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L'onda invisibile

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Crediti: Istituto Zooprofilattico Sperimentale del Piemonte Liguria e Valle d'Aosta.

Tempo di lettura: 15 mins

“L’onda invisibile”. È questo il titolo di un articolo pubblicato una settimana fa sul giornale tedesco Süddeutsche Zeitung che riassume la situazione della Germania riguardo le varianti del SARS-CoV-2 secondo gli scenari delineati in una ricerca del Robert Koch Institute.

Proprio per proteggersi da questa onda invisibile, due giorni fa la cancelliera Angela Merkel ha annunciato che il lockdown durerà almeno fino al 7 marzo, concedendo solo ai länder la possibilità, se lo ritengono opportuno, di cominciare a riaprire le scuole. Merkel si confronta con una sfida difficile: incoraggiare i suoi cittadini a continuare a rispettare le regole di distanziamento sociale nonostante i casi stiano diminuendo. La cancelliera ha spiegato che dopo il 7 marzo il parametro che guiderà il governo sarà l’incidenza: se l’incidenza scende sotto 35 casi ogni 100 000 abitanti e lì si mantiene per sette giorni consecutivi, allora i länder potranno decidere di riaprire gli esercizi commerciali sempre rispettando le regole di distanziamento (attualmente l’incidenza in Germania è intorno a 80 ogni 100 000 persone).

Lo studio del Robert Koch Institute (RKI) mostra infatti che anche se la curva è in discesa, la maggiore contagiosità della variante B.1.1.7, stimata durante la terribile ondata che ha colpito il Regno Unito, potrebbe farla ricominciare a salire presto, nonostante l’osservanza delle regole in vigore. Un’onda che sale, quella della B.1.1.7, mentre quella delle varianti storiche (le varianti finora più diffuse in Europa) sembra ritirarsi.

Partendo dall'informazione che a fine gennaio la B.1.1.7 era responsabile per circa il 6% delle nuove infezioni da SARS-CoV-2, i ricercatori dell'RKI hanno tracciato diversi scenari che dipendono da quanto la variante è più contagiosa di quelle storiche (30%, 40% o 50% in più) e dal tipo di misure di contenimento adottate. Nel caso in cui si continuassero a imporre le misure attuali e la B.1.1.7 fosse il 40% più contagiosa, nella seconda settimana di marzo la curva ricomincerebbe a salire e a fine aprile l’incidenza raggiungerebbe i 300 casi ogni 100 000 abitanti. Se fosse il 30% più contagiosa la curva comincerebbe a risalire a fine marzo e a fine aprile l’incidenza sarebbe di circa 80 ogni 100 000 abitanti. Nel caso in cui la variante B.1.1.7 fosse il 50% più contagiosa, l’incidenza a fine aprile supererebbe i 1 000 casi ogni 100 000 abitanti.

Tuttavia, sempre secondo gli scenari dell'RKI, se le regole di distanziamento venissero inasprite fino a portare l’indice di riproduzione netto delle varianti storiche a 0,68, la B.1.1.7 potrebbe essere arginata e la curva tenuta sotto controllo con un’incidenza sempre ben al di sotto dei 50 casi ogni 100 000 abitanti.

In Danimarca la variante sembra essere già più diffusa rispetto alla Germania. Secondo lo Statens Serum Institute, a fine gennaio era responsabile del 13,5% dei nuovi contagi settimanali e oggi questa percentuale sembra essere salita al 20%. Anche in Danimarca, dove c’è il lockdown, la curva sembrerebbe rassicurante a prima vista, stabilmente in discesa dall’ultima settimana di dicembre. Ma, sotto di lei, sta salendo l’onda invisibile.

«Per ora i cittadini hanno accettato le misure di contenimento nonostante i livelli di incidenza stiano scendendo e i dati di mobilità mostrano che il rispetto delle regole è addirittura essere aumentato negli ultimi tempi», ha dichiarato a Science Michael Bang Petersen della Aarhus University coordinatore di un progetto sulla reazione dei governi e della popolazione alla pandemia. Ma la pressione sul governo per riaprire è forte e questa settimana i bambini delle elementari sono tornati a scuola.

