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In ricordo di Pietro Greco: riflessioni su conoscenza, informazione e comunicazione della scienza

Aldo Zollo ricorda Pietro Greco e il suo impegno per realizzare una società democratica fondata sulla conoscenza.

Immagine: Pixabay License.

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Ho conosciuto Pietro durante un lungo ventennio di frequentazioni intorno alle attività di Città della Scienza di cui Pietro è stato un socio fondatore, e altri momenti di collaborazione come giornalista scientifico, tra cui le testate di Scienza in Rete e Radio3 Scienza.

Il filo conduttore dell’esperienza professionale e umana di Pietro: la conoscenza, come bene immateriale per eccellenza su cui si fonda lo sviluppo della società post-industriale. I fondamenti della trasmissione della conoscenza, e quindi il ruolo dell’informazione nell’accrescimento della conoscenza. La condivisione dei saperi e il loro uso consapevole, giusto, democratico per il progresso dell’umanità, scientifico, tecnologico, ma anche artistico e culturale nella sua accezione più ampia. Nella preparazione di questo breve intervento ho riletto alcuni capitoli di un libro, per me illuminante, scritto qualche anno fa da Pietro con Vittorio Silvestrini (fisico, il fondatore di Città della Scienza): «La risorsa infinita, per una società democratica della conoscenza».

La conoscenza è la risorsa infinita

«Il motore primo che traina lo sviluppo della nostra civiltà» scrivono nella prefazione, «il sapere scientifico e l’innovazione tecnologica che ne consegue. Non potrà esservi sviluppo equo - né democrazia compiuta – fino a che questa grande risorsa immateriale non apparterrà a tutti i popoli, ed a tutti i cittadini di ogni Paese».

Sulla differenza tra conoscenza ed informazione, e sul ruolo della scienza nella società dell’informazione e della conoscenza, Pietro Greco ci ha comunicato idee e principii in decine di scritti e di libri, che ne hanno caratterizzato l’azione di scienziato e grande comunicatore scientifico. Nel pensiero di molti, all’epoca delle reti sociali e della comunicazione globale, istantanea e democratica dell’informazione via internet, i due concetti, conoscenza e informazione, appaiono indistinguibili. Conoscere vuol dire essere informati e acquisire informazioni significa accrescere conoscenza.

Eppure, esiste una marcata e chiara differenza che caratterizza il ruolo di entrambe, informazione e conoscenza, nello sviluppo della società moderna. L’informazione può essere quantificabile (addirittura misurabile, pensiamo ai bit ed alla rappresentazione in codice binario delle ampiezze dei segnali fisici), codificata, archiviata su supporto fisico e riproducibile un numero infinito di volte, oggi grazie alla tecnologia digitale. L’informazione è asettica e obiettiva, acquisita mediante osservazioni fisiche e strumentali, viaggia e viene trasmessa in supporti materiali (ciò che definiamo hardware) ed è elaborata dagli scienziati, dagli ingegneri, dai medici e dai biologi che la trasformano in applicazioni pratiche e soluzioni tecnologiche che sostengono il progresso dell’umanità.

Ma la conoscenza non è «mera informazione». È un complesso processo di apprendimento, imitazione e rielaborazione delle informazioni tecniche che conduce a nuovi stadi della conoscenza ed al progresso. Essendo legata ai processi di apprendimento ed imitazione (si pensi al rapporto tra il maestro e l’allievo oppure tra fellow e supervisor nella vita di un moderno laboratorio di ricerca) il processo della conoscenza è necessariamente lungo e articolato e passa costantemente attraverso continui progressi incrementali, ripetuti fallimenti e successi. Quando contestualizzato al mondo scientifico, il processo di produzione di nuova conoscenza è sottoposto alla verifica dei «pari», cioè di coloro che per esperienza, competenza e maturità verificano e legittimano la fondatezza della nuova conoscenza.

