassume così: “Non troviamo nuove leggi del moto che giustifichino le orbite e i salti di Bohr? Bene, teniamo le leggi del moto e cambiamo il modo di pensare l’elettrone. Rinunciamo all’idea che l’elettrone sia un oggetto che si muove lungo una traiettoria. Rinunciamo a descrivere il moto dell’elettrone, descriviamo solo ciò che osserviamo dall’esterno: intensità e frequenza della luce emessa dall’elettrone. Basiamo tutto solo su quantità che siano osservabili. Questa è l’idea”. 

Heisenberg cambia il linguaggio con cui i fisici avevano fino ad allora descritto il mondo e comincia a usare altre parole per esprimere l’osservabile. Al posto delle variabili comincia a utilizzare tabelle di valori, le colonne per la posizione di partenza e le righe per quelle di arrivo, per cui invece di avere una sola posizione x per la posizione di un elettrone avremo una tabella X di possibili posizioni, una per ogni possibile salto. E lo stesso fa per la velocità, l’energia, la frequenza dell’orbita e così via. Heisenberg sostituisce la calcolabilità di variabili esatte con la predizione di possibilità, in luogo della certezza fa il suo ingresso nella realtà delle cose la possibilità. La matematica quantistica nata dalle matrici di Heinsenberg predice la probabilità di osservare un elettrone in un punto e non in un altro, predice la probabilità che qualcosa avvenga, fornisce indicazioni probabilistiche dei fenomeni fisici, eppure si tratta di uno schema di calcolo che non ha mai sbagliato, della “sola teoria fondamentale – ricorda Rovelli – che finora non ha mai sbagliato e di cui non conosciamo i limiti”. 

L’audacia contro la savana del buonsenso 

Quando Heisenberg capisce che i suoi stranissimi calcoli danno perfettamente conto dei valori del modello atomico di Bohr rimane senza parole. “Ero profondamente allarmato. Avevo la sensazione che attraverso la superficie dei fenomeni stavo guardando verso un interno di strana bellezza; mi sentivo stordito al pensiero che ora dovevo investigare questa nuova ricchezza di struttura matematica che la Natura così generosamente dispiegava davanti a me”. Nel suo diario Heisenberg appunta e ci partecipa l’eccitazione della scoperta, la palpitazione di un uomo che vede un nuovo mondo apparire dietro il velo su cui gli uomini fino a quel momento avevano posato lo sguardo e, nonostante tutto, continuano (continuiamo) a posarlo tuttora. Ha ragione Ian McEwan quando in una sua conferenza del 2009, ora raccolta nel bel volumetto, da poco uscito per Einaudi, "Invito alla meraviglia". Per un incontro ravvicinato della scienza, osserva che sì, “Ci siamo evoluti ma siamo ancora gli abitanti della Terra di Mezzo. Si potrebbe dire che abitiamo ancora un universo newtoniano, o meglio un universo che sarebbe familiare anche a Gesù e Platone”. Einstein, Bohr, Schrödinger, Heisenberg potranno anche aver ridefinito la concezione di materia, energia, spazio e tempo. Fatto sta che noi continuiamo a vivere entro i confini della “savana del buonsenso”. Eppure un nuovo mondo è apparso agli occhi di quel ventitreenne in quel giugno del 1925, un mondo che ha piano piano dissolto quel che consideravamo permanente e che è alla base di tutte le principali tecnologie che quotidianamente utilizziamo. Un mondo di cui, come dice Rovelli, non conosciamo ancora i limiti. 

 


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