E in Italia? Lunedì il Ministero della Salute ha promosso un’indagine rapida volta a stimare il grado di diffusione della variante B.1.1.7 nel nostro Paese. L’indagine somiglia molto a quella condotta in Francia a inizio gennaio, di cui avevamo parlato qui, e che è stata ripetuta il 27 gennaio, includendo anche le varianti B.1.351 e P.1 (quelle emerse in Sud Africa e Brasile, rispettivamente). In effetti il Ministero prevede di ripetere l’indagine fra qualche tempo, anche se non specifica esattamente quando.

L’indagine ha coinvolto le Regioni e le Province Autonome e si è concentrata sui campioni prelevati tramite tampone nasofaringeo nelle giornate del 3 e 4 febbraio. In base all’incidenza del contagio in ogni regione e all’ipotesi che la variante sia attualmente responsabile del 5% delle nuove infezioni, è stata selezionata in maniera casuale una certa frazione dei campioni positivi raccolti in quei due giorni. Di questo insieme sono stati individuati quelli con risultato RT-PCR discordante (che non trovano, cioè, il gene S del SARS-CoV-2, la parte di RNA virale che codifica per la proteina spike del virus). Questo risultato è tipico della variante B.1.1.7 e viene dunque utilizzato per individuare i campioni sospetti tra quelli positivi senza sequenziarli tutti (cioè senza leggere il genoma del virus). Il sottoinsieme così individuato è stato poi sottoposto a sequenziamento per confermare che si tratti effettivamente di B.1.1.7.

Le operazioni di sequenziamento sono state svolte dai laboratori che ciascuna regione ha individuato come riferimento e i risultati dovrebbero essere stati inviati nella giornata di ieri al Ministero della Salute. L’iniziativa è da accogliere con sollievo perché è il primo vero tentativo di affrontare la minaccia delle varianti del virus nel nostro Paese, in particolare la B.1.1.7 su cui il Regno Unito ha lanciato l’allarme ormai quasi due mesi fa. Inoltre, l’iniziativa arriva quando alcune regioni, l’Umbria e Bolzano, stanno registrando un aumento dei casi preoccupante dovuto, secondo le autorità sanitarie, proprio a questa variante e che li ha costretti a imporre nuove e stringenti misure di contenimento (cinquanta comuni della provincia di Perugia e l’intero territorio della provincia di Bolzano sono in zona rossa da lunedì). Ieri è arrivata poi la notizia di 59 casi positivi tra bambini e insegnanti di tre scuole di Bollate. I 4 campioni sequenziati tra questi 59 hanno individuato la B.1.1.7. Ormai sono stati identificati casi riconducibili a questa in tutte le province lombarde, fatta eccezione per Pavia, e per questo da ieri in Lombardia sono cambiate le regole sulla quarantena: dovrà durare 14 giorni e non più 10 e per rientrare in società sarà necessario un tampone negativo anche in assenza di sintomi.

Viene da chiedersi, però, perché nell’indagine promossa dal Ministero della Salute non siano state incluse da subito anche le altre varianti, che sappiamo essere già presenti sul nostro territorio. Un focolaio scoppiato all’interno dell’Ospedale Santa Maria della Misericordia di Perugia che ha coinvolto 30 pazienti (negativi al ricovero) e circa 70 medici, è stato ricondotto alla variante P.1. Un caso di variante B.1.351 è stato registrato a Varese in un paziente ricoverato in terapia intensiva e proveniente dal Malawi. Sarebbe dunque auspicabile cercare anche queste, considerando il fatto che domenica sera il Sud Africa ha deciso di sospendere l’avvio delle somministrazioni al personale sanitario del vaccino AstraZeneca perché non si è rivelato sufficientemente efficiente nell’evitare forme moderate della COVID-19 in un trial clinico che aveva coinvolto persone giovani e in salute.

L’indagine rapida arriva a poche settimane dal lancio del Consorzio italiano per la genotipizzazione e fenotipizzazione di SARS-CoV-2, voluto dal viceministro uscente della salute Pierpaolo Sileri. Del consorzio però non si conoscono né le prospettive di sviluppo, né la dotazione finanziaria, che sembra essere nulla secondo il parere di alcuni esperti che abbiamo consultato. Di certo l’indagine promossa dal Ministero cerca di supplire alla limitatezza delle risorse, sia in termini di competenze che di macchinari, disponibili per il sequenziamento genomico in Italia, anche sfruttando la coincidenza fortuita per cui il kit RT-PCR commercializzato dalla società Thermo Fisher, fra quelli normalmente utilizzati per la diagnosi di infezione da SARS-CoV-2, sia indirizzato proprio alla regione del genoma del virus in cui è presente una delle mutazioni della B.1.1.7 (la delezione 69/70). I risultati discordanti ottenuti con quel kit possono dunque essere usati per scremare i campioni positivi. Non vale lo stesso per le altre due varianti sotto osservazione e non è detto che valga per quelle che emergeranno in futuro. Guardando dunque a un orizzonte un po’ più lungo, la capacità di sequenziare e di interpretare i risultati del sequenziamento sembra essere cruciale, sia per uscire da questa pandemia che per essere più pronti ad affrontare le prossime.

