Gianni Battimelli, professore di fisica a La Sapienza, recensisce "Quanti", di Pietro Greco: il libro che al momento è molto probabilmente l’unica esposizione pensata per un pubblico generalista della storia della meccanica quantistica. Nell'immagine una rappresentazione della parte radiale della funzione d'onda di un elettrone nel livello 2s di un atomo di idrogeno. Le zone chiare più chiare sono quelle dove è più probabile trovare l'elettrone. Credit: PoorLeno / Wikipedia.
Bruno Touschek diceva che, in confronto allo sviluppo abbastanza lineare che ha condotto dall’elettromagnetismo alla teoria della relatività, il processo attraverso cui ha preso forma la meccanica quantistica assomiglia “a una corda attorcigliata piena di nodi”. Districare la matassa per estrarne una narrazione consistente è dunque un’operazione non banale. A maggior ragione se si intende proseguire lungo le sue diramazioni oltre il punto in cui la teoria assume una sua identità, per inseguire i fili del dibattito che si è in seguito acceso a proposito delle interpretazioni e dei fondamenti della meccanica quantistica fino ai giorni nostri. Tradurre il tutto in una narrazione che riesca a coniugare correttezza scientifica e accuratezza storiografica con l’utilizzo di un linguaggio accessibile ad un pubblico vasto e privo di competenze specifiche costituisce una sfida intellettuale dagli esiti non scontati. In “Quanti” Pietro Greco ha raccolto la sfida. E ha prodotto quella che al momento attuale è molto probabilmente l’unica esposizione pensata per un pubblico generalista della storia della meccanica quantistica che copre tutto il periodo che va dagli anni della sua gestazione fino al dibattito dei giorni nostri.
Il libro dedica ampio spazio alla esposizione degli sviluppi di quella che viene indicata come “vecchia teoria dei quanti”, coprendo il periodo che va dalle prime ricerche sulla radiazione di corpo nero alla fine dell’Ottocento fino al modello atomico di Bohr e alla individuazione da parte di Sommerfeld del significato profondo della costante di Planck come quanto universale di azione. La parte centrale e più corposa del testo è dedicata quindi alla narrazione dell’intricata sequenza di nuove evidenze sperimentali e proposte teoriche attraverso cui prese forma, nella seconda metà degli anni Venti, la meccanica quantistica propriamente detta, nelle due formulazioni della meccanica ondulatoria di Schrödinger e della meccanica delle matrici di Heisenberg, che all’inizio sembrarono incompatibili ma si rivelarono essere due facce complementari della stessa descrizione del mondo microscopico. Il processo attraverso cui si stabilì l’equivalenza dei due approcci e si giustificò la loro apparente incompatibilità sul piano formale, linguistico e concettuale portò al consolidamento di quella che divenne nota come l’interpretazione ortodossa (o “interpretazione di Copenhagen”) della meccanica quantistica. E alle prime emergenze del vivace dibattito che da quel momento oppose una minoranza di “eretici” ai sostenitori dell’interpretazione dominante circa la completezza della teoria e alla sua portata in merito a questioni quali il realismo e il principio di causalità.
E’ una discussione che per lungo tempo ha coinvolto solo marginalmente la comunità dei fisici. Fondamentalmente perché, questioni epistemologiche a parte, la teoria funzionava, e funzionava in modo estremamente efficace. E, come viene esposto in un capitolo dedicato agli eventi del decennio successivo, in cui si cominciò ad aggredire il problema della costituzione del nucleo atomico, si consolidò come lo strumento formale attraverso cui si riuscì non solo a dare conto delle proprietà della materia al livello atomico e molecolare, ma anche a strutturare i primi modelli teorici consistenti per la fisica nucleare.