Il costo e la produzione di conoscenza

Mentre il costo della riproducibilità dell’informazione è oggi praticamente trascurabile, quello della conoscenza che richiede tempi lunghi, investimenti sostanziali e contributi collettivi e collaborativi, è molto elevato. Per l’ammontare degli investimenti economici necessari ma, soprattutto per la prospettiva di medio e lungo termine dei benefici da essi derivanti, i decisori politici - che hanno generalmente uno sguardo rivolto alla durata breve del loro mandato - fanno una gran fatica ad investire nello sviluppo della conoscenza oltre che nella produzione e condivisione democratica dell’informazione. E talvolta scelgono la seconda a discapito della prima, perché è una via più rapida, indolore ed a ritorno di consenso pubblico garantito nel breve termine.

Mi vengono alla mente a riguardo due contro-esempi di questi tempi recenti. Durante la pandemia, il dibattito pubblico seguito alla constatazione che il numero attuale di posti in terapia intensiva fosse insufficiente a coprire le esigenze di una pandemia in crescita esponenziale, ha posto erroneamente l’accento sull’incapacità degli amministratori pubblici a programmare la spesa per le dotazioni materiali piuttosto che sulle risorse umane. Ignorando che un numero crescente di pazienti richiede in realtà un incremento del personale preposto alla loro assistenza medica. Non si creano dall’oggi al domani, ad esempio, medici specialisti anestesisti, il cui percorso di formazione ha una durata decennale e richiede una pratica consolidata nella routine ospedaliera. In questo campo la «trasmissione ed acquisizione» della conoscenza richiede tempi e costi molto più lunghi di quelli imposti dall’emergenza in corso.

L’altro esempio deriva da uno studio pubblicato da Pietro Greco su Scienza e Rete qualche anno fa e nel quale mi ha coinvolto nell’analisi e nel commento dei risultati. Lo studio riguardava il mio settore scientifico, la geofisica, e l’osservazione, nell’ultimo decennio, di una costante e pericolosa decrescita del numero di docenti e ricercatori in geofisica nelle università italiane ormai prossimo alla soglia critica per la sopravvivenza della geofisica in Italia. In un territorio «geologicamente giovane» e «morfologicamente fragile» come quello italiano, il rischio naturale derivante dall’occorrenza di terremoti, frane ed eruzioni vulcaniche è molto elevato, quando esso è quantificato in termini di probabilità di generare ingenti perdite umane ed economiche. Questa dovrebbe essere una motivazione importante a investire nella produzione di nuova conoscenza in termini di analisi e prevenzione del rischio. Ciò implica destinare risorse tanto alla ricerca geofisica e geologica, quanto alla formazione dei futuri scienziati della Terra.

La parola chiave nell’ambito della scienza dei rischi naturali è la prevenzione.

Per ritornare ai temi cari a Pietro, «prevenzione» non vuol dire solo mettere in sicurezza territori fragili e vulnerabili, ma anche conservare (cioè riprodurre) la conoscenza pregressa dei fenomeni naturali, accrescerla attraverso la produzione di nuove informazioni originate da sistemi osservativi più avanzati e migliorare, attraverso il progresso della conoscenza, la nostra capacità di modellare e simulare la realtà fisica. Utilizzare queste capacità di modellazione dei processi per simulare scenari e prevedere, in senso probabilistico, l’impatto degli eventi naturali, prassi ormai consolidate nelle scienze del clima e della meteorologia.

Ma il tema di cui Pietro è stato uno dei massimi esperti e teorici del nostro Paese, è la comunicazione della scienza nella società della conoscenza. Il ruolo e le forme della comunicazione pubblica della scienza si sono modificate radicalmente nell’era della rivoluzione digitale proprio grazie alla globalizzazione dei processi di trasmissione e condivisione delle informazioni attraverso la rete ed i social network. Il paradigma classico della comunicazione della scienza prevede oggi due ambiti precisi in ciascuno dei quali viene richiesta una nuova modalità di attuazione. In ambito accademico è oggi sempre più un elemento fondante della crescita e della creazione di nuova conoscenza. I progressi scientifici più rilevanti nascono da grandi collaborazioni planetarie degli scienziati, si pensi ad esempio alla fisica delle particelle (l’acceleratore LHC al CERN di Ginevra) oppure alla genetica (il progetto genoma umano).