Che l’Italia abbia poca capacità di sequenziamento si capisce anche guardando l’archivio aperto GISAID, su cui tutti i ricercatori del mondo possono depositare le sequenze virali che ottengono nei loro laboratori. Dal 1 dicembre 2020 al 10 febbraio 2021 i laboratori italiani hanno contribuito con poco più di 400 sequenze della variante B.1.1.7 (più correttamente si dovrebbe parlare di lineage B.1.1.7). Per confronto il Regno Unito ne ha depositate circa 57 000, la Danimarca circa 1 000, la Francia circa 600, i Paesi Bassi e la Spagna circa 500, il Portogallo circa 200.

È interessante osservare che delle 440 sequenze italiane relative al lineage B.1.1.7 circa 340 sono state depositate dall’Istituto Zooprofilattico Sperimentale dell’Abruzzo e del Molise a opera del virologo Alessio Lorusso. «Il nostro gruppo di lavoro è ben organizzato, disponiamo di tre macchine per il Next Generation Sequencing e abbiamo in piedi da tempo un sistema di gestione dei dati informatici per conto del Ministero della Salute molto efficiente. In più, ci occupiamo anche della diagnostica; in questo modo possiamo integrare i dati epidemiologici con quelli genomici nelle nostre banche dati di alto livello. Siamo pronti a fare la nostra parte», afferma Lorusso e aggiunge «la rete degli Istituti Zooprofilattici Sperimentali può avere un ruolo cruciale sia nel breve che nel medio e lungo periodo, perché ha competenze che riguardano le malattie infettive di origine zoonotica che se integrate con le attività di diagnostica medica, sarebbero in grado di promuovere un approccio circolare alla salute». Lorusso pensa alla prossima pandemia e sottolinea come questo sia un momento fondamentale per costruire la nostra preparazione.

Secondo Pierluigi Acutis, responsabile dell’unità di genomica dell’Istituto Zooprofilattico Sperimentale del Piemonte Liguria e Valle d’Aosta, si sta ripetendo la situazione che abbiamo già vissuto con i test RT-PCR. «A marzo dello scorso anno, con molto impegno da parte di tutti, il sistema è stato in grado di adeguarsi alle richieste. Il punto non è solo avere le competenze per poter sequenziare, ma anche avere nell’immediato la capacità di sequenziare a ritmo sostenuto, esattamente come succedeva a marzo per la diagnostica molecolare», commenta e aggiunge «il nostro Istituto è ben attrezzato per questo tipo di analisi e stiamo conducendo sequenziamenti diretti all’individuazione delle varianti già da qualche tempo. Nell’ambito dell’indagine rapida prmossa dal Ministero della Salute abbiamo analizzato i campioni della regione Valle d’Aosta».

Esistono sostanzialmente due tecniche di sequenziamento, una si chiama Sanger sequencing e legge la sequenza di nucleotidi che compongono tratti brevi del genoma virale, l’altra, più recente, si chiama Next Generation Sequencing ed è in grado di analizzare l’intero genoma (che per SARS-CoV-2 è costituito da circa 30 000 nucleotidi). La tecnica Sanger potrebbe essere impiegata per cercare le altre varianti del virus diverse dalla B.1.1.7, spiega Acutis «per la B.1.351 e la P.1 non potremo sfruttare il risultato discordante del test RT-PCR, ma visto che conosciamo alcuni tratti tipici del loro genoma possiamo concentrarci in quelle regioni per il sequenziamento e risparmiare tempo». La Next Generation Sequencing (NGS) consente invece di ottenere l’intera informazione genomica di tanti virus in una singola analisi e quindi studiare non solo il gene codificante la proteina S ma tutti gli altri geni strutturali ed accessori eventualmente coinvolti nella virulenza o nella modulazione della risposta immunitaria. I tempi per ottenere i risultati con la tecnica NGS sono di circa 4 o 5 giorni dalla diagnosi di positività di un tampone.