Giunti a questo punto, la prosecuzione della narrazione potrebbe svolgersi inseguendo da un lato i successi ottenuti dalla meccanica quantistica nelle sue svariate applicazioni alla descrizione, e quindi al controllo, della struttura della materia, e dall’altro, parallelamente, la sua evoluzione in quella che veniva all’epoca chiamata “seconda quantizzazione” (i primi sviluppi dell’elettrodinamica quantistica), che di fatto costituisce il preludio alla estensione della meccanica quantistica in una teoria quantistica dei campi. Pietro Greco però non segue questo percorso per continuare sul cammino dell’evoluzione della meccanica quantistica, e sceglie piuttosto di ricostruire l’itinerario lungo cui evolve il dibattito sui fondamenti, e sulle questioni di principio sollevate dall’interpretazione della teoria. Un dibattito che resta inizialmente confinato alle discussioni tra Bohr e Einstein, e che riprende vivacità una ventina d’anni più tardi, con la formulazione della teoria a variabili nascoste di Bohm, cui fanno seguito i contributi di Bell e Aspect e la costituzione degli studi sui fondamenti della meccanica quantistica come uno specifico settore di ricerca che comincia ad attirare un numero crescente di studiosi. E si arriva così alla fioritura di risultati recenti, tanto teorici quanto sperimentali, sulla non-località e l’entanglement quantistico, che hanno riaperto la discussione su tutto lo spettro di problemi, a cavallo tra fisica e filosofia, che va dal significato della misura e del collasso della funzione d’onda fino alla questione dello status del principio di causalità.
È una problematica a proposito della quale c’è stata in tempi recenti una abbondante produzione letteraria, con contributi anche di ottimo livello, amplificata dalla risonanza dovuta alla proliferazione incontrollata di siti web dedicati alla esposizione dei “misteri” della meccanica quantistica (in questo caso, generalmente con risultati assai meno pregevoli). L’entanglement va di moda. Il pregio di “Quanti” è quello di collocare questo dibattito nella giusta prospettiva storica, legando le questioni aperte al presente al processo attraverso cui se ne sono chiarite le radici nel corso di un secolo di ricerche e dibattiti, in cui si sono variamente intrecciati sviluppi tecnici e pregiudizi filosofici. E non è difficile rintracciare nel libro un possibile filo conduttore, attraverso i nodi e gli ingarbugliamenti di questa storia, nella evoluzione del punto di vista di Einstein, un protagonista cui va chiaramente la simpatia dell’autore per quanto riguarda la posizione rispetto al problema del realismo e della causalità.
La ricca bibliografia testimonia della varietà e della autorevolezza delle fonti alle quali l’autore ha attinto nella costruzione del racconto, Perché, alla fine, di un racconto si tratta; questo libro non è né un manuale di meccanica quantistica né un saggio accademico di storia della scienza, e si rivolge a un pubblico molto più vasto di quello degli addetti ai lavori. Parlare efficacemente di scienza e di storia a questo pubblico richiede di ottimizzare il livello a cui si realizza la non facile mediazione tra accessibilità degli argomenti e rigore scientifico, tra fedeltà alla disciplina e adattamento linguistico. È appena il caso di ricordare che, ben prima di cimentarsi con un testo così ambizioso, Pietro Greco ha a lungo scritto di scienza per il grande pubblico, e ha per lungo tempo insegnato a scriverne a una intera generazione di comunicatori della scienza. Non stupisce che la scrittura del testo viaggi su binari scorrevoli, garantendo una lettura che porta il lettore ad aggirare le difficoltà tecniche facendo comunque risaltare il senso complessivo degli argomenti discussi. Le difficoltà tecniche, tuttavia, rimangono; e la storia (e quella della meccanica quantistica in modo particolare) è una faccenda complicata che mal si presta ad essere riassunta in una narrazione semplificata. Talvolta l’esigenza di rendere comprensibili questioni tecniche sofisticate, o di utilizzare un linguaggio accessibile, porta a semplificazioni che risultano discutibili ad un fisico di mestiere; e in altre occasioni, a proposito di alcune tappe della vicenda storica, l’autore mostra di avvalorare versioni ormai radicate nell’immaginazione popolare che da tempo non reggono all’evidenza fornita dalla ricerca storiografica (la più eclatante è forse quella secondo cui l’esperimento di Michelson avrebbe “dimostrato che l’etere non esiste”).
Va detto però che il cercare, da parte degli esperti, il pelo nell’uovo nei lavori dei non esperti che si impegnano a comunicare al mondo il senso di ciò che gli esperti fanno è un esercizio tanto facile quanto ingeneroso; specialmente se si considera il fatto che spesso, quando sono gli esperti a raccontarsi, difficilmente riescono a farsi capire, per eccesso di autoreferenzialità o per carenza di empatia comunicativa. Nella ricerca del difficile compromesso richiesto alla divulgazione tra l’aderenza alle regole del gioco della pratica scientifica e la spiegazione di quelle regole a chi è fuori del gioco, “Quanti” riesce a realizzare una bella mediazione.