La comunicazione specialistica diventa pertanto un procedimento scientifico per la condivisione e validazione dei risultati, oltre che per il travaso della conoscenza e la sua duplicazione nella comunità scientifica. Ma nella società democratica fondata sulla conoscenza, gli scienziati sono chiamati a compartecipare alle decisioni rilevanti che riguardano soprattutto l’uso dei risultati scientifici e tecnologici con «pubblici di non esperti». Questi ultimi possono avere diversi gradi di professionalità, competenze tecniche e responsabilità che vanno da quelle degli amministratori, manager e «decisori» degli enti pubblici fino al privato cittadino.

La comunicazione scientifica serve per l’implementazione sociale della scienza.

Da un lato perché il contributo dello scienziato è fondamentale nel supporto alle decisioni in tutti quegli ambiti che richiedono competenze scientifiche qualificate per la pianificazione e per la gestione delle emergenze ambientali, industriali o sanitarie. Dall’altro lato la comunicazione scientifica al pubblico non esperto deve contribuire alla costruzione della «cittadinanza scientifica» (altro concetto caro a Pietro), cioè la consapevolezza e la partecipazione dei cittadini alle scelte che riguardano il loro futuro, che siano esse rispetto all’approvvigionamento energetico, allo smaltimento dei rifiuti, alla messa in sicurezza dei territori. La cittadinanza scientifica è quindi un elemento essenziale di una società democratica della conoscenza.

In molti consessi gli scienziati sono chiamati a dare il loro supporto tecnico ad organi di governo (nel mio campo certamente la Commissione Grandi Rischi, organo scientifico di consulenza sui rischi naturali della Presidenza del Consiglio attraverso il Dipartimento della Protezione Civile).

Soprattutto in situazioni di crisi, come ad esempio l’occorrenza di una sequenza sismica o la fase iniziale di un’eruzione vulcanica, la richiesta pressante alla comunità scientifica è quella di predisporre scenari ed elaborare modelli predittivi sulla possibile evoluzione del fenomeno naturale in corso. Queste informazioni sono vitali per l’attuazione di protocolli di emergenza, ma anche per comunicare il rischio di breve e lungo termine alla popolazione delle aree interessate.

In questo caso specifico dell’emergenza, la comunicazione pubblica della scienza riveste un ruolo chiave nel rappresentare lo stato attuale delle conoscenze sulla base delle informazioni disponibili, i limiti e le incertezze legate ai modelli previsionali, nel distinguere il confine del proprio intervento nel processo decisionale, senza invasione di campo o confusione di ruoli con quello del decisore politico. In particolare, quest’ultimo aspetto, che esprime la neutralità della scienza nel processo decisionale, appare molto delicato ma decisivo nell’accettazione da parte della popolazione delle misure intraprese dagli organi di governo per affrontare la crisi.

In conclusione, riprendendo le parole di Pietro Greco in un articolo pubblicato dalla rivista «Ambiente, Rischio e Comunicazione» sul rischio vulcanico dei Campi Flegrei: «sulla percezione del rischio incide in maniera significativa la conoscenza. Quella analitica. Quella scientifica. In fondo viviamo nella ‘società del rischio’ anche perché abbiamo, grazie alla scienza, una ‘coscienza enorme’ del rischio. E questa ‘coscienza enorme’ – un insieme di attenzione vigile, di informazione e di domanda di partecipazione – è emersa soprattutto grazie allo sviluppo delle conoscenze scientifiche».

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