Acutis ci dice anche che alcune società si stanno già muovendo per sviluppare dei test RT-PCR specifici per le varianti che potrebbero tornare estremamente utili per la loro rapida identificazione se queste diventassero le varianti dominanti in Europa nelle prossime settimane.

Questo è lo scenario più probabile secondo un lavoro pubblicato la scorsa settimana dal gruppo di epidemiologi computazionali coordinati da Alessandro Vespignani della Northeastern University di Boston. Vespignani e colleghi stimano che la variante B.1.1.7 sarebbe dominante entro marzo nelle aree metropolitane di Parigi, Madrid, Barcellona, Milano e Roma, assumendo che sia il 50% più contagiosa di quella storica.

Se il loro scenario sembra pessimista, basta guardare ai dati francesi per capire che piuttosto potrebbe essere una stima al ribasso.

Dai risultati preliminari della seconda indagine rapida condotta dall’agenzia Santé Publique, che si è concentrata sui campioni positivi raccolti il 27 gennaio, è emerso che nella regione dell’Île de France – la stessa considerata da Vespignani e colleghi, il 18% dei contagi è dovuto alla B.1.1.7, mentre il 7 e 8 gennaio questa percentuale era pari a circa il 7%. Al livello nazionale la proporzione di casi dovuti alla variante è passata dal 3,3% al 14,6%.

Nel frattempo Macron continua a resistere alle pressioni degli scienziati di imporre un nuovo lockdown e l’Eliseo celebra la sua posizione come «una vittoria dei politici sugli scienziati», mentre il ministro della salute Olivier Véran conferma che la situazione sanitaria è stabile e non giustifica alcun intervento restrittivo. «Il Presidente della Repubblica ha avuto ragione», dice Véran e aggiunge «ogni settimana che guadagniamo senza confinamento è una settimana di libertà in più per i francesi». Un paio di settimane fa fonti vicine a Véran avevano dichiarato che «il governo può imporre un contenimento stringente solo quando l'opinione pubblica può accettarlo. La popolazione è già sull’orlo di un tracollo nervoso». La paura è che esploda un conflitto sociale, come è già successo in altri paesi europei.

La pensa diversamente Bruno Riou, direttore dell’unità di crisi del consorzio di ospedali universitari di Parigi, che in un editoriale pubblicato su Le Monde mercoledì ha scritto che un nuovo lockdown è urgente, soprattutto perché tanto più il lockdown è tempestivo tanto minore sarà la sua durata e dunque il suo impatto sull’economia e l’umore dei cittadini.

Infine, domenica è stato pubblicato sull’archivio di preprint medRxiv il primo studio sulla diffusione della variante B.1.1.7 negli Stati Uniti coordinato dall’immunologo Kristian Andersen dello Scripps Research di La Jolla in California. Andersen e colleghi hanno stimato che sarebbe responsabile dell’1%-2% dei nuovi casi registrati a livello nazionale e che la sua capacità di trasmissione sarebbe tra il 30% e il 40% superiore rispetto alle varianti attualmente dominanti negli Stati Uniti. La ricerca, che si è basata sul sequenziamento di circa 200 campioni positivi, è stata svolta in collaborazione con due società, Helix e Illumina, e ha ricostruito l’arrivo della variante e la sua diffusione sul territorio. La conclusione è che anche in USA la variante ha tutte le potenzialità di diventare dominante. «La nostra ricerca non ha risultati sorprendenti, ma sono risultati che meritano tutta la nostra attenzione», ha commentato Andersen sul New York Times. Anche negli Stati Uniti le attività di sequenziamento sono ancora insufficienti e poco coordinate (sono stati sequenziati circa lo 0,4% dei campioni positivi raccolti finora). Gli scienziati chiedono un finanziamento di 2 miliardi di dollari per portare avanti il piano di sorveglianza genomica del virus coordinato dai CDC, e la loro proposta potrebbe essere accolta nella legge che contiene le misure per affrontare la crisi dovuta alla COVID-19 e che è in discussione in queste settimane al Congresso.

