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Una pandemia di plastica

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Mascherine, guanti, imballaggi e dispositivi monouso: così il Covid-19 riporta alla ribalta una ben nota questione ambientale. E le cose potrebbero persino peggiorare.

Crediti immagine: Brian Yurasits/Unsplash

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“Protection vs pollution” è il titolo di una delle immagini scientifiche più belle del 2020, secondo il team artistico della rivista Nature. La foto è stata scattata dal fotografo Mohd Rasfan in Malesia e ritrae due scimmiette che tengono tra le mani una mascherina chirurgica. I dispositivi di protezione sono diventati parte integrante delle nostre abitudini durante la pandemia di Covid-19 ma, allo stesso tempo, hanno riacceso la sfida con un nemico con cui da poco avevamo iniziato le trattative: la plastica.

La vita moderna sarebbe impensabile senza plastica. L’emergenza sanitaria ha confermato una delle ragioni del suo successo: l’utilità nella tutela della nostra salute e della nostra sicurezza, oggi più ancora che in passato. Del resto, secondo un articolo del New York Times del 23 marzo, già allora in Cina venivano prodotti 116 milioni di mascherine al giorno. Quello delle mascherine rappresenta solo la punta dell’iceberg di un problema ben più grande, il ritorno della plastica monouso: guanti, salviette detergenti, protezioni per i piedi, cuffie, rivestimenti per sedie, kit di abbigliamento per medici e operatori sanitari. Se da un lato siamo di fronte a un’inedita attenzione per l’igiene, Covid-19 porta con sé una serie di effetti collaterali legati all’ambiente. La pandemia, e soprattutto la quarantena, hanno stimolato l’aumento degli acquisti online e con esso gli imballaggi plastici dei prodotti. Le richieste di servizi di consegna di cibo, per esempio, sono aumentate in media del 56%, a seconda dell'azienda: l’assenza di imballaggi protettivi avrebbe potuto diminuire la fiducia delle persone nella sicurezza del proprio pasto.

Ciò che si è dimostrato vantaggioso, e necessario, per la salvaguardia della nostra salute – non solo fisica – ha avuto però un caro prezzo. E a pagarlo è stato l’ambiente. L’estate scorsa, sulla rivista Science of the Total Environment, sono stati pubblicati due studi che hanno fornito una panoramica delle politiche in atto contro l’inquinamento causato dalla plastica e dei loro riaggiustamenti durante l’emergenza sanitaria. La sconfitta maggiore, si evince, è che le misure preventive hanno messo un freno ai recenti progressi fatti in materia di sostenibilità e gestione dei rifiuti. Per paura di diffondere il virus, in molti casi, si è fatto insomma un passo indietro: alcuni Paesi hanno ritirato i divieti di utilizzo della plastica monouso e ristretto l’uso di articoli riutilizzabili. Solo nel 2018, infatti, l’Unione europea aveva messo al bando i dieci prodotti di plastica monouso più diffusi entro il 2021. L’anno successivo il Canada aveva lanciato un’iniziativa simile nel tentativo di ridurre i rifiuti oceanici. Sempre nel 2019 il Ministro dell’Ambiente del Perù aveva vietato l’accesso alle 76 aree naturali e culturali protette ai visitatori in possesso di oggetti in plastica monouso.

La pandemia, invece, ha ostacolato l’ambizione globale di ridurre la plastica. Alcuni Paesi, tra cui il Regno Unito, hanno sospeso l’addebito obbligatorio per i sacchetti di plastica per le consegne online. Negli USA molti Stati hanno limitato la possibilità di usare sacchetti per la spesa portati da casa, altri hanno reso gratuiti quelli forniti dai negozi. Anche alcune catene di cibo e bevande hanno vietato l’uso di bicchieri e contenitori riutilizzabili e sono temporaneamente passati a quelli usa e getta.

E ovviamente c’è chi ne approfitta: nella sezione Covid-19 della Plastics Industry Association, un'associazione di categoria che rappresenta l'industria delle materie plastiche, si legge che questo materiale “diventerà sempre più vitale per aiutare a mantenere le nostre famiglie sane, il nostro cibo fresco e protetto e il nostro personale sanitario al sicuro”.

A differenza di quanto possano pensare i produttori, sarebbe auspicabile che l’allentamento dei divieti di uso della plastica monouso non alteri in maniera prolungata la percezione né il comportamento dei consumatori. Abbiamo il diritto di tutelarci ma allo stesso tempo il dovere di non compromettere l’integrità dell’ambiente più di quanto non sia già successo. Sono bastati pochi mesi, infatti, dall’inizio della pandemia, perché il sistema di gestione dei rifiuti si ritrovasse sull’orlo del collasso. A Wuhan, per esempio, già a marzo i rifiuti sanitari erano aumentati dal livello normale di 40 tonnellate al giorno a circa 240, superando di cinque volte la capacità massima dell’inceneritore di provincia, che è di 49 tonnellate al giorno.

Il fattore più critico è costituito dalla pericolosità di alcuni rifiuti: a causa della persistenza e della contagiosità dei virus, quelli sanitari e quelli domestici provenienti da case di persone positive o in quarantena obbligatoria sono stati classificati come infetti. Per ridurre il timore di trasmissione involontaria e a causa della composizione mista della plastica, il riciclaggio è stato disincentivato; al contrario, accumulo in discarica e incenerimento – previa sterilizzazione – hanno avuto la priorità. Ancora una volta l’effetto è duplice: contenimento del rischio per la nostra salute e aumento dell’impatto ambientale. Seppellire o bruciare materiali plastici si traduce, infatti, in perdita dell’energia usata per produrli, emissioni significative di gas serra e dispersione nel suolo di sostanze nocive. Inoltre, i sistemi di raccolta e smaltimento spesso si sono rivelati inadeguati alla gestione di ingenti quantità di rifiuti – anche per mancanza di personale a causa della stessa pandemia. Il risultato è stato un aumento della dispersione nell’ambiente: mascherine e guanti sono oggetti molto leggeri e quando vengono lasciati, per esempio, in discariche a cielo aperto o semplicemente in cestini per strada possono essere trascinati via dal vento molto facilmente.

Non sono state ancora fatte delle stime numeriche accurate, ma previsioni e reportage fotografici sì. Già ad aprile, il WWF ha rilasciato un report in cui si legge che se anche solo l’1% delle mascherine prodotte venisse disperso si tratterebbe di ben 10 milioni di pezzi. Considerando che il peso di ognuna è di circa 4 grammi, significherebbe caricare sulle spalle della natura 40mila chilogrammi di plastica. Da febbraio l’organizzazione OceansAsia documenta la loro presenza sulle spiagge delle Isole Soko, a largo di Hong Kong. E non è tutto, perché la sperata ripresa da questa malattia globale potrebbe aumentare anziché ridurre il problema. Minori restrizioni significa maggior circolazione di persone e con esse plastica monouso e dispositivi di protezione. Inoltre, la ripresa economica, in nome del recupero della produttività persa, potrebbe non prevedere strategie a basso impatto ambientale.

Serve un piano d’azione globale perché questa rinascita possa essere un’opportunità e non una minaccia. Dipenderà dagli investimenti stabiliti per il decennio 2020-2030: ritorno ai combustibili fossili oppure stimoli green – deboli, moderati o forti. Per quando riguarda l’industria della plastica, per esempio, una delle strategie possibili è quella di disaccoppiare la produzione dalle risorse non rinnovabili, sia come materia prima che come fonte di energia. Oltre che da un capo, quello economico e politico, il cambiamento può originare dall’altro: quello dei consumatori. Cambiando le nostre norme sociali (l’insieme di regole di comportamento non scritte) cambieranno le nostre abitudini e di conseguenza le alternative offerteci dal mercato. Per passare all’azione, dobbiamo esserne consapevoli: la risoluzione della crisi causata da Covid-19 non può avvenire a discapito di altre questioni che l’umanità fronteggia ormai da parecchio tempo. Se prima della pandemia ogni tre tonnellate di pesce nuotava nel mare una tonnellata di plastica, pensare a quello che potrebbe succedere in un mondo post-coronavirus mette i brividi. Come intitolato da un articolo del Guardian uscito nell’estate 2020, in futuro non lontano nel mare potrebbero esserci “più mascherine che meduse”.

 

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