Insomma, gli scienziati si stanno sforzando di rendere visibile l’onda invisibile che monta sotto le curve del contagio, che sembrano decrescere e rassicurare i governi. Eppure appare difficile per alcuni di questi intervenire prima che la situazione sia manifestamente fuori controllo. Tra questi ci sono sicuramente l’Italia e la Francia. Sappiamo ormai che le misure sono tanto più efficaci quanto più sono tempestive, anche perché riportare l’incidenza a livelli sufficientemente bassi rende fattibili e utili le operazioni di tracciamento dei contatti, essenziali per poter poi rilassare il contenimento. Come racconta l’epidemiologo Rodolfo Saracci su Scienza in rete, la proposta degli economisti Esther Duflo e Abhijit Banerjee di istituire lockdown calendarizzati per ridurre l’incertezza e la lunghezza delle restrizioni finora è stata ignorata. Tra un rischio imminente e concreto e uno potenziale e futuro anche se con impatto più catastrofico, scegliamo di proteggerci dal primo.

«La nostra percezione del rischio si è evoluta in centinaia di migliaia di anni per reagire a minacce immediate. È uno strumento rozzo, che però ci ha permesso di sopravvivere e arrivare fin qui, ma non è detto che sia adeguato a fronteggiare le sfide della modernità», commenta Giancarlo Sturloni, che insegna comunicazione del rischio alla SISSA di Trieste e all'Università di Udine. «È lo stesso meccanismo che davanti agli incendi che hanno devastato l’Australia lo scorso anno, ha spinto le autorità ad aumentare le risorse dei vigili del fuoco, piuttosto che ridurre le emissioni. Non siamo molto bravi a valutare gli effetti di lungo termine delle nostre azioni».

La conoscenza scientifica però dovrebbe essere uno strumento che ci aiuta a essere più lungimiranti, «ma ha bisogno di una mediazione. Non basta fornire informazioni per cambiare le convinzioni e i comportamenti delle persone. La comunicazione è prima di tutto una questione di fiducia. I cittadini per essere disposti a cambiare idea devono fidarsi di chi gli spiega che un lockdown oggi probabilmente sarà più breve e quindi meno costoso anche dal punto di vista economico, sia a livello individuale che collettivo, rispetto a uno imposto quando la situazione è fuori controllo. E la fiducia deve essere coltivata in tempo di pace per offrire alle persone una guida credibile durante una crisi come quella che stiamo vivendo. Una comunicazione del rischio efficace non si improvvisa».

L’economia comportamentale ci offre un altro punto di vista per guardare a questo problema. «Siamo tra gli animali più capaci di attribuire un valore a ricompense future e confrontarlo con quelle presenti», commenta Francesco Guala, professore ordinario di economia politica all’Università degli Studi di Milano, «gli esperimenti hanno mostrato che le scimmie sono incapaci di fare ragionamenti del genere. Tuttavia l’incertezza che caratterizza l’epidemia rende estremamente difficile questo tipo di valutazioni, al contrario di quanto accade in ambito finanziario, ad esempio».

L’accettabilità di una misura influisce anche sul grado di adesione dei cittadini. In questo senso il lockdown somiglia a quello che in economia si chiama gioco dei beni pubblici, ovvero una situazione in cui il beneficio collettivo (la diminuzione del contagio, nel nostro caso) si realizza solo se tutti i partecipanti adottano volontariamente un certo comportamento (stare a casa, indossare la mascherina).

«In questo tipo di giochi la trasparenza è fondamentale per massimizzare l’adesione dei partecipanti. Ad esempio tendiamo ad adottare di più i comportamenti indicati se sappiamo che anche gli altri lo stanno facendo. Allo stesso modo siamo motivati a continuare a rispettare le regole quando sappiamo che questo sta avendo l’effetto positivo sperato. Vedere la curva del contagio che si appiattisce ci incoraggia a continuare ad essere rispettosi delle regole di distanziamento», spiega Guala e aggiunge «Tuttavia, i partecipanti non hanno tutti gli stessi costi e benefici. Se posso lavorare da casa il costo di una chiusura generalizzata per me sarà più basso rispetto a chi invece dovrà chiudere la propria attività. Lo stato può quindi intervenire per ridurre le differenze nei costi e nei benefici dei diversi gruppi di cittadini, per esempio attraverso i sussidi di disoccupazione o altre misure di sostegno al reddito. Ma chiaramente questa capacità di intervento è imperfetta e non può estendersi per periodi di tempo troppo lunghi».

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